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Non-banche tra potenzialità e rischi social

Nuovi attori entrano nel mercato della moneta elettronica. La competizione tra banche e non-banche si gioca ormai soprattutto in rete. Con i social network il fenomeno delle non-banche si amplia e si radicalizza: queste piattaforme possono intermediare contemporaneamente beni, servizi e il denaro per acquistarli. In più hanno informazioni “privilegiate” e non devono competere con le banche tradizionali per acquisire clienti perché li hanno già, anche se per il momento si chiamano utenti. L’ordinamento europeo è pronto a disciplinare il fenomeno?

Edoardo Rulli
Rulli

Alla messa a punto delle regole dell’Unione bancaria sembra mancare un tassello minore, ma che potrebbe in breve tempo rivelarsi importante: le non-banche. Il concetto copre un’area molto ampia, in continua espansione, e che identifica molti soggetti diversi. Per questa ragione la definizione di non-banca non può che essere offerta in negativo, avendo riguardo a quei soggetti che, pur svolgendo alcune funzioni assimilabili a quelle bancarie, non sono disciplinati dalle leggi bancarie. Del resto, una banca è tale se è la legge a dirlo e, tendenzialmente, le leggi di tutti i paesi del mondo economicamente sviluppato stabiliscono che un’impresa può chiamarsi banca quando raccoglie depositi ed eroga credito.

Nonostante ciò siamo abituati a considerare “bancari” una serie di servizi ancillari, non tipicamente bancari, che rivestono un’importanza enorme nell’economia e nell’esperienza quotidiana. Tra di essi, certamente, vanno ricompresi i servizi di pagamento e, con importanza crescente, quei servizi di pagamento che vengono prestati attraverso il medium della moneta elettronica.

In questo quadro, secondo la Banca dei regolamenti internazionali, il termine non-banca è un’espressione convenzionale che designa i soggetti che prestano servizi di pagamento, ma che non raccolgono depositi e non concedono crediti (v. BIS, CPMI, Non-banks in retail payments, settembre 2014).

Più di recente, in concomitanza con i fenomeni critici degli ultimi anni, il concetto di non-banca è stato utilizzato per definire (e denunciare) il c.d. shadow banking system. Con riguardo a quest’ultimo fenomeno, sono state ricomprese nella definizione di non-banca tutte le entità finanziare che non sono autorizzate, regolate e vigilate “come se fossero banche” (società finanziarie in senso lato, veicoli di investimento, società di credito al consumo e fondi, compresi gli hedge fund).

Il fenomeno non è, quindi, nuovo. Secondo alcuni, anzi, la categoria della non-banca sarebbe più risalente e la sua nascita andrebbe ricondotta alle società che prestano servizi connessi all’emissione delle carte di credito che, come noto, sono emerse nella seconda metà del secolo scorso.

Ma la categoria è mobile e tende a espandersi, lasciando spiazzati legislatori e regolatori. Un ruolo centrale nell’espansione del fenomeno è giocato dall’economia che si sviluppa in rete, non solo attraverso canali che possiamo già oggi definire “tradizionali”, come i siti web, ma attraverso nuove forme che vanno dal c.d. mobile payment alla diffusione della moneta elettronica. Quest’ultima è al centro degli interessi non solo delle banche tradizionali e degli altri intermediari del denaro, ma anche e soprattutto di nuovi operatori del settore: le piattaforme di social networking. Qualche mese fa il Financial Times ha annunciato che Facebook, dopo essere stato autorizzato a prestare alcuni servizi di money transfer negli Stati Uniti, starebbe iniziando l’iter per ottenere l’autorizzazione come istituto di moneta elettronica in Irlanda e quindi, grazie al mutuo riconoscimento, in tutta l’Unione (H. Kuchler, Facebook enters money transfer marketFT,17.3.2015).

Anche il re della rete, Google, è entrato nel business. Con il sistema Google Wallet, per ora solo negli Stati Uniti, si può trasferire denaro conoscendo solo l’indirizzo e-mail del beneficiario. Come dice la presentazione dell’applicazione trasferire il denaro è facile e gratis (https://www.google.com/wallet/), e lo si può fare appoggiandosi sui circuiti delle carte tradizionali di credito o di debito ma anche – e questo è il punto interessante – trasferendo fondi a debito dal Google Wallet Balance, che assume le sembianze di un vero e proprio conto elettronico. Ci si può addirittura dotare, se si vuole, di una Google Wallet Card. Un altro esempio è rappresentato da Apple Pay (http://www.apple.com/apple-pay/), un’applicazione che consente di trasformare il telefonino – ma ora anche l’orologio – in uno strumento di pagamento che tuttavia, a differenza del “portafoglio” di Google, deve necessariamente appoggiarsi su carte di credito o di debito emesse da soggetti terzi (per ora).

