Parte prima: il fenomeno e gli interessi in gioco
Perché le società quotate continuano a emigrare in Olanda. Chi ci perde. E quali sono i deficit della legge italiana
Campari, CNH Industrial, Exor, Ariston, Stellantis e Mediaset: questo un parziale elenco delle società quotate italiane che negli anni scorsi hanno scelto di trasformarsi da società di diritto italiano a società di diritto olandese.
E che così facendo hanno scelto una struttura azionaria che consente di moltiplicare i diritti di voto dei soci di lunga data (c.d. voto maggiorato): nella versione più comune (e semplificando rispetto alle tecnicalità proprie di ciascun ordinamento), chi è stato azionista della società per un certo tempo, può ottenere, per ciascuna azione, uno o più diritti di voto.
In Olanda non esistono particolari vincoli di legge, salvo il rispetto dei principi di parità di trattamento e di ragionevolezza e correttezza (artt. 2:8 e 2:92, par. 2, Codice civile olandese) e c’è anche il vantaggio che il consolidamento del controllo per chi già detenga una partecipazione superiore al 30 per cento non determina obblighi di Opa.
Tutto ciò a differenza della legge italiana, che prima del 2014 non consentiva la maggiorazione del diritto di voto, mentre dal 2014, proprio nel tentativo di bloccare la migrazione in Olanda dopo che l’ex galassia Fiat aveva fatto da apripista, prevede il voto maggiorato ma con vincoli molto più restrittivi: ad esempio, il possesso continuato anteriore all’adozione del voto maggiorato non può contare ai fini dell’attribuzione del medesimo e il massimo numero di ulteriori voti per azione è uno. Inoltre, l’incremento del numero di voti in capo a chi detenesse una quota tra il 30 e il 45 per cento può comportare l’obbligo di acquistare tutte le restanti azioni a un prezzo potenzialmente elevato (Opa obbligatoria da consolidamento).
Dati questi vincoli, l’esodo verso la più liberale terra olandese è continuato anche dopo il 2014. Ma quanto danneggia il sistema Italia, questa migrazione?
La trasformazione in società olandese non implica il trasferimento della sede amministrativa e tanto meno degli stabilimenti di produzione; e non comporta necessariamente una modifica delle politiche di investimento (se ampliare la produzione in Italia o all’estero) né il venir meno della quotazione sul mercato azionario italiano. Inoltre, ha effetti limitati sul piano fiscale: contrariamente a quanto spesso si legge, le imposte sul reddito della società si pagano dove i redditi sono prodotti, non nello stato in cui la società ha la propria sede legale.
Chi ci perde sicuramente sono i prestatori di servizi collegati al diritto societario: i professionisti legali e contabili nonché il regolatore del mercato mobiliare italiano, cioè la Consob. I primi perdono grandi clienti a vantaggio dei propri concorrenti olandesi; la seconda vede ridotto il novero dei poteri che può esercitare anche nel caso in cui la società migrata resti quotata in Italia.
Ma, al di fuori di questa cerchia di interessati tutto sommato ristretta, ciò che più conta è che a perderci sono anche gli azionisti di minoranza delle società che sono migrate o migreranno. Infatti, come la prassi ampiamente conferma (v. ad es. qui), il solo ad approfittare della maggiorazione del voto è il socio di controllo: per quasi tutti i singoli soci di minoranza la maggiorazione ha un impatto minimo in termini di potere di influenzare l’esito dell’assemblea, richiede di rinunciare ai guadagni che derivano dal dare in prestito le azioni e, almeno in alcuni paesi, crea un ostacolo alla possibilità di vendere celermente le azioni. Non gli conviene, quindi, richiedere la maggiorazione del voto.
Ne discende che la maggiorazione del voto del socio di controllo corrispondentemente riduce il potere di voto in capo ai soci di minoranza, che possono ad esempio perdere il potere di influenzare le delibere dell’assemblea straordinaria assegnato loro dalla legge Draghi del 1998 (grazie al quorum dei due terzi dei voti espressi).
Inoltre, il voto maggiorato consente al socio di controllo di avere la maggioranza in assemblea detenendo una quota di capitale più bassa. Ciò rende più conveniente l’estrazione di benefici privati del controllo, ossia l’appropriazione di valore a danno delle minoranze, ad esempio attraverso operazioni con parti correlate o compensi eccessivi. Questo perché, se il socio di controllo ha il 51 per cento delle azioni e si appropria di 100 euro della società, si arricchisce in realtà di 49 euro (gli altri 51 passano da una sua tasca all’altra). Se invece ha il 10 per cento delle azioni, ma grazie al voto maggiorato continua a controllare la società, rubando 100 euro dalle casse della società si arricchisce di 90.
A parità di altre condizioni, vi è dunque da attendersi che il valore delle azioni in mano ai soci di minoranza si riduca in presenza di queste operazioni. In altri termini, di per sé la scelta del voto maggiorato danneggia i soci di minoranza.
