Il Green Deal, il cammino verso la decarbonizzazione del continente, è messo a dura prova dall'attuale emergenza gas. Potrà continuare al passo immaginato? Analisi del perché l'Europa è oggi così vulnerabile
La guerra, con la crisi sulle forniture energetiche e l’impennata dei prezzi, sta mettendo a dura prova l’impegno europeo alla decarbonizzazione. Tutta la strategia programmatica, la struttura ideologica, la strumentazione regolatoria, vengono rimesse sotto scrutinio: ci si chiede, in buona sostanza, se non sia il caso di sospendere le scadenze, allungare la tempistica, allentare gli obblighi.
Qualsiasi passo indietro nella strategia del Green Deal con cui l’Europa si è messa all’avanguardia dello sforzo mondiale contro il riscaldamento climatico sarebbe un favore a Putin, che da proprietario di risorse fossili non è mai stato contento della prospettiva di decarbonizzazione nel suo maggior cliente. Ed è evidente che sta facendo di tutto per farla fallire.
Ma la situazione in cui l’Occidente consumatore energivoro si trova oggi permette una riflessione su come in particolare l’Europa si sia mossa nel costruire la sua politica energetica. Su disponibilità della materia prima, prezzi, potere contrattuale, la Ue ha immaginato, messo in campo – e tuttora in cantiere – regole (vedi nel sito il dossier dei tre articoli di Luca Lamanna) che in alcuni casi non hanno funzionato a dovere.
Una prima mossa, che appariva con intenti virtuosi, è stata quella di combattere i contratti a lungo termine delle grandi imprese petrolifere verticalizzate come l’Eni. Ognuna monopolista o quasi nel proprio mercato, quel tipo di impresa aveva garantito al paese, con quel tipo di contratto, una situazione di approvvigionamento e a se stessa un potere sul prezzo. Ma anche un potere sull’uso delle infrastrutture di trasporto, cioè i gasdotti. I big prenotavano il passaggio nei tubi del loro prodotto da importare, i piccoli restavano in coda, marginali o addirittura esclusi. E in quanto tali non riuscivano ad apparire acquirenti credibili sui mercati all’ingrosso e alla fine scomparivano.
In nome di una politica della concorrenza del mercato del gas, la Ue ha deciso di introdurre regole di mercato per dare a questi ultimi più spazio. Il risultato: la messa fuori legge di molte clausole dei contratti a lungo termine, l’accesso a terzi ai gasdotti, anche scollegato con la proprietà del gas, hanno rapidamente trasformato il panorama dei rifornimenti con una folla di new player.
Questo ha cambiato anche la struttura dell’offerta. Se prima la quota maggiore di gas passava attraverso i contratti bilaterali dei grandi monopolisti dell’energia, ora è il mercato “spot” a crescere. Un mercato, certo, ma in cui i carichi arrivano agli hub di scambio (è il TTF in Olanda il più importante in Europa), e in cui è la domanda e l’offerta del momento a stabilire il prezzo. Non si è rivelato un meccanismo virtuoso.
Sulla determinazione del prezzo, ha prevalso l’aggancio alle quotazioni “spot”, quindi sempre più volatili (è il sistema che domina la maggior parte degli scambi europei), ma anche un altro fattore: lo sganciamento del prezzo del gas da quello del petrolio, storicamente meno ballerino e quindi fino ad un certo punto fattore stabilizzante. Infine, poiché ormai la gran parte degli scambi avviene “a pronti”, cioè fuori mercato, ma anche quei prezzi sono influenzati dalla volatilità del prezzo di mercato, ecco l’effetto a cascata sull’intero settore degli approvvigionamenti, con prezzi saliti alle stelle.
Insomma, il “mercato”, invece di essere un fattore di protezione per operatori e consumatori, li ha esposti ai flutti e ai venti della tempesta in cui siamo immersi.
Può aiutarci il mercato del gas liquefatto? Una volta questo prodotto era un elemento di compensazione, oggi lo è assai poco, come si sta verificando in questi mesi. Si tratta di un mercato in cui, mentre una volta dominavano i contratti a lungo termine, oggi sono i migliori compratori a fare la parte del leone. E questi compratori si trovano soprattutto in Asia, dove la Cina è diventata l’acquirente con le tasche più profonde, che ha spinto sù i prezzi e calamitato le forniture.
Conclusione, il gas, che doveva essere il carburante fossile che ci doveva accompagnare verso la transizione verde in quanto quello con il minore impatto di CO2, è diventato il nostro tallone di Achille. La produzione continentale (in Olanda, Uk, Norvegia, Danimarca) è diminuita, e le fonti alternative alla Russia, come la Libia e l’Algeria non sono in grado – o non vogliono – tenere le promesse.
Nel frattempo, la costruzione dell’impalcatura europea è andata avanti. Ma con molte lentezze sulla definizione delle modalità e delle regole a cui attenersi. Bisogna riconoscere che il processo è complesso, ma trattandosi di un settore in cui si devono muovere anche degli investimenti, chi li deve decidere e finanziare non si muoverà finché non avrà capito che il quadro è chiaro. Senza contare la ricaduta della politica di decarbonizzazione e l’adozione dei criteri ESG nelle policy di investimento dei signori del denaro, sia privati che pubblici. Se l’investimento sostenibile da tenere in portafoglio non deve avere a che fare con la CO2, come si fa a finanziare la ricerca di petrolio e gas, che comunque ancora servono, o a finanziare le infrastrutture per trasportarlo?
Insomma la guerra in Ucraina e le mosse di Putin hanno, sotto l’aspetto energetico, messo a nudo la debolezza europea anche in termini di capacità di reazione e di strumenti di autodifesa. Metterà in campo una risposta pragmatica in tempi brevi?