Intervista a Luca Enriques, professore di Corporate Law, Faculty of Law, Università di Oxford
Con la legge il parlamento ha scelto di incidere sulle contese per il controllo di Mediobanca e Generali. Ma le regole che incoraggiano la presentazione di liste di disturbo da parte di soci che vogliono entrare nel CdA per avere poteri di interdizione produce vittime collaterali: le public company come Prysmian, Finecobank e altre società ad azionariato particolarmente frazionato. Molte delle quali potrebbero scegliere di lasciare l'Italia
Luca Enriques, professore di Diritto societario a Oxford, ex commissario della Consob, non ha mai risparmiato le sue critiche ma anche i suoi suggerimenti (leggi qui, qui e qui) alla riforma del Diritto societario che l’attuale governo ha introdotto nel sistema italiano attraverso la Legge Capitali: in particolare sugli effetti del voto maggiorato e sulla tutela delle minoranze nelle società quotate.
Professore, recentemente il centro studi diretto da Massimo Belcredi, alla Cattolica di Milano, ha analizzato l’impatto della riforma su dei casi reali: come sarebbe cambiato lo svolgimento delle assemblee e il voto, se fosse stata in vigore la legge? Che giudizio dà lei sui risultati che emergono, che dimostrano i vantaggi che ne trarranno gli azionisti rilevanti di minoranza come Gaetano Caltagirone e la famiglia Del Vecchio in due partite campali per il controllo di Mediobanca e Generali?
«Facendo vedere i risultati potenzialmente dirompenti delle nuove regole sul rinnovo del consiglio d’amministrazione in alcune società, il lavoro di Belcredi dimostra che, per ottenere l’obiettivo di evitare la presentazione delle liste del CdA, che quegli azionisti di minoranza percepiscono come un elemento di svantaggio nella loro battaglia per il controllo, è più efficace imporre nuove regole assurde piuttosto che dettare un divieto esplicito. Il risultato è lo stesso».
A prescindere dai casi Mediobanca e Generali, quelle norme hanno un impatto negativo anche sul resto del sistema societario?
«Sì, soprattutto sulle public company. Ci sono poche public company in Italia e quelle poche adesso hanno un problema: prima che si instaurasse la prassi della presentazione della lista del consiglio, dovevano trovare dei soci che si prestassero a presentarne una. Questi, se accettano, lo fanno o perché vogliono influenzare la gestione della società o per fare un favore agli amministratori uscenti. Di fatto, quella lista è sì del socio, ma in questo tipo di società ad azionariato diffuso non è diversa dalla lista del consiglio, perché nelle public company occorre andare a prendere i voti di centinaia di investitori istituzionali, che perlopiù hanno investito perché ritengono che il management stia facendo un buon lavoro».
Che cosa cambia adesso?
«Succede che, introducendo regole che complicano la presentazione della lista da parte del consiglio, si tornerà indietro, alla ricerca del socio “compiacente”. Quando ci sono soci storici o “di complemento”, come è il caso delle fondazioni in IntesaSanPaolo o in Unicredit, di Mediobanca nel caso di Generali o del patto di sindacato in Mediobanca, la lista del consiglio è utile ma non strettamente necessaria, in quanto, con le nuove regole che la scoraggiano, le società in questione chiederanno a questi soci di presentare una lista, come si faceva fino a non molti anni fa. Ma ci sono anche public companies che non dispongono di soci di quel tipo e, al contempo, la Consob non consente a soci con percentuali infime di azioni di presentare una lista. In questi casi è veramente difficile presentare una lista di maggioranza, perché i fondi azionisti presentano le loro liste, di norma attraverso Assogestioni, ma sono liste di minoranza».
Qual è la soluzione in questi casi?
«Nelle public company al 100 per cento, dove non si sa a chi chiedere di presentare la lista, e la lista del consiglio è una strada a rischio, perché le nuove regole di fatto incoraggiano la presentazione di liste di disturbo da parte di soci che vogliono entrare nel CdA per avere poteri di interdizione, la soluzione più ovvia è quella di emigrare. C’è insomma la possibilità che queste public company possano decidere di andare in Olanda, dove la lista del CdA si fa senza problemi».
Ma anche public company come le banche lo possono fare?
«No, né le banche né le assicurazioni e dunque neanche Finecobank, un’altra public company senza azionisti storici: non possono spostare la sede legale in Olanda, perché dovrebbero anche spostarci la direzione generale, l’amministrazione vera e propria. Ciò in base alla legislazione bancaria europea sugli intermediari finanziari, che impone questa regola per impedire che si scelga l’ordinamento più lasco in termini di vigilanza. Tra l’altro, per banche e assicurazioni, le regole europee prescrivono che nella composizione del CdA si debba assicurare anche diversità di vedute e di competenze: un risultato che le nuove regole sull’elezione dei consigli rendono più difficile ottenere».
