Il governo ha la delega per realizzare la più estesa riforma del diritto societario degli ultimi vent’anni. Ma alto è il rischio di soluzioni che eccedano nella direzione di favorire gli interessi degli azionisti di controllo. E di non tenere in sufficiente conto la distinzione tra le società già quotate e quelle di futura quotazione. Ecco alcuni consigli ... non richiesti
Con la legge Capitali il Governo ha ricevuto una delega di ampiezza straordinaria a rivedere il testo unico della finanza (legge Draghi), nonché il testo unico bancario, il codice delle assicurazioni e il codice civile. I criteri direttivi sono riassumibili nella formula della semplificazione e riduzione degli obblighi e degli oneri, compatibilmente, tra l’altro, con l’obiettivo di “rendere le imprese maggiormente attrattive per gli investitori internazionali”.
Complice un contesto tutt’altro che favorevole al secondo obiettivo, alto è il rischio di soluzioni che eccedano nella direzione di favorire gli interessi dei controllanti, anche a discapito dell’obiettivo prioritario di favorire lo sviluppo del mercato azionario italiano. Non tanto perché semplificare in questo ambito vada necessariamente a discapito degli investitori, quanto nell’ipotesi che le nuove regole non tengano in sufficiente conto una distinzione fondamentale: quella tra le società che già oggi sono quotate e le società di futura quotazione.
Per le seconde, la strada della deregolamentazione e della semplificazione è meno problematica. Infatti, in sede di quotazione le minori tutele eventualmente garantite dalla singola società sfruttando il venir meno di regole imperative, sarebbero “pagate” dai soci preesistenti alla quotazione nella forma di uno sconto sul prezzo di quotazione, poiché chi compra lo fa nella consapevolezza dell’assenza di determinate protezioni e non è disposto a pagare lo stesso prezzo che nel caso in cui le tutele fossero preservate. Dunque, se certe tutele sono efficaci, è interesse dello stesso venditore apprestarle.
Ciò ovviamente non significa che per le società di futura quotazione si possa procedere a una deregolamentazione totale (fermi ovviamente i vincoli della legislazione UE). Infatti, anche nei paesi dei principali mercati azionari esiste un nucleo di norme imperative per tutelare gli investitori, che questi ultimi si aspettano di trovare in qualunque mercato in cui investano. Il rischio altrimenti è che le società si quotino concedendo volontariamente determinate tutele con l’obiettivo di vendere le azioni a un buon prezzo, ma che poi i controllanti, grazie al controllo dell’assemblea straordinaria, impongano successivamente modifiche tali da agevolare abusi a danno dei soci non di controllo. Il che significa, ex ante, che nessuno riuscirebbe a spuntare un buon prezzo concedendo tali tutele e si creerebbe un problema di selezione avversa.
Dunque, un nucleo di norme inderogabili anti-espropriative, anche alla luce di un confronto con le norme societarie e dei mercati finanziari esistenti nei principali mercati, dovrebbe essere salvaguardato anche per le società quotande e nel loro stesso interesse. Al di fuori di questo nucleo, le altre norme di tutela degli azionisti oggi esistenti potrebbero diventare opzionali per queste società.
Molto più delicato è l’intervento sulla disciplina delle società già quotate: per queste, infatti, ridurre gli obblighi e oneri esistenti significa anche incidere, specularmente, su quelli che nel linguaggio pensionistico si chiamano diritti quesiti: posizioni di vantaggio garantite dalla legge a favore, nel nostro caso, di soci di minoranza e investitori in genere. Tra l’altro, per inciso, i beneficiari ultimi delle tutele, ossia i clienti degli investitori istituzionali che detengono le azioni (quasi il 30 per cento della capitalizzazione di borsa, secondo l’OCSE), sono individui, anche italiani, i cui risparmi in fondi azionari sono destinati in ultima analisi a integrare la pensione.
Come già accennato, le azioni valgono di più se incorporano dei diritti di governance in favore degli investitori (di voto, di convocazione dell’assemblea, di rappresentanza in CdA etc.) e strumenti di controllo sull’operato degli amministratori. Ma come si possono ridurre gli obblighi e gli oneri per gli emittenti preservando i diritti quesiti dei soci e dunque il valore delle loro azioni?
Chiaramente, la strada non può essere quella, da più parti suggerita, di eliminare tutto ciò che non è imposto dal diritto europeo delle società. Quest’ultimo, infatti, è spesso frutto di compromessi al ribasso, non copre varie materie importanti né può tener conto delle peculiarità dei singoli mercati nazionali se non, per l’appunto, consentendo di prevedere, come è spesso il caso, tutele ulteriori.
Un modo per procedere giudiziosamente consisterebbe nel ridurre al minimo le pure e semplici abrogazioni e le modifiche con immediata efficacia sulle singole società, limitando queste soluzioni ai soli casi in cui è evidente che per nessuna delle società quotate una determinata disposizione esistente ha benefici netti per i soci di minoranza, ad esempio perché è una mera duplicazione rispetto a ulteriori obblighi inseriti successivamente o perché, in modo generalizzato, ha costi sproporzionati rispetto ai benefici.
