CORPORATE GOVERNANCE/LA SEPARAZIONE TRA PROPRIETA' E CONTROLLO
Gli effetti negativi del voto maggiorato

Intervista a Luca Enriques, professor of Corporate Law alla Oxford University

Una ricerca della Cattolica di Milano analizza il fenomeno tutto italiano dei trasferimenti delle imprese in Olanda. Non sono i vantaggi fiscali ad attirarle, ma la moltiplicazione dei diritti di voto che consente agli imprenditori di contare molto oltre il peso reale dei propri pacchetti azionari. Un sistema che qualcuno vorrebbe importare anche in Italia. Ecco che cosa si muove dietro le quinte e qual è la posta in gioco per le minoranze e per la salute del mercato borsistico

Paola Pilati

Il primo fu Sergio Marchionne. L‘allora amministratore delegato della Fiat, per trasformare la casa automobilistica italiana in un gruppo internazionale con l’operazione Chrysler, portò, su suggerimento dei consulenti legali americani, la sede in Olanda.

Dopo di lui molti altri, come Campari e Mediaset, hanno seguito il suo esempio. Ultimamente ha annunciato di volerlo fare anche la bergamasca Brembo.

Perché tante imprese italiane decidono di trasferire la loro sede legale in Olanda? Vantaggi fiscali? Maggiori opportunità strategiche? No. La risposta è un’altra. Gli imprenditori italiani hanno una passione crescente per i meccanismi di voto maggiorato, che in quel paese sono particolarmente vantaggiosi.

A Marchionne la legislazione sulla governance aziendale di quel paese ha consentito di allargare il perimetro del gruppo mantenendo saldo il controllo nelle mani della famiglia Agnelli-Elkann anche senza la maggioranza delle azioni. Agli altri è quest’ultimo aspetto che preme. E c’è da capirli: chi non coglierebbe senza indugio l’opportunità, perfettamente legale in Olanda ma non da noi, in virtù della quale, anche possedendo pochi voti, si può decidere su tutto come se si possedesse la maggioranza?

Peccato che questo abbia la conseguenza di ridurre i diritti della minoranza degli investitori di quella impresa a meno che zero, rendendoli in assemblea sempre perdenti. È il motivo per cui, all’annuncio di Brembo, le sue azioni sono calate in Borsa.

Di questo squilibrio, cruciale per la salute dei mercati, ci si incomincia a preoccupare.

L’utilizzo del voto maggiorato modello olandese è stato analizzato in una ricerca del Centro di ricerche finanziarie sulla corporate governance della Cattolica di Milano diretto da Massimo Belcredi, che è stata presentata in un convegno di Assogestioni dove ha raccolto i commenti e i punti di vista di molte parti in causa: oltre ad Assogestioni, che rappresenta gli investitori in posizione di minoranza, sono intervenuti Federico Freni, sottosegretario all’Economia, la Consob che vigila sui mercati, diversi professionisti del diritto commerciale e finanziario e l’Assonime, che riunisce le società quotate in Borsa e non può essere felice delle continue fughe.

Qual è il risultato dell’indagine del Centro di Belcredi? Intanto le cifre: dal 2000 al 2021 (ma con una accelerazione dopo il 2012) in Europa hanno trasferito la propria sede in un altro paese 21 società, di cui 15 italiane, 6 tedesche e 5 francesi. E il paese preferito è l’Olanda. La ricerca ha accertato che mentre di alcune motivazioni (meno tasse o libertà di movimento per alleanze e acquisizioni) non c’è nessuna evidenza, è l’adozione del meccanismo sul voto maggiorato, particolarmente permissivo nel sistema olandese, l’obiettivo delle imprese, e sono solo le italiane a utilizzarlo.

Come mai? Perché gli italiani sono agli unici che fanno arbitraggio sul diritto societario andando in Olanda per godere della maggiore libertà sulla moltiplicazione dei diritti di voto, libertà che le società olandesi non usano, come pure non fanno le società che si trasferiscono lì da altri paesi europei? Come si spiega?

Le risposte in questa intervista a Luca Enriques, professor of Corporate Law alla Oxford University.