Come si potrebbe intervenire per emendare i difetti della nuova legge Capitali, secondo lei?
«Il Parlamento ha voluto introdurre due cose criticabili con questa legge: una è la riforma della lista del CdA, l’altra è la possibilità di passare da 2 a 10 voti maggiorati per le società già quotate. Questo, in una legge che è nel complesso condivisibile. Quanto al primo aspetto, occorrerebbe sfrondare la riforma dalle peculiarità che la contraddistinguono, soprattutto quelle sulla rappresentanza rafforzata delle liste di minoranza se superano una certa percentuale di voti (fatta apposta per i casi citati dal lavoro di Belcredi), sul doppio voto sui candidati, perlomeno per chiarire che non votano coloro che hanno votato un’altra lista e, ancora, sul numero di candidati maggiore del numero da eleggere, che rende più complicato e costoso fare una lista, perché nessuno è contento di esser messo in lista sapendo che con ogni probabilità non sarà eletto. Se questi aspetti venissero risolti sarebbe un passo avanti. Quanto al problema che si trovano davanti le public company che non hanno soci storici, ma solo investitori istituzionali che non vogliono presentare una lista per il CdA, la strada potrebbe essere un comma che dica che queste disposizioni non si applicano a società con flottante pari o superiore al 90 o 95 per cento».
Nessun intervento sui casi “ad personam” che interessano Caltagirone e il gruppo Del Vecchio?
«In un mondo ideale, il Governo farebbe marcia indietro e abrogherebbe le norme sulla lista del consiglio o le annacquerebbe fino al punto di renderle irrilevanti per qualunque società. Perché non si giustificano. Ma questa volontà politica chiaramente manca. Quindi è prevedibile che la scelta di incidere sulle contese per il controllo di Mediobanca e Generali non sarà toccata. E tuttavia si dovrebbe almeno evitare di fare vittime collaterali, come Prysmian, Finecobank e le altre società ad azionariato particolarmente frazionato».
Lei è stato sempre critico sul voto multiplo. Deve passare a man salva?
«Secondo me no. Nei paesi in cui è più diffuso il voto multiplo, si va sul mercato con uno statuto che lo prevede già. Così chi compra sa che ci sarà un socio che sarà più potente degli altri. In Italia, complice la mossa di Fiat e altri, che sono andati in Olanda sfruttando una serie di debolezze, si è detto: facciamolo anche noi. Ma si sarebbe dovuto fare con maggiori tutele per i soci esistenti. Invece, consentendolo nelle società già quotate, c’è un trasferimento di ricchezza da soci di minoranza a quelli di maggioranza. Poi, con la legge Capitali, si è andati oltre: si può salire da 2 voti a 10».
Un premio esagerato…
«Consente a chi ha 2 voti, in quanto socio da più di due anni, di votarsi da solo la modifica che lo porta a 10. Se davvero era necessario andare in quella direzione, sarebbe stato opportuno prevedere che anche il socio a cui spettano due voti, abbia un solo voto nelle delibere per passare da 2 a 10 voti maggiorati. Non si è previsto questo accorgimento e ora il socio di controllo, che ha già ottenuto il voto maggiorato e controlla l’assemblea straordinaria, può aumentare ulteriormente il proprio potere. Con la conseguenza che i suoi interessi saranno sempre più disallineati da quelli degli altri soci».
Che impatto può avere la legge Capitali sugli investitori esteri? Non rischia di ottenere il risultato opposto all’obiettivo che si proponeva?
«Ci espone alle critiche di coloro che sono gli unici che comprano azioni, cioè gli investitori istituzionali, visto che il retail ormai o compra attraverso gli istituzionali o fa trading, non vero investimento. Nelle democrazie parlamentari è inevitabile che i rappresentanti siano soggetti a pressioni di lobby ben organizzate, che possono dirottare la volontà del parlamento in direzioni incompatibili rispetto a quelle che erano le intenzioni originarie, in questo caso quelle del Governo di promuovere il mercato azionario italiano».
Non una bella figura.
«Nel merito la norma ha già tanti problemi, ma anche nel metodo questa vicenda non ha giovato alla reputazione del Paese presso i mercati internazionali. Il fatto che il Parlamento si sia così apertamente piegato alle indicazioni di un singolo imprenditore per favorirlo in una contesa per il controllo di una delle principali società quotate, davvero non ci ha fatto fare una bella figura come sistema Paese. La qualità della legislazione e della governance delle nostre società è importante per chi vuole investire in Italia. Un paese che interviene su una materia del genere in questo modo e per queste motivazioni dà prova di inaffidabilità per l’avvenire. Il valore delle tutele che esistono in Italia per chi vuole investire, con questo tipo di misure, si riduce».
Scommetterebbe su un intervento legislativo per togliere le ambiguità e i difetti di cui abbiamo discusso?
«No. Sperando però di essere smentito».