In ogni altro caso, sarebbe preferibile procedere trasformando le disposizioni vigenti da imperative a opzionali, ossia ammettendo che siano le singole società a scegliere eventualmente di non applicare determinate norme a tutela degli investitori (c.d. opt-out)1.
Ma importante sarebbe anche, seguendo l’insegnamento di Ian Ayres, avere un’idea chiara del grado di “viscosità” da attribuire alla norma di legge così trasformata in norma derogabile: in altri termini, quanto dev’essere facile per le singole società togliere tutele ai soci di minoranza? È chiaro che alcuni diritti e poteri sono più importanti, per gli investitori, di altri.
Ha senso dunque prevedere diversi gradi di difficoltà di opt-out in base a questo criterio. Così, alcune norme potrebbero essere giudicate così essenziali per chi ha già deciso di investire in società quotate da giustificarne l’opt-out solo per le società di futura quotazione (è già così per il divieto di emettere azioni a voto plurimo, inapplicabile alle società che lo prevedano al momento della quotazione).
Altre norme potrebbero diventare opzionali anche per le società già quotate, subordinando l’opt-out da parte di queste, in ordine decrescente di viscosità e con possibilità di cumulo tra le diverse ipotesi:
Ma l’autonomia statutaria potrebbe essere valorizzata anche per controbilanciare eventuali scelte del legislatore delegato che incidano negativamente sui diritti quesiti: si tratterebbe di rafforzare viceversa talune disposizioni a protezione degli investitori, sempre salvo che lo statuto disponga diversamente.
Ciò, in particolare, nelle società che, dopo essersi quotate, abbiano introdotto o introducano in futuro il voto maggiorato, in quanto questo, di fatto, rispettivamente, pregiudicò o pregiudicherà i diritti quesiti dei soci di minoranza.
Ad esempio, si potrebbe imporre in queste società il whitewash per operazioni con parti correlate di eccezionale rilevanza, oppure (se non lo si voglia fare per tutte le società, come già proposto qui a suo tempo) fissare una soglia suppletiva molto bassa per l’esercizio dell’azione sociale di responsabilità (oggi al 2,5%) o la denuncia per gravi irregolarità (5%); oppure abbassare la soglia per richiedere l’integrazione dell’ordine del giorno dell’assemblea (2,5%).
Nei vari casi, le società potrebbero convocare un’assemblea e scegliere di mantenere la soglia massima oggi prevista (attribuendo al socio con voto maggiorato un solo voto per azione nella relativa delibera). Analogamente, si potrebbe dichiarare inapplicabile alle società quotate, salvo diversa scelta statutaria, l’anomala disciplina della direzione e coordinamento di società, che legittima, di fatto, operazioni dannose per le società parti di un gruppo ed è ignota al mondo anglosassone. Infine, anche in questa logica si potrebbero introdurre norme volte a meglio tutelare i soci di minoranza in caso di delibere di trasferimento della sede all’estero (o che portano a questo risultato) per godere della più ampia libertà concessa in altri ordinamenti in tema di azioni a voto maggiorato (v. di nuovo qui).
Analogamente, l’autonomia statutaria potrebbe essere lo strumento per altri possibili rimedi al pasticcio della lista del consiglio nelle società in cui essa, di fatto, non ha alternative e in cui la stessa logica della rappresentanza delle minoranze in consiglio è meno pregnante, ossia in quelle ad azionariato particolarmente diffuso.
Così, agli statuti si potrebbe consentire di ridurre ai minimi termini la soglia per la presentazione di una lista di candidati da parte dei soci, prevedendo altresì che una rappresentanza in consiglio spetti ai candidati della seconda lista più votata nel solo caso in cui essa ottenga una quota significativa di voti (che la legge potrebbe fissare nel massimo, ad es., al 20 per cento). Una simile alternativa dovrebbe essere consentita solo alle società ad azionariato molto frazionato, ossia, per esempio, a quelle con flottante superiore al 90 per cento, ovvero anche all’80 per cento (nel caso in cui i soci non inclusi nel calcolo del flottante siano due o uno) o al 70 per cento (nel caso in cui i soci non inclusi nel calcolo del flottante siano tre o meno).
In questo modo, si lascerebbe intatta la scelta del Parlamento, ma si consentirebbe alle società ad elevato flottante di trovare piccolissimi soci, che dunque non rischiano di essere considerati i controllanti di fatto della società, dai quali far presentare una lista recependo, in piena trasparenza, le indicazioni sui candidati dalla società stessa. Non sarebbe il massimo della linearità, ma se le norme in tema di lista del consiglio si rivelassero politicamente inamovibili, si tratterebbe del male minore per evitare che le (pur poche) società ad azionariato diffuso, prima del prossimo rinnovo del consiglio d’amministrazione, siano costrette a migrare in Olanda.
