Per ora le banche brindano alla crescita del margine di interesse e del Roe. Ma gli effetti di inflazione e modifica dei tassi di riferimento sui bilanci si vedranno nel tempo. E se alcune regole contabili consentono alle banche di nascondere o ridimensionare le ricadute negative di questa evoluzione, non possono evitare un impoverimento patrimoniale
È ormai storia che il superamento del tono (generosamente) accomodante della politica monetaria non è avvenuto con la gradualità immaginata ancora all’inizio del 2022. Gli stravolgimenti causati dall’aggressione russa all’Ucraina (in particolare, le forti criticità nelle forniture energetiche ed alimentari), l’esplodere dell’inflazione ed altre non meno importanti circostanze (la fragile ripartenza della Cina, il rafforzarsi delle inclinazioni protezionistiche a livello globale, etc.) hanno suggerito un rapido abbandono di ogni ipotesi di gradualità.
A partire da luglio, nell’arco di appena un semestre i tassi di riferimento sono aumentati di 2 punti percentuali pieni e si è passati dall’ipotesi di un lento raffreddamento del QE (Quantitative Easing) ad un avvio di QT (Quantitative Tightening).
Questa repentina svolta ha rimescolato profondamente le carte, modificando molti prezzi relativi, premiando o penalizzando le diverse componenti del sistema economico. Se la rottura del precedente equilibrio è certa, ancora molto indefinito è il profilo del nuovo equilibrio e la durata del periodo di aggiustamento necessario per raggiungerlo.
Considerata la difficoltà di prevedere l’evolversi del conflitto in Ucraina, ogni previsione economica ha un valore largamente indicativo. Le più recenti ipotizzano per il 2023, per l’Italia e l’intera eurozona, un tasso di crescita dello 0,5-0,6%, in presenza di un’inflazione ancora intensa (6,5%).
Per adesso le banche brindano. Secondo la Banca d’Italia, nei primi nove mesi del 2022 la crescita annua del margine d’interesse delle banche significative (82% delle attività del sistema bancario nazionale) ha quasi raggiunto il 12%, spingendo il RoE (Return on Equity) a sfiorare il 9%. Una stabilizzazione dei costi e degli interventi di rettifica sul portafoglio prestiti hanno contribuito a migliorare ulteriormente il quadro. I conti appena pubblicati di UniCredit confermano che la crescita del margine d’interesse nel IV trimestre si è irrobustita ulteriormente.
Il drastico mutamento della congiuntura economica e dell’intonazione della politica monetaria propongono agli operatori bancari problemi la cui dimensione sarà chiara solo più avanti nel tempo. In proposito interessanti spunti di riflessione sono venuti da un recente seminario organizzato da Minerva Bancaria.
Se la combinazione “rallentamento congiunturale – aumento tassi d’interesse” dovesse protrarsi nel tempo, ne deriveranno problemi per la parte più fragile del portafoglio prestiti. Secondo l’ultimo Rapporto di Stabilità Finanziaria il deterioramento dal lato delle famiglie dovrebbe risultare nel 2023 complessivamente limitato, con la quota del debito totale attribuibile alle cosiddette famiglie vulnerabili in aumento nell’ipotesi peggiore di 3 punti percentuali (al 10,6%).
Ben più seria la situazione nel caso delle imprese: quelle vulnerabili potrebbero, nel 2023, accrescere la loro quota del debito totale dal già corposo 26% attuale al 32% nello scenario peggiore.
Pur riconoscendo il massimo della serietà a queste stime è lecito chiedersi quanto i modelli di valutazione catturino le profonde novità degli ultimi 10 anni. Ad esempio, è difficile dire (perché mai sperimentato) quanto le trasformazioni del mercato del lavoro intervenute in questi ultimi 5-10 anni abbiano minato la capacità di difesa dei redditi di fronte ad un’impennata inflazionistica così violenta e inattesa come l’attuale: è quindi difficile valutare se e quanto crescerà la vulnerabilità delle famiglie.
Considerazioni simili possono essere svolte per le imprese. La strutturale fragilità finanziaria delle PMI italiane si è aggravata durante la pandemia. Per una parte non trascurabile della montagna di prestiti coperti da garanzia statale il recupero potrebbe essere difficile (secondo Kpmg su un totale di 226 mld quelli a rischio sarebbero il 3,5-7,5%).
Un secondo ordine di problemi è quello dello sfasamento del momento di repricing di raccolta e impieghi. Negli ultimi anni i depositi bancari sono enormemente aumentati in Italia e all’ultima rilevazione (novembre 2022) erano di poco inferiori a 1.700 mld, di cui 400 di competenza delle imprese e poco più di 1.250 delle famiglie. La revisione al rialzo della remunerazione di questa parte della raccolta da parte delle banche è notoriamente lenta e lenta è pure la reattività dei suoi titolari a spostarsi verso altre forme d’investimento o verso forme più remunerate di deposito (ad esempio, quelli con durata prestabilita).
