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GOVERNANCE SOCIETARIA
I consigli d'amministrazione possono diventare un Vietnam

intervista a Massimo Belcredi, professore ordinario di Finanza aziendale alla Cattolica di Milano

Una simulazione mette a nudo i difetti della Legge Capitali, approvata da poco. Può rivoluzionare i consigli d'amministrazione e aumenta a dismisura il potere degli azionisti di minoranza. Ecco cosa sarebbe potuto succedere se fosse stata applicata nelle recenti assemblee di Generali, Mediobanca e Telecom. E cosa potrebbe ancora succedere

Paola Pilati

Appena fatta, la legge Capitali rischia di risultare inutile: le nuove norme che trasformano le regole della governance delle società quotate in borsa, possono consentire agli azionisti di minoranza di acquistare un potere maggioritario, di costituire minoranze di blocco in grado di paralizzare il cda, di mettere un numero di propri uomini nel board tale da balcanizzare la gestione della società.

Che la legge avesse molte magagne era noto agli stessi parlamentari che l’hanno approvata, i quali, all’atto stesso di licenziarla dal Parlamento, chiedevano con un ordine del giorno al governo di rivederla. Nulla è successo. Tant’è che gli investitori stranieri, soprattutto grandi fondi globali come Axa, Amundi, Blackrock, hanno mosso l’International Corporate Governance Network per criticare molte delle nuove regole, avvertendo che possono rendere il mercato italiano “meno competitivo e meno attraente”. Proprio il contrario di quello che il governo si vantava di avere fatto.

A mettere a nudo e far toccare con mano gli effetti potenziali della legge ci ha pensato Fin-Gov, il Centro di ricerche finanziarie sulla corporate governance dell’Università Cattolica di Milano, diretto da Massimo Belcredi, che ha condotto con Stefano Bozzi – sono entrambi ordinari di Finanza aziendale – un esercizio molto originale: attraverso un’analisi di simulazione su dati reali, ha verificato quale impatto avrebbe avuto la legge capitali se fosse stata già in vigore alla data delle più recenti assemblee.

Risultato: con la legge capitali alcune delle battaglie campali della finanza italiana, da Mediobanca a Generali a Telecom avrebbero potuto avere un altro epilogo. Cioè i principali soci di minoranza – Caltagirone, la Delfin dei Del Vecchio e Vivendi – in questi tre casi avrebbero potuto ribaltare il risultato a loro vantaggio al momento del rinnovo dei CdA. Cosa che potrebbe ancora capitare in futuro. Insomma una legge che ha un potenziale rivoluzionario, e che soprattutto crea un incredibile potere nelle mani degli azionisti “forti” di minoranza.

Il perché lo spiega in questa intervista Massimo Belcredi.

I due principali punti critici della legge che voi individuate e sottoponete alla simulazione, sono: il primo, qual è la quota di posti destinata alla minoranza in una società dove il CdA ha presentato la sua lista per il rinnovo dei suoi componenti. La legge infatti non chiarisce se nell’assegnazione dei posti debba valere un criterio maggioritario o proporzionale, e in questo secondo caso, se valga un proporzionale puro o limitato.  Il secondo punto critico, che riguarda sempre il rinnovo del CdA e quindi chi guiderà la società, riguarda la votazione – il cosiddetto secondo turno – dei componenti effettivi del CdA scelti tra i nomi della lista lunga presentata dallo stesso CdA e risultata maggioritaria. Votano tutti gli azionisti o solo quelli che hanno votato al primo turno? La legge anche qui lascia molta ambiguità. Ci spiega con quali conseguenze?

«L’esito più macroscopico è quello dei tre casi citati: in Mediobanca e Generali la nostra simulazione mostra che avrebbe potuto formarsi una minoranza di blocco, perché Caltagirone e Delfin, presenti in entrambe le società, avrebbero potuto coagulare i loro pacchetti e arrivare ad avere, con il sistema proporzionale puro, il 43,6% in Generali e il 41,7% in Mediobanca. Così avrebbero ottenuto oltre il 40 per cento dei posti. Una minoranza di blocco, per esempio, può impedire al CdA di presentare una sua lista al giro successivo, o può imporre l’inserimento di candidati graditi».

Per i soci di minoranza, grazie alla legge Capitali, si tratterebbe quindi di rinviare al prossimo rinnovo il regolamento di conti con una maggioranza a cui già si oppongono…

«Nel 2025 va al rinnovo il CdA Generali. Se tutto prosegue immutato e se la legge viene interpretata nel senso di dover applicare il proporzionale puro, Caltagirone presenta una sua lista e ottiene il 40% dei seggi, per cui ci si trova con un consiglio in cui il socio critico ha un peso robusto e può dare battaglia su molte delibere. Può diventare un Vietnam».

Scenario ulteriore?

«Quando nel ’28 ci sarà il rinnovo successivo, il CdA, se vuole presentare una sua lista, dovrà ottenere l’assenso dei consiglieri di minoranza nominati da Caltagirone. Ma siccome quella parte accusa il CdA in carica di avere fatto una lista civetta per conto di Mediobanca, è possibile che essi blocchino la lista del CdA, costringendo altri soci favorevoli al board attuale a uscire allo scoperto, con esiti imprevedibili: diventerebbe una competizione tra due soci, ciascuno dei quali ha quote limitate del capitale e gli investitori istituzionali sarebbero l’ago della bilancia. Investitori che generalmente appoggiano la lista del CdA, mentre in una contesa tra soci potrebbero votare in altro modo».

