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Austria e Regno Unito: quando un'economia tonica nasconde gravi fragilità del sistema bancario

Una condizione economica favorevole può nascondere la debolezza del sistema bancario: ne sono la dimostrazione l’Austria e il Regno Unito. Il sistema bancario austriaco è sovradimensionato, ha un’ampia esposizione verso l’Est Europa ed ha subito grosse perdite per effetto del realizzarsi del rischio di cambio relativo ai prestiti denominati in valuta estera. Il Regno Unito ha un sistema bancario ancora convalescente dalla crisi internazionale del 2008-09. Nel complesso gli interventi pubblici di ricapitalizzazione del sistema bancario hanno superato i 110 miliardi di sterline, un impegno che ha contribuito non poco all’accresciuta importanza del problema del debito pubblico nel Regno Unito. Tutti i principali gruppi bancari inglesi sono impegnati in complessi processi di ristrutturazione, secondo strategie di rilancio basate sui seguenti elementi: i) rifocalizzazione sul mercato domestico, ii) con conseguente ridimensionamento della proiezione internazionale, iii) nell’ambito di una significativa diminuzione dello stato patrimoniale; nel portafoglio attività iv) accresciuta preferenza per il profilo di banca commerciale e v) parallelo disimpegno dall’attività di intermediazione nel mercato finanziario globale.

Silvano Carletti
Carletti

La stampa economica dedica grande attenzione alla condizione dei sistemi bancari dei paesi più deboli sotto il profilo economico (primi tra tutti, i paesi dell’Europa mediterranea). Correttamente perché ovunque la buona salute di un Paese è condizione essenziale per la solidità di un sistema bancario, soprattutto là dove (come in Europa) il sistema bancario è il principale canale di finanziamento dell’economia.

Decisamente meno attenzione viene dedicata al circuito bancario di paesi attualmente in condizione economica più favorevole. Comprensibile (per quanto sopra accennato) ma non completamente corretto. La crisi 2008-09 ha dimostrato che le difficoltà delle banche possono arrivare a sgretolare la solidità di un sistema economico.

Non sono pochi i casi in Europa in cui un soddisfacente andamento economico nasconde una rilevante fragilità del sistema bancario nazionale. Il caso tedesco è noto, quello diAustria e Regno Unito lo sono molto meno.

Il caso dell’Austria

L’Austria è tra i paesi dell’area euro che hanno meno risentito della sfavorevole dinamicaeconomico-finanziaria prevalsa negli ultimi anni nel Vecchio Continente [1] . Rispetto al 2007, alla fine del 2014 il Pil dell’Austria risulta cresciuto del 4% a fronte di una flessione dell’1% per l’intera eurozona. Inoltre, il Paese ha ricevuto la “tripla A” da due delle tre maggiori agenzie internazionali di rating. Si tratta di una valutazione che solo altri 4 paesi dell’area euro possono vantare.

A togliere brillantezza a questo scenario sono problematiche di natura finanziaria, causate da molteplici circostanze tra cui non ultimo il carattere tendenzialmente sovradimensionato del sistema bancario nazionale [2] .

Oltre al carattere tendenzialmente ipertrofico, aspetto peculiare del sistema bancario austriaco è il suo forte orientamento verso i paesi dell’Est Europa. Dall’inizio degli anni ’90, iniziando dall’Ungheria e dall’allora Cecoslovacchia, gli istituti di credito austriaci hanno gradualmente rafforzato questa direttrice di crescita fino ad avere significative quote di mercato in numerosi paesi dell’area. Ad alimentare questa scelta la convinzione che il processo di convergenza verso l’Europa avrebbe qui stimolato una crescita più intensa, una previsione rivelatasi almeno parzialmente corretta in alcuni casi ma decisamente benevola in molti altri. Avendo come riferimento le valutazioni dei singoli paesi espresse dall’agenzia di rating S&P, a metà 2014 (ultimo disponibile) l’esposizione delle banche austriache nell’Est Europa era classificabile per circa un terzo di qualità insufficiente (al di sotto della soglia investment grade[3] .

A complicare ulteriormente la situazione è la denominazione in valuta estera di una larga parte dei prestiti. Secondo dati Bce, alla fine di settembre 2014 tali prestiti ammontavano a circa €37 mld, con la quota in franchi svizzeri di gran lunga dominante. Pur essendo diminuiti di circa un terzo rispetto al 2008, il loro ammontare è ampiamente superiore a quello di sistemi bancari tedesco o francese (€20-25 mld).