Negli ultimi tempi si registra un’attenzione crescente nei confronti del fenomeno anche da parte di altri grandi provider di servizi social, che potrebbero entrare in questo mercato (Packin e Aretz, Big Data and Social Netbanks: Are You Ready to Replace Your Bank?, in corso di pubblicazione in Huston Law Review, 2016).

Ma non ci sono solo social network e motori di ricerca. Alcuni soggetti hanno sviluppato un mercato nuovo e, favorendo i grandi siti di commercio elettronico, hanno dato vita a sistemi di pagamento, basati sulla moneta elettronica, che si affiancano alle carte di credito e debito o si sostituiscono ad esse, servendosi dei loro canali. È il caso di Paypal che esiste da pochi anni ma è già leader di mercato. In Europa è autorizzato in Lussemburgo come non-banca, nel senso che si tratta di un istituto di moneta elettronica.

Il quadro normativo italiano, sulla scorta di quello europeo, potrebbe non essere pronto per affrontare la sfida posta da soggetti che sbarcano su un mercato esistente, ma in uno spazio nuovo.

Quando le prime non banche – carte di credito, altre società finanziarie in senso lato – sono entrate nel mercato dei servizi bancari (accessori), la competizione avveniva in un luogo fisico: banche e non-banche non potevano che avere una sede e del personale, cui i potenziali clienti potevano rivolgersi. La partita di oggi, invece, si gioca su di un campo di battaglia diverso e, per di più, scelto dallo sfidante: la rete.

I prestatori di servizi bancari (e di pagamento) tradizionali soffrono anche un altro handicap. Le piattaforme social che entrano sul mercato non hanno bisogno di competere per accaparrarsi clienti perché ne hanno già: sono i loro utenti. Il salto da utente a cliente, in questo campo, è breve.

Un altro fattore non deve essere sottovalutato. Gli utenti dei social non percepiscono tali piattaforme come soggetti istituzionalmente economici perché non si sentono necessariamente clienti. Il fenomeno è simile a quanto è accaduto con l’avvento della tv commerciale. Tutto il mondo del broadcasting è percepito come fatto di imprese che traggono le proprie risorse non direttamente dagli utenti (o dai telespettatori) ma dalla vendita degli spazi pubblicitari. Non è del tutto vero. La televisione ha dimostrato in nuce – e senza poter entrare nel meccanismo del trasferimento del denaro – di poter svolgere in modo eccellente funzioni di intermediazione commerciale e ciò non solo ingenerando nel pubblico il desiderio di acquistare beni o servizi, ma anche attraverso le c.d. televendite e quindi attraverso una funzione di intermediazione commerciale diretta, attività svolta massicciamente e non solo sulle reti e negli orari meno blasonati.

Con l’internet e, in particolare, con i social network il fenomeno appena descritto si radicalizza e si aprono nuovi spazi. A differenza della televisione, che può sostituirsi al commerciante ma non alla banca, i social network possono sostituirsi a entrambi. Ma c’è di più. Essi hanno accesso a informazioni che consentono di compiere ricerche di mercato e analisi prossime alla perfezione nel definire i gusti e le preferenze dei propri utenti (rectius, clienti). Tutto questo, peraltro, in un contesto in cui soprattutto i più giovani tendono ad affidarsi (e a confidarsi) con il social di riferimento, che è percepito come un sistema cui appoggiarsi (: una piattaforma) e non come una controparte contrattuale, con ogni negativa conseguenza sullo squilibrio del rapporto a vantaggio del social. Siamo in un settore in cui l’asimmetria informativa raggiunge il proprio acme dal momento nessuno, o quasi nessuno, legge le complicatissime e prolisse condizioni di contratto prima di sottoscrivere un contratto telematico con una piattaforma sociale.

Il problema, fino a oggi, è stato esaminato solo con riferimento al diritto alla riservatezza. A questo tema dovrebbe aggiungersi quello della tutela del risparmio.

Si pone, inoltre, il problema della tutela giurisdizionale dei clienti/utenti. In Italia si tratterebbe sicuramente, nella maggior parte dei casi, di consumatori avvantaggiati dal foro speciale previsto dal codice del consumo: ma altre forme di tutela, aggiuntive anche rispetto all’Arbitro Bancario, potrebbero essere pensate per evitare il fenomeno diffuso della rinuncia inconscia all’azione connessa alla natura, e al tendenziale modesto importo, delle transazioni con moneta elettronica.

Ogni soluzione regolatoria, in questo campo, deve tenere conto della specificità dello scambio di moneta elettronica. Uno scambio che avviene in nessun luogo fisico, che pone difficoltà nell’applicazione del principio di territorialità della legge e che, soprattutto, si compie con modalità tecniche che gli utenti – e spesso anche il legislatore – non comprendono.