Quali dovrebbero essere i criteri per mantenere l’imperatività delle tutele previste dalla legge Draghi ovvero per assoggettare determinate opzioni statutarie a un grado maggiore o minore di viscosità? Come anticipato a proposito delle società di futura quotazione, il criterio principale dovrebbe essere quello della “familiarità”: un’analisi comparata dei vari strumenti di tutela degli investitori consentirebbe di verificare quali tra essi sono ampiamente diffusi e giudicati di elevato valore aggiunto dagli investitori medesimi, in particolare nei paesi (Stati Uniti e, in misura minore, nord Europa) da dove provengono la maggior parte degli investitori istituzionali.
È chiaro che rendere facile l’opt-out per tutele di cui essi godono a casa propria susciterà una più forte avversione, che potrebbe incidere negativamente, al margine, sull’attitudine a investire nelle nostre società. Viceversa, è improbabile che gli investitori istituzionali diano lo stesso valore a istituti idiosincratici del nostro ordinamento (si pensi alla regola, ormai anacronistica, che consente il recesso dai patti parasociali in caso di offerta pubblica di acquisto: art. 123, comma 3, del TUIF), perlomeno qualora non possano essere neppure visti come tutele funzionalmente equivalenti a quelle esistenti all’estero.
Infine, la delega consente al governo di rivedere l’intera disciplina delle società di capitali (sia pure con la precisazione che ciò sia fatto “ove necessario”: ma non si capisce come una formula così generica possa rendere non conformi alla delega le modifiche che si apportassero per le finalità indicate negli specifici criteri di delega).
Uno dei criteri direttivi è il seguente: “sostenere la crescita del Paese, favorire l’accesso delle imprese al capitale di rischio con particolare riguardo ai mercati regolamentati, favorire l’accesso delle piccole e medie imprese a forme alternative di finanziamento e la canalizzazione degli investimenti verso le imprese e rendere le imprese maggiormente attrattive per gli investitori internazionali”.
Vi sono pochi dubbi sul fatto che sarebbe coerente con tale obiettivo una revisione delle regole in materia di società per azioni e società a responsabilità limitata volte ad agevolare il finanziamento mediante venture capital. È noto che sono spesso società finanziate da fondi di venture capital che trovano la via della quotazione nei paesi in cui il venture capital ha maggiore tradizione. Come abbiamo sostenuto Casimiro Nigro e io in alcuni scritti recenti (v. qui e qui, oltre ad alcuni lavori in corso di preparazione con Tobias Tröger), la struttura imperativa del diritto societario italiano e il fenomeno della “sclerosi interpretativa” che tendenzialmente lo caratterizza nel tempo, sia in sede teorica sia nell’applicazione giurisprudenziale, rendono difficile trapiantare nel nostro Paese le prassi contrattuali più diffuse nel maggiore mercato dei finanziamenti di venture capital, quello statunitense.
Per quanto un compiuto intervento in questa materia richiederebbe approfondimento e attenzione maggiori di quelli che vi potrà dedicare il Comitato di Coordinamento nei concitati mesi che lo attendono, alcuni interventi di revisione della disciplina potrebbero essere di aiuto allo sviluppo del venture capital. Per limitarmi a qualche esempio (ed eventualmente riservando alcune delle seguenti soluzioni alle sole società di futura costituzione, ove si ritenesse opportuno non incidere sui diritti quesiti dei soci e dei creditori delle società non quotate esistenti):
In conclusione, il Governo ha gli strumenti per la più estesa riforma del diritto societario degli ultimi vent’anni. Muoversi con equilibrio e attenzione ai diritti quesiti è non solo necessario, ma anche possibile, se si sapranno sfruttare le tante possibili variazioni sul tema dei limiti e delle modalità delle scelte di opt-out da parte delle singole società.
Inoltre, si potrebbe sfruttare utilmente l’occasione per eliminare i lacci e lacciuoli che tuttora avviluppano il diritto delle società non quotate, anche al fine di favorire lo sviluppo del venture capital in Italia, in linea con i principi e criteri direttivi della legge delega.
(*) Una versione breve di questo contributo è stata pubblicata ne Il Sole 24 Ore del 28 febbraio 2024.
1 Questa soluzione non sarebbe in contrasto con il principio direttivo della “semplificazione”, poiché, come fece notare Richard Epstein, non possono considerarsi complesse le norme che hanno carattere opzionale.
2 Come nel caso in cui il Governo esercitasse la delega a “semplificare e razionalizzare” le norme in tema di operazioni con parti correlate, “anche con riferimento alle soglie di partecipazione, in linea con gli standard internazionali” (checché ciò significhi), nella direzione di renderle meno efficaci contro il rischio di espropriazione a danno degli investitori. L’intervento in questa materia sarebbe tecnicamente complesso, in quanto la disciplina è dettata dalla Consob, la quale a sua volta richiede alle singole società di dotarsi di regole compatibili con quelle di cornice e per molti versi opzionali emanate dalla Consob medesima. Una via d’uscita potrebbe consistere nel rivedere la norma del codice civile che delega la Consob a dettare tali regole aggiungendo l’indicazione di valorizzare l’autonomia delle singole società nei limiti stabiliti dal medesimo regolamento affinché sia pur sempre assicurato un grado elevato di tutela degli azionisti.