Il problema ha due versanti: quello domestico e quello estero. Il primo è meno grave sia perché relativamente limitato sia per il miglior grado di solvibilità della clientela locale. Il secondo fronte del problema è decisamente più serio sia per la minore robustezza della clientela dell’Est Europa sia perché il confronto tra valute locali e valute estere (euro e franco svizzero) si presenta stabilmente sfavorevole. Il fenomeno dei prestiti denominati in valuta estera coinvolge soprattutto le famiglie, circostanza che dà al problema un rilievo politico/elettorale considerevole[4] .

La forte diffusione dei prestiti denominati in valuta estera trae origine dal più contenuto livello dei tassi d’interesse che li ha a lungo caratterizzati. L’effettivo realizzarsi del rischio di cambio in essi implicito ha trasformato questi contratti in un disastro finanziario. Per rendersene conto basta osservare il percorso di rivalutazione del franco svizzero contro euro: da 1,65 a fine 2007, a 1,48 a fine 2009, a 1,22 a fine 2011. A metà gennaio 2015 la situazione è divenuta ancora più critica per la decisione della Banca Centrale Svizzera di non contrastare più le spinte alla rivalutazione della valuta nazionale. Muovendo dal livello di 1,20 confermato per oltre un triennio, il rapporto di cambio tra franco svizzero ed euro si è rapidamente avvicinato alla parità (attualmente è al di sotto di 1,05). Assumendo come riferimento la situazione a fine 2007, rispetto al franco svizzero la svalutazione del fiorino ungherese e dello zloty polacco è ora intorno al 50%.

Le importanti conseguenze di questa situazione hanno portato al fallimento di alcune istituzioni austriache di media dimensione. Significativi anche i riflessi sui conti delle banche maggiori per le quali anche il 2014 è stato un anno decisamente difficile. Dei tre gruppi maggiori, solo il primo (Bank Austria) ha chiuso in utile, recuperando (ma non interamente) la perdita dell’anno precedente. Gli altri due gruppi (Erste Group e Raiffeisen Bank International) hanno invece registrato forti perdite.

Il caso del Regno Unito

Rispetto al caso austriaco, il ragionamento sul caso inglese muove da un punto di partenza simile, si sviluppa con modalità diverse, porta a considerazioni di fondo analoghe.

Il Regno Unito è tra i pochi paesi europei in cui la ripresa economica ha raggiunto uno spessore significativo. Se le recenti previsioni della Commissione Europea si riveleranno esatte il ritmo di crescita di questo Paese risulterà nel triennio 2014-16 pari al 2,4% anno, il doppio di quello conseguito dalla Germania e oltre tre volte quello dell’area euro.

Il sistema bancario inglese risulta ancora segnato dagli effetti della crisi internazionale del 2008-09. Per evitare un collasso completo del circuito finanziario nazionale, le autorità inglesi furono allora costrette a procedere alla completa nazionalizzazione di due gruppi di medie dimensioni (Northern Rock e Bradford & Bingley, attività totali rispettivamente pari a circa $200 mld e $100 mld). Poco al di sotto di una totale nazionalizzazione si è fermato l’intervento di salvataggio della Royal Bank of Scotland (RBS). Più contenuto, ma altrettanto decisivo il sostegno al Lloyds Banking Group (LBG), un gruppo trovatosi in grave difficoltà a causa soprattutto del salvataggio di HBOS (Halifax Bank of Scotland) effettuato all’inizio del 2009 su informale sollecitazione del governo. Nel complesso gli interventi pubblici di ricapitalizzazione del sistema bancario hanno superato i 110 miliardi di sterline, un impegno che ha contribuito non poco all’accresciuta importanza del problema del debito pubblico nel Regno Unito, aumentato dal 44% del Pil nel 2007 all’86% nel 2012 (89% alla fine dello scorso anno).

Gli altri due gruppi che completano il vertice del sistema bancario inglesehanno potuto evitare interventi pubblici di sostegno. HSBC (Hongkong & Shanghai Banking Corporation) è stata in grado di attraversare relativamente indenne la crisi finanziaria del 2008-09 sia per il suo prevalente operare come banca commerciale sia per l’elevata diversificazione geografica delle sue attività. Da parte sua, Barclays è stata invece fortemente coinvolta nella crisi, sia per il rilievo della sua attività di banca d’investimento sia per l’importante presenza nel mercato statunitense. Rifiutato il sostegno pubblico, a metà 2008 Barclays ha proceduto ad un rilevante aumento di capitale in gran parte sottoscritto dal QIA (Qatar Investment Authority) e in misura più limitata da tre importanti investitori asiatici .

