MIFID II. La partita intorno al risparmio degli italiani
Paola Pilati

La tutela del risparmio dei cittadini, sancita anche nella Costituzione, ha avuto molte cadute negli ultimi anni: è inciampata nei casi delle obbligazioni Cirio e Parmalat e nei bond argentini, per non parlare più di recente della crisi del Montepaschi e poi delle banche Etruria, Marche, Cariferrara e Carichieti. Oggi si aggiungono la Popolare di Vicenza e Veneto banca. Elenco parziale e casi con caratteristiche diverse, ma con lo stesso effetto: terremotare la fiducia nelle istituzioni poste a difesa degli investitori, indurre i risparmiatori a tenersi i soldi sotto il materasso. Anche se oggi il “bail in” viene scongiurato, e gran parte dei piccoli risparmiatori schermata da perdite disastrose, il clima è avvelenato. Un problema che chiama in causa innanzitutto l’industria della gestione del denaro e le authority di vigilanza, dalla Banca d’Italia alla Consob, additate         con qualche ragione come corresponsabili se non altro per mancanza di tempestività.

L’occasione per ricostruire un tessuto di fiducia però c’è, e la offre la Mifid II, quel corpus di regole che entrando in funzione dall’inizio di gennaio 2018 definisce in maniera più stringente le tutele e gli obblighi degli intermediari (banche, fondi, consulenti finanziari) nei confronti dei clienti. Il compito evidentemente non si presenta né ovvio né lineare, visto che pur essendo stata varata dal Parlamento europeo nel 2014, la Mifid II (oggi è in vigore una prima Mifid) si trova ancora ad attraversare un cammino irto di incognite, scandito dal processo di recepimento parlamentare ma anche dal dibattito che ferve tra i vari protagonisti in campo.

Per esempio, per proteggere gli investitori dall’acquistare questo o quel prodotto finanziario, la direttiva introduce il criterio del “target market”, immaginato proprio come se il prodotto finanziario fosse un prodotto commerciale qualsiasi, mirato ad un particolare mercato. Ma a differenza da un prodotto commerciale che, anche se impropriamente, può essere comunque liberamente comprato da chiunque, quello finanziario può essere proposto solo a chi è individuato come appartenente a quello specifico target, secondo una profilazione costruita su percezione del rischio, obiettivi futuri, mezzi disponibili e via dicendo. Inutile dire che i criteri per individuare questo target possono essere diversi da banca a banca e da paese a paese, in uno sforzo di armonizzazione assai complesso. Diventa in conclusione ancora più stringente la regola dell’appropriatezza” in vigore oggi,         che attualmente lascia ancora un margine di autonomia alle scelte del cliente, mentre domani gli toglierà qualsiasi spazio di scelta fuori dal profilo in cui viene collocato.

Altro fronte, quello che impone agli asset manager di separare le commissioni di trading dai costi che pagano agli analisti dei titoli per il loro lavoro. Un obbligo di trasparenza sacrosanto, a tutto vantaggio del cliente, al quale oggi vengono spesso scaricati, che farà emergere i conflitti di interesse in capo a chi propone prodotti di casa. E che metterà alle strette chi contrabbanda per analisi “su misura” le semplici scelte degli algoritmi su cui ormai si muove gran parte del trading. Ma che avrà comunque delle conseguenze sull’industria del denaro in termini di posti: McKinsey ha stimato che la spesa per gli analisti verrà tagliata di un terzo dalle prime dieci società di consulenza finanziaria che oggi investono in questa voce 4 miliardi di dollari, e che centinaia di analisti perderanno il lavoro.

Meglio la Fintech? Non è detto. Anche sugli algoritmi – che sempre più soppiantano il know-how umano – la nuova Mifid interviene per chiedere garanzie su costruzione e funzionamento, mentre il lavoro degli stakeholder nel cantiere della nuova normativa tira in ballo anche delicate questioni nazionali che richiedono decisioni di stampo domestico: per esempio sulla figura del consulente indipendente, colui che non è legato a una società mandante. Quest’ultima, se il consulente non rispetta le procedure è chiamata come responsabile in solido: ma se questo legame non c’è, a quali rischi può essere esposto il risparmiatore, senza neppure esserne consapevole?

Come è chiaro ognuno di questi aspetti presenta una serie di luci ed ombre. Smussare gli spigoli, ma anche non accedere a compromessi “né carne né pesce” per non scontentare il mondo di chi vende prodotti finanziari, è compito del legislatore. Che ha la responsabilità di mettere in sicurezza forse l’unica grande ricchezza rimasta al paese, cioè il risparmio dei cittadini.

Da questo osservatorio, noi di Fchub scegliamo di riservare una speciale attenzione al dibattito, che dopo i contributi di Maria Elena Salerno e Maddalena Marchesi, proseguiamo con un intervento di Marco Tofanelli, segretario generale di Assoreti.