Enrico Giovannini, professore di statistica a Tor Vergata, è presidente dell’Asvis (Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile) e ha lanciato dal sito un appello ai partiti perché inseriscano nei loro programmi i dieci punti che garantiscano il rispetto dell’agenda Onu 2030 e degli impegni per mettere l’Italia sul sentiero della sostenibilità. Tematiche che sono anche nel suo nuovo libro “L’utopia sostenibile” (Laterza). «L’Europa sta per produrre un cambiamento profondo nel modo di produrre e consumare», esordisce Giovannini. «I motori di questo cambiamento si chiamano industria 4.0 ed economia circolare, uniti all’impegno solenne di ridurre le emissioni di Co2. Questa evoluzione, che coinvolge anche le imprese, richiede uno sforzo per creare infrastrutture moderne, prevede il lavoro collettivo di un sistema, non di un singolo paese, e include anche la formazione di un capitale umano adeguato. Con quali strumenti può avvenire? Poiché senza un forte aumento degli investimenti pubblici in investimenti moderni l’Europa rimarrà indietro rispetto alla Cina, occorre trovare un meccanismo per dare un segnale forte che sul quel futuro vogliamo scommettere».
La scommessa sarà in grado di ripagarsi?
«Se si traducesse in aumento del potenziale di crescita, ci sono alte probabilità che la risposta sia sì».
Non dovrebbe essere la ripresa dell’economia a portarci fuori dalle secche?
«Qual è la prospettiva di crescita economica dei prossimi dieci anni? Bassa. La “stagnazione secolare” ci condanna ben che vada a due decenni di crescita del Pil al 2 per cento all’anno. Impossibile tornare al 4 per cento l’anno: nessun modello lo prevede. E se ci sono condizioni strutturali per cui la crescita è bassa, ne devi tenere conto. Se non vogliamo far esplodere il rapporto debito/pil e vogliamo investire, dobbiamo essere molto selettivi sulla spesa corrente per assicurare un avanzo primario che abbatta debito e costo degli interessi. Con il limite però di assicurare con la spesa pubblica la resilienza delle persone, perché un futuro pieno di shock richiede che tu concentri le risorse a protezione dei deboli con un reddito minimo per chi è sotto la soglia della povertà, ma condizionato alla riattivazione delle persone come in Germania. Se non proteggi le persone dalla prospettiva di una instabilità del lavoro rischi sostenibilità sociale e capitale umano. Attenzione però: quando i politici parlano di reddito minimo pensano solo ai poveri: no. Devi pensare ai giovani. Quelli con 500 euro di reddito e senza famiglia alle spalle, che se ci fosse un Rei (reddito di inclusione sociale) forse potrebbero rinunciare a quei 500 ma inseguire un loro sogno invece di restare inchiodati al limite dei bisogni».
Il governo Monti, si legge nel paper Codogno-Galli, ha commesso l’errore di un eccesso di austerity. Che ne pensa?
«Attenzione: il quinquennio berlusconiano che va dal 2001 al 2005 si è ritrovato un avanzo primario sul Pil del 5 per cento, lasciato dai governi che si erano succeduti negli anni Novanta. Quell’avanzo era il risultato dell’idea di Ciampi di poter affrontare gli anni neri in grado di fare comunque investimenti. Nei cinque anni successivi siamo scesi a dal 5 per cento a zero, con l’idea che la crescita economica si facesse con una politica espansiva. Risultato, quando è arrivata la crisi finanziaria, avevamo le gambe molli. Non solo. Il messaggio del governo dell’epoca era che la crisi sarebbe stata temporanea, e che comunque l’Italia era in condizioni migliori degli altri. L’effetto è stato che la propensione al consumo da noi, unico paese in Europa, è aumentata perché la gente ci ha creduto: se pensi che la crisi passa, anche se il tuo reddito diminuisce tu diminuisci i risparmi tanto sai che li puoi ricostituire. Quando invece nell’estate del 2011 venne giù la casa, il velo si ruppe e si prese coscienza che la crisi era forte. A quel punto, alla manovra restrittiva di Monti seguì nel 2012 un errore di valutazione sulla capacità dell’Italia di ripartire: dopo la mazzata del “Salvaitalia” passarono almeno sei mesi senza capire gli effetti del moltiplicatore. D’altra parte il sistema era disegnato così a partire dal parametro del deficit di bilancio al 3 per cento del Pil, che presupponeva che le crisi non sarebbero state violente, tanto è vero che non erano stati disegnati gli strumenti di salvataggio».
Non c’è stato un errore anche da parte dei partner europei, che ci hanno messo alle strette?
«Anche l’Europa ha sbagliato negli anni 2011-2012, generando una doppia recessione: quando sono emersi i dati truccati della Grecia, invece di affrontare il problema compatti come Unione europea, Francia e Germania hanno detto “è un problema loro”. Un via libera ai mercati ad attaccare i singoli paesi. Per sistemare il problema greco servivano 300 miliardi? Dovevano dire: eccoli. Non l’hanno fatto, e tutta l’Europa è andata in stagnazione. Con la differenza che la Germania ha affrontato la crisi successiva senza tensioni sociali perché aveva il Reddito di inclusione, l’Italia viceversa – con la sola cassa integrazione – non era attrezzata per affrontare crisi lunghe, ma solo transitorie».
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