La solidità del sistema bancario è nel Regno Unito argomento molto più sensibile che altrove. Il rapporto tra attività bancarie e Pil è passato dal 100% circa nel 1975 all’attuale 450% (uno dei valori massimi della Ue), con la prospettiva di salire ulteriormente e sensibilmente nel futuro. I quattro maggiori gruppi bancari hanno capitalizzazione di Borsa compresa tra €60 e 160 milioni e bilanci con attività totali che vanno da un minimo di €1,1 ad unmassimo di €1,7 trilioni (Intesa SanPaolo, la principale banca italiana ha dimensioni ben al di sotto del minimo dei due indicatori proposti).

Il governo ha avviato un processo di disimpegno dai due gruppi in cui è presente. Nel caso di RBS si tratta solo di un primo, timido passo (appena £1,4 mld) perché la condizione del gruppo non consente di effettuare il collocamento ad un prezzo per azione tale da consentire il pieno recupero dell’aiuto concesso (£46 mld), promessa politico-elettorale costantemente ribadita. Nel caso di Lloyds Banking Group, invece, l’operazione di disimpegno dello Stato è in fase di avanzata realizzazione: dall’iniziale livello del 43% lapartecipazione risulta ora scesa al di sotto del 20%. Secondo quanto recentemente annunciato, il processo di uscita dal capitale del gruppo potrebbe essere completato nell’arco di pochi mesi (marzo 2016), con un recupero più che completo di quanto investito. Il favorevole evolversi della situazione è testimoniato anche dalla decisione di autorizzare LBG al pagamento di un dividendo (dopo un’interruzione di oltre sei anni).

Tutti i principali gruppi bancari inglesi sono impegnati in complessi processi di ristrutturazione. Se da un lato essi muovono da situazioni ampiamente diverse, dall’altro lato la loro strategia di rilancio presenta numerosi aspetti in comune che possono essere cosi riassunti: i) rifocalizzazione sul mercato domestico, ii) con conseguente ridimensionamento della proiezione internazionale, iii) nell’ambito di una significativa diminuzione dello stato patrimoniale; nel portafoglio attività iv) accresciuta preferenza per il profilo di banca commerciale e v) parallelo disimpegno dall’attività di intermediazione nel mercato finanziario globale. HSBC si distacca parzialmente da questo schema cui invece aderiscono largamente gli altri tre gruppi.

Due esempi per dare un’idea della profondità di questi processi di ristrutturazione. RBS ha proceduto ad un rilevantissimo ridimensionamento così come con pochi precedenti era stata la sua crescita prima della crisi 2008-09 [5] .

La Hongkong & Shanghai Banking Corporation (HSBC) è tra i grandi gruppi bancari inglesi l’unico per il quale i termini riposizionamento e semplificazione non sono in larga misura sinonimo di ridimensionamento. Nel quinquennio 2010-14, infatti, il totale delle sue attività è rimasto relativamente stabile pur essendo il gruppo impegnato in una significativa inversione strategica che ha comportato la cessione/cessazione delle attività senza adeguati margini o prospettive di redditività [6] .

Il ridimensionamento della presenza internazionale è uno degli snodi fondamentali di questi processi di ristrutturazione: dal 2008 RBS risulta essersi ritirata da 25 dei 38 paesi in cui era presente e ora i ricavi dell’attività fuori dal Regno Unito sono appena il 20% del totale; LBG ha ridimensionato la sua presenza internazionale da 30 a 6 paesi; Barclays, dopo il ritiro dagli Emirati Arabi Uniti, ha proceduto alla quasi totale cessione delle attività retail in Europa, dall’Italia allaSpagna, Paese questo ove Barclays era da tempo il più importante operatore straniero.