È pur vero che la riduzione del valore delle azioni conseguente all’adozione del voto maggiorato all’olandese è difficile da misurare empiricamente, per la molteplicità dei fattori che incidono sul prezzo in ogni dato momento, incluso il fatto che non sempre l’unica novità che si annuncia è il trasferimento in Olanda con adozione del voto maggiorato. Ancora più difficile è provare che, come tuttavia è plausibile, il mero rischio di un trasferimento in Olanda con adozione del voto maggiorato (secondo modalità potenzialmente più favorevoli al socio di controllo di quello previsto dalla legge italiana) incida negativamente sul valore di tutte le società quotate italiane, ciascuna di esse (salvo quelle a controllo diffuso, soggette a vigilanza o controllate dallo Stato) potendo un domani procedere nella stessa direzione.
Ciò nondimeno risponde al buon senso che con la maggiorazione del voto (effettiva o potenziale) diventi meno appetibile l’investimento in azioni quotate italiane; e che anche il prezzo di vendita delle azioni in sede di quotazione si riduca. In conclusione ne risente il mercato azionario nel suo complesso, con effetti negativi più in generale per il costo del capitale delle imprese ad alta crescita, come ad esempio le startup, per le quali la quotazione in borsa (al prezzo più alto possibile) è l’esito migliore dal punto di vista dei fondatori.
Pertanto, porre un freno alle migrazioni verso l’Olanda si giustifica per l’esigenza di proteggere non solo i ricavi di coloro che prestano servizi collegati al diritto societario italiano ma anche, e soprattutto, le minoranze azionarie e, più in generale, il mercato azionario italiano nel suo complesso.
Date queste premesse, la soluzione non può essere quella di consentire alle società che già sono quotate in Italia di fare, restando in Italia, quello che possono ottenere trasferendosi in Olanda. Ciò risolverebbe il problema della protezione dei ricavi da servizi collegati al diritto societario italiano, ma non tutelerebbe anche il mercato azionario italiano e le minoranze azionarie, che forse un legislatore illuminato dovrebbe avere più a cuore dei primi. E tuttavia, soluzioni che consentissero di conseguire il secondo obiettivo tutelerebbero anche gli interessi dei professionisti del diritto societario.
Per illustrare come si possa procedere nella giusta direzione, occorre evidenziare che l’anomalia per cui ci si può avvantaggiare del diritto olandese per ottenere un voto “più” maggiorato di quanto consenta la legge italiana è il frutto della combinazione di tre circostanze, in aggiunta a quella per cui, come si è detto, il diritto olandese lascia maggiori margini di libertà nella configurazione del voto maggiorato.
In primo luogo, la disciplina del procedimento di approvazione dell’operazione di trasferimento di sede in Olanda o di fusione per incorporazione con una società olandese è quella italiana: la nuova società olandese nasce senza che la correttezza (fairness) degli aspetti procedurali dell’operazione che porta alla migrazione in Olanda con adozione del voto maggiorato possa essere oggetto di valutazione da parte delle corti olandesi alla stregua del loro diritto. Semmai un contenzioso dovesse sorgere, sarà da decidere secondo la legge italiana. Il giudice olandese può solo essere chiamato a valutare se lo statuto adottato sia conforme alla legge olandese, ma non anche se sia conforme alla legge olandese il procedimento seguito dalla società per diventare olandese (e ciò fu vero anche nel caso di Mediaset, in cui la Corte infatti valutò la correttezza del procedimento seguito sulla base del diritto italiano). In particolare, è precluso alla corte olandese valutare se tale procedimento sia conforme al principio di correttezza (fairness) espresso nell’art. 2:92, par. 2, del Codice civile olandese, che potrebbe portare a risultati di maggiore tutela per gli azionisti di minoranza: le corti olandesi sono infatti note per avere un approccio tendenzialmente più sostanzialista e intrusivo che altrove in Europa nei confronti di situazioni di potenziale conflitto d’interessi dei soci.
In secondo luogo, la tutela che la legge italiana appresta ai soci di minoranza nel caso di un’operazione di trasferimento della sede o di fusione per incorporazione con una società olandese è scarsa. Infatti:
In conclusione, le migrazioni societarie verso l’Olanda sono un problema soprattutto di protezione delle minoranze, frutto tanto dell’assenza di vincoli alla maggiorazione del voto nel diritto societario olandese, quanto di un quadro di tutele deficitario nella legge societaria italiana. In un separato post ho indicato alcune possibili soluzioni per rafforzare la tutela delle minoranze di fronte a queste operazioni.
L’autore desidera ringraziare Anne Lafarre, Federico Cenzi Venezze e Alessio Pacces per le delucidazioni sul diritto olandese e i preziosi commenti a una versione precedente. Gli errori e le inesattezze eventualmente rimasti sono da attribuire esclusivamente all’autore.
L’articolo è stato modificato in data 15 luglio per profili formali.
1. Nell’unico e risalente caso riguardante una delibera di maggiorazione del voto, la Corte del Delaware non ritenne di applicare lo stesso criterio (Williams v. Geier). E tuttavia, come ricorda la corte in Ira Trust FBO, essa pervenne a questa conclusione anche sulla base dell’assenza di prova che una maggioranza degli amministratori fosse interessata o avesse agito allo scopo di rendersi inamovibili ovvero che il consiglio d’amministrazione fosse dominato o controllato dalla famiglia controllante, ossia sulla base di elementi procedurali.