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Come tutelare i diritti delle minoranze in Olanda

Migrazioni societarie, parte seconda: che fare?

Alla radice di queste migrazioni vi è un conveniente incastro tra regole italiane e regole olandesi, dove le regole italiane sono inadeguate a tutelare i soci di minoranza. Come migliorarle? Ecco quattro possibili misure che vanno in questa direzione

Luca Enriques
foto Enriques DSC_0490

In un articolo precedente abbiamo analizzato il fenomeno della migrazione in Olanda per sfruttare l’ampia libertà di attribuire ai soci di controllo più voti in assemblea e come la maggiorazione  del diritto di voto possa comportare un pregiudizio per i soci di minoranza e, in generale, avere un effetto negativo sull’appetibilità delle azioni di società quotate italiane.

Si è visto anche che alla radice di queste migrazioni vi è un conveniente incastro tra regole italiane e regole olandesi: le seconde si applicano solo per valutare il risultato (lo statuto della “nuova” società olandese), non anche la correttezza del processo che porta una società italiana a diventare olandese. Tale processo è regolato dalle regole italiane, che sono profondamente inadeguate a fornire adeguata tutela ai soci di minoranza. Come migliorarle? In questo post, fatte due premesse, suggerisco quattro possibili misure che vanno in questa direzione.

La prima premessa è che occorrerebbe avere l’accortezza di dettare regole valide per tutti i casi in cui si voglia adottare il voto maggiorato, che lo si faccia secondo il diritto interno o mediante trasferimento in Olanda: altrimenti, sarebbe alto il rischio che le regole in questione possano essere giudicate incompatibili con i Trattati Europei.

La seconda premessa è che l’esigenza di tutelare i soci di minoranza e, con essi, il mercato azionario italiano nel suo complesso, sussiste solamente nell’ipotesi in cui sia una società già quotata a convertirsi al voto maggiorato (con o senza migrazione in Olanda), non anche nel caso di società che si quotino già avendo scelto di attribuire speciali diritti di voto a taluni dei soci ovvero la maggiorazione del voto a favore di soci di lunga data.

In un’eventuale revisione di questa materia, sarebbe anzi opportuno muovere nella direzione di una maggiore autonomia statutaria nella conformazione dei diritti di voto per le società in procinto di quotarsi. Infatti, gli investitori che comprano le azioni in sede di quotazione o successivamente lo fanno a un prezzo che già sconta le distorsioni che il voto maggiorato o plurimo può comportare e, dunque, non subiscono alcun danno; corrispondentemente, i soci di controllo subiscono gli effetti patrimoniali delle proprie scelte circa gli speciali diritti di voto, grazie allo sconto sul prezzo di quotazione che il mercato ritenga di imporre.

Ciò invece non avviene quando sia una società già quotata a deliberare la maggiorazione del diritto di voto. Non a caso, i paesi più liberali (ad esempio, gli Stati Uniti) in materia di voto plurimo tendono ad ammetterlo senza limiti in fase di quotazione ma, per le società già quotate, ne rendono l’adozione estremamente difficile.

Che fare, dunque, per le società già quotate? Come prevedeva un paio di anni fa una proposta del Ministero dell’Economia che non fu mai portata all’attenzione del Parlamento (v. qui), sarebbe utile prevedere l’approvazione da parte di una maggioranza degli azionisti di minoranza per le delibere di maggiorazione del voto. In aggiunta, la delibera dovrebbe essere soggetta a un parere vincolante di un comitato di amministratori indipendenti.

Queste soluzioni sarebbero utili, ma per vari motivi non anche sufficienti: in primo luogo, nelle società medio-piccole gli investitori istituzionali sono poco presenti e gli azionisti persone fisiche votano raramente. Inoltre, azionisti vicini al socio di controllo spesso riescono a far contare il proprio voto tra quelli delle minoranze. Ancora, per essere “sincera”, l’approvazione della maggioranza dei soci di minoranza, come le corti del Delaware affermano per le operazioni in conflitto d’interessi, dovrebbe essere scevra da elementi di coartazione, quali la minaccia implicita di operazioni anche più punitive nel caso di mancata approvazione; il che tuttavia richiederebbe ai tribunali italiani di compiere valutazioni che presuppongono una propensione ad addentrarsi nelle specificità dei casi concreti che è loro sconosciuta. Infine, sull’effettiva indipendenza degli amministratori di una società con un azionista di controllo non può riporsi troppo affidamento.