Molte circostanze rendono difficile la definizione di un nuovo profilo di questi gruppi. Tra esse un posto di assoluto rilievo spetta al cospicuo flusso di indennizzi e sanzioni che con diverse motivazioni tutti questi gruppi sono stati chiamati a pagare. Sotto il profilo dell’impatto finanziario la vicenda di gran lunga più importante è quella delle inutili polizze assicurative (PPI, Payment Protection Insurance) vendute dal 1990 al 2010 ai propri correntisti per un ammontare complessivo pari a circa £44 mld.Nel 2011 la Fsa (Financial Service Authority, l’organismo che vigila sul mercato finanziario britannico) ha condannato gli istituti inglesi al completo rimborso di queste polizze (quando inappropriate), decisione che si è già tradotta in £17 mld di pagamenti, un “effetto PPI” che ha sostenuto in modo visibile la dinamica dei consumi delle famiglie. Si stima che (includendo anche i costi legali e amministrativi) l’esborso complessivo potrebbe alla fine aggirarsi intorno a £27-28 mld, esborso sostenuto quasi interamente dai soli 4 gruppi maggiori.

Questa vicenda e il procedere a ritmi serrati del processo di radicale ristrutturazione sta avendo un sensibile impatto sul conto economico di questi gruppi. Nel 2014 solo LBG presenta unmiglioramento dei profitti lordi, muovendo però dal livello decisamente modesto dell’anno precedente; HSBC e Barclays registrano una flessione intorno al 20% rispetto al consuntivo 2013; RBS, da parte sua, ha chiuso il 2014 nuovamente in rosso (£3,5 mld), con una perdita cumulatadal 2008 di oltre £45 mld. Nell’insieme, questi gruppi devono ritenersi ancora convalescenti, un’affermazione in più di un caso carica di un certo ottimismo.


[1] Ecco alcuni dati che riassumono questa favorevole situazione dell’Austria: una crescita lenta ma comunque positiva (+0,5% in media nell’ultimo triennio); un tasso di disoccupazione pari a meno della metà di quello riscontrabile in media nell’area euro; un rischio deflazione relativamente lontano; un disavanzo pubblico ben entro la soglia del 3% del Pil e un rapporto debito pubblico/Pil inferiore alla media dell’area euro; una solida condizione finanziaria sia delle famiglie (i debiti rappresentano meno del 90% del reddito netto disponibile a fronte del 114% registrato in media nei paesi della moneta comune) sia delle imprese (indebitamento pari a 2,4 volte il margine lordo); un saldo delle partite correnti costantemente positivo negli ultimi dodici anni (+0,8% in rapporto al Pil nel 2014).

[2] Secondo dati Bce, il totale delle attività bancarie in Austria nel 2013 (ultimo disponibile) è pari a circa 3,5 volte il Pil, a fronte di una media di 2,8 volte per l’eurozona; il multiplo austriaco è quasi analogo a quello della Spagna e inferiore solo a Paesi Bassi, Irlanda e Cipro.

[3] Alla fine dello scorso anno l’esposizione estera delle banche austriache ammontava complessivamente a circa €280 mld, per due terzi riferibile ai paesi CESEE (Europa Centrale, Orientale e Sud-orientale) e CIS (Comunità degli Stati Indipendenti). Questi €185 mld sono un ammontare decisamente importante per un Paese la cui dimensione economica (Pil a prezzi di mercato) è intorno a €330 mld. Considerando l’esposizione complessiva verso l’Est Europa la quota dell’Austria è la più alta (20%) tra i paesi dell’eurozona.

[4] Sul totale dei prestiti alle famiglie la quota di quelli in valuta estera è in Romania al 62%, in Croazia al 72%, in Ungheria al 52% (soprattutto franchi svizzeri). InPolonia è al 30% ma arriva al 26% anche dal lato delle imprese.

[5] Tra il 2001 e il 2008 il attivo totale diRBS è cresciuto da £0,4 a 2,4 trilioni, un importo quest’ultimo pari al PIl della Germania e superiore del 50% a quello dell’Italia. Rispetto a quel valore massimo, le attività totali di RBS risultano ora diminuite di quasi il 60% (poco sopra £1 trilione a fine 2014), con la prospettiva di un’ulteriore consistente diminuzione.

[6] La profondità di questa correzione strategica è ben descritta da questi numeri: tra il 2000 e il 2010 HSBC ha completato 107 operazioni di acquisizione e 52 di cessione/cessazione, con il prevalere per circa $36 mld degli esborsi sugli incassi; nei 4 anni e mezzo successivi (inizio 2011-maggio 2015) ad appena 6 acquisizioni si sono contrapposte 78 cessioni/cessazioni con un consuntivo di segno positivo pari a $30 mld.