Per ora (ma i dati sono decisamente pochi), la raccolta dei depositi risulta “poco mossa”: rispetto a inizio 2022, a novembre si registra solo una contenuta flessione di quelli in conto corrente, variazione tuttavia difficile da interpretare essendo novembre un mese di pagamenti fiscali.
Per quanto riguarda i prestiti, le statistiche non forniscono la quota di quelli a tasso variabile a livello di consistenze, mentre rendono disponibile questo dettaglio per i nuovi finanziamenti. Guardando alle nuove erogazioni di prestiti a famiglie e imprese negli ultimi 10 anni si può constatare che l’incidenza di quelli a tasso variabile si è mantenuta in Italia intorno all’80%, con un campo di variazione relativamente contenuto. Sotto questo profilo la situazione nel nostro paese è ben diversa da quella dell’area euro che propone un dato medio del 64%.
Nell’ambito dei prestiti alle famiglie un evidente rilievo spetta ai prestiti per l’acquisto di abitazioni. Anche in questo caso, la rilevazione mensile delle nuove erogazioni su un arco di tempo di 5 o 10 anni evidenzia una quota di quelli a tasso variabile per l’Italia maggiore di 10-20 punti percentuali rispetto al dato medio dell’eurozona.
Nell’insieme, quindi, i dati a disposizione segnalano per la realtà italiana una maggiore sensibilità degli impieghi bancari a variazioni dei tassi d’interesse, circostanza che nell’attuale scenario è per le banche un evidente vantaggio e attenua non poco le incognite derivanti da un possibile rialzo della remunerazione delle passività.
Sull’andamento futuro del margine d’interesse peserà ovviamente l’andamento dei volumi dei finanziamenti, grandezza che sarà condizionata fortemente dal tono della congiuntura economica per la quale (come già detto) l’incertezza è decisamente ampia.
Sul terreno dei tassi d’interesse le statistiche della Banca d’Italia segnalano incrementi consistenti per le nuove erogazioni sia alle famiglie che alle imprese. Per molto tempo le variazioni da tenere in attenta considerazione saranno però quelle riferite alle consistenze. Sotto questo profilo i rialzi sono più limitati ma non trascurabili: da inizio 2022 a novembre la media dei tassi attivi applicati ai prestiti alle imprese risulta aumentata di 111 centesimi, di 54 centesimi nel caso dei finanziamenti alle famiglie.
Nello stesso arco di tempo, la remunerazione dei depositi in conto corrente (consistenze) è aumentata di 9 centesimi, quella per i depositi con durata prestabilita di 26 centesimi. Balzo più robusto per il rendimento sulle obbligazioni: oltre 4 punti percentuali per quelle in emissione, +31 centesimi quello medio sulle consistenze. È noto che il primo aggregato (depositi in c/c) è un multiplo della somma degli altri due (depositi con durata prestabilita e obbligazioni).
Quando si riflette sull’impatto del rialzo dei tassi di riferimento uno spazio importante deve essere riservato al portafoglio titoli, prevalentemente a tasso fisso e quindi penalizzato dall’aumento dei tassi. Paradossalmente le più colpite sono le banche centrali, che per attuare il QE hanno enormemente accresciuto l’ammontare dei titoli detenuti (nel caso della Banca d’Italia, da 300 a 1.600 mld fra il 2010 e il 2022).
Per le aziende di credito si determina un impatto contabile solo per i titoli valutati al fair value, mentre non si verificano conseguenze se i titoli sono valutati al costo ammortizzato. Questa seconda opzione comporta tuttavia un congelamento di questa parte dell’attivo, perché obbliga di fatto a detenere i titoli fino a scadenza. Secondo una nota dell’Eba, la quota dei titoli pubblici valutati al costo ammortizzato è in Europa intorno al 60%, sensibilmente più bassa di quella rilevabile in Italia (72%). Analogamente al resto del Vecchio Continente, la stessa quota è in Italia più contenuta per le banche di rilevante dimensione (50% in media per i tre gruppi maggiori) e più elevata per le banche minori.
Inflazione e modifica dei tassi di riferimento alterano profondamente la struttura dei valori relativi, con importanti ricadute anche per le banche. Su questa evoluzione alcune considerazioni. La prima è che queste ricadute risulteranno probabilmente differenziate da banca a banca, in funzione del profilo dell’attività. La seconda è che le regole contabili possono nascondere ma non cancellare i fenomeni reali: la valutazione di un titolo di debito a tasso fisso scende quando i tassi di riferimento salgono. Il terzo aspetto è una generalizzazione del precedente: se il valore delle attività è penalizzato dal mutamento del contesto economico-finanziario si verifica un impoverimento del valore aziendale.
Di nuovo, questo può contabilmente non apparire (o apparire solo in misura ridotta), ma l’impoverimento patrimoniale si verifica comunque. Se il rientro dei tassi di riferimento e dell’inflazione non dovesse avvenire in tempi relativamente rapidi, le banche ne dovrebbero necessariamente tener conto nel definire ogni decisione aziendale, a cominciare dalla distribuzione di eventuali utili.