Il digitale ridisegnerà nel profondo la mappa del circuito bancario. Si tratta di un fenomeno irreversibile che tocca tutte le fasi della gestione dei finanziamenti, dalla concessione al rimborso, inclusi gli interventi sui prestiti problematici. Ne deriva un’erosione dei ricavi, la necessità di upgrading delle competenze e un investimento crescente in cybersecurity
La transizione digitale è fenomeno globale in rapido avanzamento in tutti i settori della società e dell’economia, dalla medicina all’attività manifatturiera. Il Recovery Plan ha scelto di farne una delle leve per spingere l’Unione Europea fuori dalla grave crisi indotta dalla pandemia. L’obiettivo è favorire un suo ulteriore sviluppo, sia in senso orizzontale sia in profondità.
Il settore bancario è un ambito in cui la digitalizzazione ha già compiuto molta strada, con ricadute significative soprattutto sul versante dei costi. Rispetto a 10 anni fa il circuito bancario italiano gestisce lo stesso volume di attività (3.700-800 mld) con 10mila sportelli e 43mila addetti in meno (-28% e -14%, rispettivamente).
A questo si aggiunge il recupero di spazi di flessibilità non immaginabili solo pochi anni fa. Benefici importanti ma non gratuiti: la spesa in IT è pari al 6-7% dei costi annuali, con una netta tendenza alla crescita. Il contenimento dei costi di struttura che determina puntella un conto economico in questi anni appesantito da un’evoluzione sfavorevole dello scenario finanziario e della qualità del credito.
Assecondato dall’evoluzione della clientela e da un potenziamento dell’infrastruttura ITC del nostro Paese, la tipica banca italiana ha oggi un assetto produttivo sostanzialmente ibrido: modelli operativi “remoto/in presenza”, modelli distributivi “filiale/digitale”, con un supporto tecnologico realizzato con modelli di sourcing ibridi “in/out”.
Con diversa brillantezza a questo traguardo è arrivata la generalità degli operatori bancari, in Italia e nel resto del vecchio continente. Il processo di ibridazione è ora ad un punto critico in cui la qualità delle scelte determinerà differenze sensibili nelle prospettive degli operatori.
Tra le molte scelte da compiere una “riguarda l’esistente”, e cioè fino a che punto spingere il processo di superamento dello sportello. Se da un lato è scontato il proseguimento della migrazione on line delle attività transazionali, dall’altro lato sono molti a ritenere che l’erogazione dei servizi a più elevato contenuto debba conservare nella struttura fisica il suo punto di riferimento. Su questa decisione pesa (e peserà) in misura importante la dinamica del pricing di questi servizi.
C’è poi da affrontare con decisione il problema dell’architettura organizzativa il cui aggiornamento finora ha mirato soprattutto ad adattare la struttura esistente alle novità, senza un complessivo processo di ridisegno. È stato molto più un trasferire on line che non un ripensare. In molti casi si è etichettato come smart quello che era soprattutto remote.
[per apprezzare la complessità di questi temi si rimanda alle riflessioni ricche di esperienza che Maurizio Faroni, più volte pubblicato in FCHub.]
Nell’insieme, la transizione digitale nel credito si presenta come fenomeno irreversibile che tocca tutte le fasi della gestione dei finanziamenti, dalla concessione al rimborso, inclusi gli interventi sui prestiti problematici. Ne deriva (ancor più nel futuro) anche un’erosione dei ricavi perché l’innovazione tecnologica riduce i costi di ingresso di nuovi operatori in segmenti specifici di mercato (dai mutui al factoring, ai prestiti personali) e favorisce lo sviluppo di forme di finanziamento “disintermediate”, quali ad esempio crowdfunding e direct lending (attività per ora solo a livello embrionale in Europa).
Per gli operatori tradizionali i potenziali guadagni di questa transizione digitale sono comunque considerevoli: riduzione dei costi, maggiore tempestività nell’erogazione dei finanziamenti, misurazione dei rischi più accurata, ampliamento dell’offerta a segmenti di clientela in passato serviti poco o male.
Questa evoluzione propone periodicamente importanti quesiti organizzativi quali, ad esempio, quello del perimetro aziendale, indotta dalla possibilità/opportunità di esternalizzare fasi produttive e/o servizi bancari.
La criticità di queste scelte solleva costantemente un problema di competenze. Come evidenziato più volte dai vertici della nostra Banca centrale, “in quasi tutte le banche, ma soprattutto nelle banche di minori dimensioni, è limitata nell’organo di indirizzo la presenza di competenze specifiche su tematiche di natura tecnologica, con potenziali impatti negativi sull’efficacia dell’azione del board nella definizione delle linee di indirizzo strategico, nella valutazione generale del rischio operativo e strategico nonché nella individuazione di un adeguato assetto quali-quantitativo delle funzioni di controllo interne. … investire in nuove competenze è un fattore abilitante per cogliere i benefici della tecnologia. Oggi molto spesso tali competenze vengono ricercate all’esterno; in questa ottica va interpretato il crescente ricorso ad accordi con società FinTech che offrono nuove competenze, nuove capacità, prima ancora che soluzioni tecnologiche.”
Digitale, in effetti, vuol dire disponibilità di un patrimonio informativo maggiore, di migliore qualità, in continua crescita. Senza competenze professionali in grado di “leggerle” queste informazioni servono a poco. Leggere vuol dire intuire come trasformarle in un plus sotto il profilo organizzativo, produttivo, reddituale, etc.
Il continuo upgrading delle competenze è problema che tocca in misura importante tanto la banca quanto gli organi di vigilanza (“transizione digitale delle regole.”). Oltre a partecipare attivamente ai lavori in corso presso i diversi tavoli europei e internazionali, la Banca d’Italia si è fatta promotrice di iniziative come Canale Fintech e Milano Hub con l’obiettivo sia di monitorare da vicino l’evoluzione del mercato e delle tecnologie, sia di valutare la necessità di modificare le regole vigenti per tenere conto delle caratteristiche e dei rischi propri delle realtà digitali.
Quello del rapporto tra operatori tradizionali e FinTech è un aspetto particolarmente delicato. “Valutare il punto di equilibrio tra rischio e opportunità, … non è sempre agevole nel caso delle iniziative FinTech, soprattutto alla luce del loro carattere fortemente innovativo e non-routinario.“
L’adozione di nuova tecnologia propone sempre rischi di varia natura, eventualità oggi decisamente forte in presenza di un salto tecnologico così ampio e pervasivo quale quello proposto dalla digitalizzazione. Alcuni rischi si propongono ancora solo a livello potenziale; altri sono per ora di rilievo relativamente contenuto; altri, invece, da tempo turbano la serenità dell’industria bancaria.
È assai difficile che un incontro sullo stato del banking non preveda un approfondimento sulla cybersecurity. Ecco, ad esempio, quanto emerso in un recente convegno: più del 70% delle banche lo ritiene il rischio più significativo per la propria organizzazione; sulla base dell’esperienza recente, si stima che i danni causati dai cyber attacks arriveranno nel 2021 a toccare i $6mila mld; gli investimenti in cybersecurity crescono a un ritmo annuo superiore al 10% e i premi assicurativi per contenere l’impatto economico di questa minaccia aumentano a un ritmo annuo del 25%.
Il digitale è un fattore che le banche devono dominare se vogliono rimanere in attività. Rilevanti i benefici che apporta ma anche i significativi i nuovi rischi che propone. In uno scenario economico, finanziario e sociale che non consente grandi margini di errore, il digitale è sicuramente uno dei fattori che ridisegneranno ovunque e nel profondo il circuito bancario.