Questa è una interpretazione che deriva dalla simulazione che avete fatto…

«Una interpretazione, certo. Ma serve a far capire dove può portare l’ambiguità lasciata dalla legge. Servirebbe un chiarimento – come auspicato dallo stesso Parlamento – nel senso che le società possano stabilire in statuto un cap alla quota della minoranza, diciamo un terzo dei posti; nello studio abbiamo chiamato tale sistema “proporzionale limitato”. Altrimenti si può arrivare al paradosso del caso Telecom, in cui la lista di minoranza può ottenere il la maggioranza dei posti in consiglio».

Spieghi come.

«È il caso più clamoroso. Nell’ultima assemblea di Tim, Vivendi, con le nuove regole, avrebbe potuto ottenere il 48 per cento dei voti che – per una serie di tecnicismi che sarebbe lungo spiegare – si traducono in una maggioranza dei seggi in consiglio e quindi cambiare la storia della società. La CDP, soggetto pubblico anche se non consolidata nel bilancio dello Stato, sarebbe stata messa al tappeto nell’assetto di Telecom. E questo grazie all’effetto boomerang di una legge di questo governo. È legittimo il dubbio che qualcuno abbia fatto male i conti».

Eppure l’interpretazione maliziosa era che con questa legge si volessero avvantaggiare i soci forti delle partite Generali e Mediobanca.

«Se vogliamo parlare di fanta-diritto, qualcuno ha proposto una interpretazione ancor più maliziosa».

Quale?

«Che questa legge è stata scritta per non essere mai applicata. È scritta in modo così farraginoso, che difficilmente gli emittenti presenteranno una lista del CdA, perché correrebbero rischi di litigation molto forti. Si avrebbe una sorta di delitto perfetto: la legge spaventa i CdA uscenti e li induce a non presentare la lista. Non avremo mai la prova provata che la legge favorisce tizio o caio, o funziona male o contiene elementi di incostituzionalità perché è sufficiente l’effetto deterrente per eliminare la lista del CdA alla radice».

A parte i casi di cui abbiamo parlato, le ripercussioni sul sistema sono più ampie?

«Sì, perché si genera un ulteriore problema alle società dove non c’è un azionista in grado di presentare una propria lista. Queste società si troveranno nell’alternativa di far comunque presentare una lista al CdA in un sistema che non si sa come si applica e ha rischi nascosti, oppure di trovare qualcuno che sia disposto a presentare una sua lista».

C’è un esempio tra quelli che avete esaminato?

«Il caso Prysmian. È una vera public company, i cui primi azionisti sono fondi americani che non hanno nessuna intenzione di diventare azionisti attivi né di presentare una lista. Lo scenario alternativo, sempre possibile, è quello di trasferire la sede all’estero, dove questi problemi non esistono. Come fanno peraltro alcuni gruppi italiani, molto critici con la lista del CdA in Italia, salvo poi adottarla senza nessuna esitazione nelle proprie società basate in Francia o in Olanda».

La legge è stata approvata in marzo. La Consob entro 30 giorni avrebbe dovuto dare le disposizioni attuative. Mai arrivate.

«È lecito sperare che essa intervenga o chiedersi perché non sia ancora intervenuta. Ma non so se per raddrizzare questa legge può bastare un intervento  della Consob. Serve proprio un nuovo intervento legislativo».

Con la nuova legge le Public company finiscono per diventare terreno di guerre feudali?

«Il legislatore ha certamente voluto dare un peso maggiore all’azionista di minoranza nei consigli d’amministrazione. È stato rafforzato il suo ruolo e in certi casi può prendere il controllo del CdA, forse senza lanciare un’opa. Nelle public e quasi public companies si è scelto di potenziare il ruolo di azionisti che hanno quote limitate (e quindi potenziali conflitti di interesse molto forti). A questo si aggiungono altre norme della legge, che favoriscono gli azionisti di controllo nelle società ad azionariato concentrato. Alludo alle norme che hanno potenziato i sistemi di voto multiplo (nelle due fattispecie del voto maggiorato e del voto plurimo): esse consentono di moltiplicare il potere di voto da 2 (o rispettivamente 3) a 10 voti per azione. Queste norme rafforzano gli azionisti che hanno già una posizione forte a discapito degli azionisti di minoranza. Non c’è dubbio, almeno per il voto maggiorato, che sia una norma redistributiva, a favore degli azionisti maggiorati e a danno degli altri. Infine, c’è un altro aspetto».

Quale?

«Nel voto maggiorato queste alchimie sui diritti di voto vengono consentite quando la società è già quotata. Il voto plurimo non dà problemi perché può essere adottato solo prima dell’Ipo e quindi il mercato può far pagare all’azionista di controllo il peso del sospetto attraverso una riduzione del prezzo di collocamento. La differenza tra voto maggiorato e plurimo si vede dal loro successo relativo, molto diverso nei due casi. Oggi circa un terzo delle società quotate (73) hanno voto maggiorato, mentre quelle con voto plurimo sono solo 6».