C’è da chiedersi se il nostro ordinamento contempli istituti di diritto positivo idonei a disciplinare e a vigilare questo fenomeno che negli Stati Uniti è realtà sempre più consolidata. A me sembra che i soggetti di cui si è detto, se vogliono operare in Europa, devono farlo previa autorizzazione come istituti di pagamento o di moneta elettronica. In particolare, se la non-banca social vuole offrire servizi basati sull’intermediazione di moneta elettronica, deve assumere la forma di IMEL che, secondo la definizione del testo unico bancario (art. 1, co. 1, lett. h bis), è “l’impresa, diverse dalla banca, che emette moneta elettronica”. A sua volta, la moneta elettronica è definita come: “il valore monetario memorizzato elettronicamente, ivi inclusa la memorizzazione magnetica, rappresentato da un credito nei confronti dell’emittente che sia emesso per effettuare operazioni di pagamento” (cfr. lett. h-ter). Si tratta quindi di soggetti che prestano servizi di pagamento ma che non possono entrare nel mercato della raccolta bancaria e, di conseguenza, non possono concedere prestiti.

Gli IMEL non hanno avuto, fino ad oggi, il successo che si pensava e, quindi, nei loro confronti il legislatore non ha ancora focalizzato la dovuta attenzione. La Banca d’Italia ha fatto qualcosa in più nelle disposizioni di vigilanza dedicate a questi soggetti (versione 2012), ma il quadro non sembra completo.

In linea generale, il t.u.b. chiarisce all’art. 11, co. 2 bis che “non costituisce raccolta del risparmio tra il pubblico la ricezione di fondi connessa all’emissione di moneta elettronica”. Quindi l’IMEL si limita a ricevere fondi e a emettere la moneta elettronica corrispondente, che poi il cliente può utilizzare per acquistare bene o servizi. Una raccolta, allora, a ben vedere c’è, anche se con due fondamentali differenze rispetto alla raccolta bancaria: l’IMEL non può impiegare le risorse raccolte e il cliente ha sempre diritto al rimborso, a pagamento o gratuito (cfr. art. 114 ter e 144 t.u.b.).

È vero che il diritto al rimborso su richiesta consente di pensare all’IMEL come a un soggetto più facile da controllare e, comunque, meno pericoloso rispetto alle banche, sia sotto il profilo del rischio di credito, che del rischio sistemico. Ma si tratta di un’associazione di idee che rischia di essere fuorviante nel contesto che qui si è appena delineato. Se, infatti, un IMEL acquista dimensioni rilevanti può trovarsi ad avere esposizioni enormi nei confronti dei clienti/utenti.

Sul punto la disciplina europea si limita a prevedere che i fondi degli utenti siano costituiti in un patrimonio separato rispetto a quello dell’istituto.     Resta un problema: come tutelare gli utenti in caso di inosservanza dell’obbligo di separazione patrimoniale? La questione non deve essere sottovalutata, anche perché gli IMEL possono essere costituiti con un capitale minimo di appena 350.000 euro e, soprattutto, sono esclusi dal sistema di tutela dei fondi di garanzia (cfr. art. 96 bis t.u.b.).

Inoltre, i “social IMEL” sono soggetti ibridi. L’istituto ha allora bisogno di essere registrato per far in modo che sia idoneo ad “accogliere” i grandi attori del panorama informatico. Sul punto, l’art. 114 quinquies.1, co. 5, t.u.b. forse intravede il problema, ma senza offrire soluzioni credibili perché si limita a prevedere che gli IMEL “che svolgano anche altre attività imprenditoriali…” (ad es., vendita pubblicità, social networking, servizi e-mail etc.) “… costituiscono un patrimonio destinato unico per l’emissione di moneta elettronica e la prestazione dei servizi di pagamento”; un po’ poco per disciplinare un fenomeno così complesso (peraltro la disposizione sembra una ripetizione di quanto già previsto dal t.u.b. per gli IMEL “puri”, cfr. art. 114 terdecies).

In conclusione, l’attuale disciplina appare lacunosa. L’Unione deve dotarsi di un quadro di disposizioni per disciplinare il fenomeno del social non-banking. Può trattarsi di una disciplina nuova o, come pare preferibile, di un aggiornamento della disciplina degli IMEL. In ogni caso, essa dovrebbe contemplare strumenti: (i) idonei a compensare lo squilibrio contrattuale tra utenti e provider; (ii) idonei a “dare azione” agli utenti nell’ambito della giurisdizione di uno Stato membro; (iii) che consentano alla Banca d’Italia di vigilare su di una realtà complessa e non fisica; (iv) che garantiscano la restituzione dei fondi in caso di mancato rispetto delle regole in materia di separazione patrimoniale.