«Mi sono dato diverse possibili spiegazioni: una è di tipo culturale. Per i francesi e i tedeschi cha vanno in Olanda, mantenere il controllo assoluto su una società, consentito dal possesso di voto multiplo, evidentemente non è così fondamentale. Per i soci delle società italiane ha invece un beneficio tale da compensare quello che pagano, così facendo, in termini di minore diversificazione del patrimonio. Un imprenditore che mantiene il controllo deve continuare a investire in una singola società, invece di diversificare e ridurre il suo rischio, come farebbe chiunque altro. Forse nella nostra cultura c’è una speciale utilità nel potersi dire socio di controllo o fondatore di una grande azienda. E lasciare in eredità un’azienda che si è fatta crescere ha più valore che lasciare un grande patrimonio investito in giro per il mondo».

Quasi una motivazione di ordine psicologico. Ma dovrebbe valere non solo per i capitani d’industria italiani. C’è dell’altro?

«Si possono dare anche spiegazioni in senso lato politiche. Essere azionisti di controllo di una azienda dà una legittimazione maggiore che esserne l’amministratore delegato nei confronti dei governi con cui ci si deve confrontare. Nel confrontarsi con la politica (ma anche con un PM o con l’Agenzia delle entrate) presentarsi come proprietario ha dei vantaggi: in primis, quello della stabilità come interlocutore nel tempo – in una visione cinica vuol dire garanzia su un eventuale scambio di favori – e, collegato a ciò, una maggiore efficacia nel difendere gli interessi della propria azienda in un paese in cui la costituzione economica (formale e ancor più materiale) lascia ampi spazi all’interferenza della mano pubblica sui soggetti privati».

Ci può essere un aspetto legato alla struttura familistica dell’impresa italiana? Il voto maggiorato si può trasferire agli eredi. Immagino per esempio che questo sia il caso di Mediaset

«Il meccanismo rende possibile il trasferimento da padri a figli del controllo sul board. Se non ci fosse il voto maggiorato, per ottenerlo sarebbe necessario un investimento molto più alto. Si consente quindi la crescita di queste imprese grazie al minor capitale richiesto per controllarle».

C’è però anche un aspetto negativo, che lo studio del Centro guidato da Belcredi descrive come effetto “arroccamento”: agli eredi vendere non conviene, sono quasi condannati a rimanere nell’impresa, anche se non hanno il talento imprenditoriale di chi li ha preceduti. Ci spiega perché?

«Gli eredi che possiedono azioni a voto maggiorato possono trovarsi a detenere una quota di capitale molto bassa e se la vendono, venendo meno il voto maggiorato in capo al compratore, non possono cedergli anche il controllo. Quindi chi compra si ritrova, poniamo, il 10 per cento di azioni e pari diritti di voto; per chi vende, quella quota vale il 10 per cento più il valore del controllo (che, secondo varie stime, può essere nell’ordine del 20-30 per cento della capitalizzazione di borsa). Diventa quindi difficile trovare un compratore, perché costui deve sborsare una cifra sufficiente a rendere gli eredi contenti di perdere il controllo, ma poi deve ancora spendere per comprare il restante 40% che serve a lui per arrivare al controllo. Il problema è che in Europa c’è l’Opa obbligatoria e occorre offrire lo stesso prezzo ai soci di minoranza se si supera il 30%. L’operazione di acquisto di questo tipo di azienda da parte del mercato è molto costosa».

Il nostro mercato borsistico viene danneggiato dalla fuga in Olanda?

«Le preoccupazioni ci sono e sono emerse nel convegno. Ma si è registrato anche un sostanziale consenso sul fatto che l’emissione da parte di società quotate di azioni a voto multiplo, o anche a voto maggiorato, può avere forti effetti redistributivi a svantaggio degli azionisti ordinari. In Italia già 70 società hanno emesso azioni a voto maggiorato e 9 hanno deciso di migrare in Olanda per farlo in modo più spinto in termini di separazione tra proprietà e controllo. Questo tipo di operazioni danneggia gli azionisti di minoranza esistenti e rende meno appetibile l’investimento in società italiane: se c’è il rischio che la società diventi una società in cui alcuni soci hanno più poteri degli altri, il prezzo di mercato di tutte le società italiane cala per riflettere questo rischio».

Che cosa si potrebbe fare?

«Da noi la disciplina è carente, sia rispetto a operazioni di trasferimento della sede in Olanda, sia rispetto alla soluzione meno estrema concessa dalla legge italiana sul voto maggiorato (con limite massimo di 2 azioni per voto), pur sempre diluitiva per i soci di minoranza. Quindi si può pensare a maggiori tutele per i soci di minoranza, per prevenire che queste operazioni abbiano effetti negativi nei loro confronti».