Qualche ulteriore tutela sarebbe dunque consigliabile.

Uno strumento che si potrebbe rendere più efficace è il diritto di recesso. Esso, per inciso, meriterebbe una revisione complessiva, anzitutto mediante una più precisa individuazione delle relative cause, oggi affidate a formule generiche e comprendenti anche fattispecie (quali ad esempio la modifica dell’oggetto sociale) non tali da giustificare un rimedio così drastico.  Tra queste fattispecie, invece, oltre al trasferimento della sede all’estero già oggi previsto, occorrerebbe includere le delibere di introduzione del voto maggiorato.

Si potrebbe intervenire poi sul prezzo di rimborso delle azioni del socio recedente: ad esempio, prevedendo che il prezzo di rimborso sia pari alla media ponderata dei sei mesi precedenti (o anche un periodo inferiore: non si vede perché si debba risalire tanto indietro nel tempo) o, se superiore, a quello che si ottiene estrapolando dall’andamento dei corsi nei sei (o tre) mesi precedenti. Così, se nel periodo precedente all’annuncio dell’operazione il titolo è cresciuto del 10 per cento (da 10 a 11 euro) e ha avuto un prezzo medio di 10,5, il prezzo di recesso dovrà essere pari a 11,55 euro (10,5 più 1,05 euro). Si eviterebbe così che il socio di controllo possa scegliere una tempistica dell’operazione tale da rendere irrilevante la tutela che il legislatore ha previsto accordando il recesso. (Né il prezzo di recesso farebbe necessariamente da tetto al prezzo di mercato nelle operazioni che creano valore per tutti i soci, perché, com’è già prassi, la società potrebbe subordinare un’operazione alla condizione che i soci recedenti non rappresentino più di una determinata quota del capitale.)

Infine, si è detto che con la migrazione in Olanda è possibile conseguire un risultato che una società olandese potrebbe non conseguire altrettanto facilmente, in presenza di un controllo delle corti di quel paese sulla correttezza della procedura seguita che invece non si applica alle società migrate dall’estero. A questo riguardo potrebbe pensarsi a una norma secondo cui il trasferimento di sede o una fusione transfrontaliera, almeno ove porti a meccanismi di attribuzione del voto non consentiti dalla legge italiana, debbano avvenire secondo le regole procedurali e nel rispetto dei principi dettati a tutela delle minoranze del diritto societario che si applicherà alla società ad esito dell’operazione (nel caso di specie quello olandese), sempreché ne consegua un risultato più favorevole ai soci di minoranza. Poiché l’eventuale contenzioso si svolgerà nel paese di destinazione (data la tendenza dei giudici italiani a non sospendere l’efficacia della fusione), sarà il giudice olandese a conoscere del caso sommando a quelle italiane le tutele di diritto olandese, in particolare applicando i principi di ragionevolezza e correttezza al processo di approvazione dell’operazione.

In conclusione, la fuga in Olanda delle società quotate italiane è un fenomeno che impoverisce il mercato azionario italiano nel senso sia che distrugge la sia pur piccola frazione di PIL relativa ai servizi ad esso collegati, sia che può pregiudicare gli interessi degli investitori in società quotate italiane.

Per quanto molti buoi siano già scappati, iniziative volte a prevenire questa fuga appaiono dunque giustificate. La strada sbagliata sarebbe quella di diventare più olandesi del diritto olandese e, con margini di libertà che esistono in ben pochi paesi, liberalizzare l’emissione di azioni a voto multiplo o maggiorato per le società già quotate. Più utile sarebbe invece introdurre dei paletti procedurali per rendere queste operazioni più rispettose degli interessi delle minoranze. Le proposte qui avanzate sono solo alcuni esempi di come si possa procedere in questa direzione. 

L’autore desidera ringraziare Anne Lafarre, Federico Cenzi Venezze e Alessio Pacces per le delucidazioni sul diritto olandese e i preziosi commenti a una versione precedente. Gli errori e le inesattezze eventualmente rimasti sono da attribuire esclusivamente all’autore.