Il rappresentante del governo si è dimostrato d’accordo?

«Così è parso. Ed ha anche escluso che si voglia, attraverso il Ddl Capitali, andare verso una “soluzione francese”».

Quale sarebbe?

«Quella di rendere tutte le società a voto maggiorato, tranne quelle che scelgono diversamente. In Francia è stata introdotta nel 2014. Come si è letto, si sta discutendo in Parlamento se introdurre la stessa regola anche in Italia, ma al convegno di Assogestioni il sottosegretario Freni ha affermato che il Governo è contrario».

Immagino che farebbe comodo a molti. Penso a Caltagirone con il suo pacchetto di Generali… Da noi quindi resterebbe il limite dei due voti massimi per azione posseduta?

«Da noi esiste anche la possibilità di andare in Borsa con azioni a voto multiplo, con tre voti per ogni azione: se si è già quotati non si possono emettere azioni a voto multiplo, prima di quotarsi sì».

In quanti lo hanno fatto?

«Lo studio di Belcredi ricorda che solo 6 società, dal 2014, hanno approfittato dell’opportunità del voto multiplo. È un numero basso e il motivo è che ne paghi le conseguenze».

Qual è, viceversa, il massimo dei diritti di voto in Olanda?

«È libero. Alcune prevedono che se hai azioni da 2 anni è doppio, se da 5 è quintuplo, se 10 decuplo. Non c’è limite».

A proposito delle minoranze da proteggere, ci sono proposte?

«Sì. Per esempio l’idea, che era in un vecchio progetto di governo, di concedere agli azionisti di minoranza un voto separato, per cui o la maggioranza della minoranza dice di sì oppure quella operazione non si può fare. Avrebbe senso, viste le statistiche dei voti degli investitori istituzionali riportate nel convegno: nelle delibere delle società che hanno adottato il voto maggiorato, si va da un minimo del 70 per cento di voti contrari a un massimo del 95. Cioè le bocciano quasi sempre. Qualcuno suggeriva che bisognerebbe per lo meno imporre la pubblicità di come hanno votato i soci di minoranza. Questo darebbe l’evidenza del grado di sfavore che esiste per queste operazioni da parte loro. Ma vorrei aggiungere anche un altro tema».

Quale?

«Quello dei poteri speciali di cui gode il governo italiano, che sono stati rivisti e sono particolarmente estesi».

Li ha appena esercitati nel caso Pirelli per mettere all’angolo il socio cinese, che voleva far valere il suo 40 per cento in termini di poteri decisionali. Se n’è avvantaggiato il socio italiano di minoranza, Tronchetti Provera.

«È stata una vicenda significativa. Poiché Pirelli sta sviluppando una tecnologia, che hanno chiamato Cyber, che raccoglie dati sulla viabilità e sullo stato delle strade, il Governo si è convinto (o si è lasciato convincere) che si tratta di una tecnologia critica, che rende Pirelli soggetta a poteri speciali. E li ha esercitati in un modo non proporzionato e, quindi, violando le regole europee. Infatti, non si è limitato a dire al socio cinese “non puoi fare questo e quest’altro”, ma ha detto anche che spetta specificamente al socio italiano esprimere l’amministratore delegato. Si è ingegnosamente trovato un nuovo modo per mantenere il controllo di una società senza disporre dei capitali necessari. E se ciò che conta è avere una “tecnologia critica”, visto che praticamente ogni impresa oggi sta sviluppando tecnologie usando l’intelligenza artificiale e la raccolta dati, con questo precedente tutte le società italiane sono diventate “strategiche”. Prendiamo Brembo: vuole che non abbia una tecnologia che sfrutta l’intelligenza artificiale e quant’altro per migliorare l’efficacia dei propri sistemi frenanti, che poi potrebbero avere un uso militare sui mezzi corazzati degli eserciti di potenze amiche e nemiche? E questo ci riporta anche al tema principale».

In che senso?

«Siccome la delibera di trasferimento della sede all’estero è soggetto ai poteri speciali del Governo, se una società “strategica” vuole trasferirsi in Olanda, dovrà chiedere il permesso al Governo. Questo vuol dire che il Governo potrebbe risolvere il problema delle migrazioni in Olanda trovando una tecnologia critica per ciascuna società che si accinga ad andarsene. Chissà se lo farà».