Si chiamano Art funds. Tra successi e insuccessi hanno più di un secolo. Ma sono poco conosciuti. Ora una nuova normativa ne ridefinisce i confini trasformando il “passion investment” in investimento razionale e strutturato
La parabola compiuta dagli art funds, anche se poco frequentati dagli investitori – oltre che dalla dottrina giuridica – , è tutt’altro che breve.
Era infatti il 1904 quando dodici appassionati d’arte, sotto la guida del finanziere francese André Level, costituirono il primo fondo di arte della storia, La Peau de l’Ours, attraverso il quale furono acquistate solo opere d’arte contemporanea.
È importante sottolineare da subito come, nonostante l’operazione potesse apparire altamente speculativa e rischiosa, in realtà fu la prudenza, la lungimiranza e l’intelligenza dei suoi partecipanti a guidarla: l’impegno economico richiesto agli investitori fu infatti modesto (250 franchi per ciascuno), e l’asset del fondo fu non a caso sapientemente costruito intorno ad uno specifico segmento di mercato, puntando altresì alla ricerca della qualità assoluta delle opere da acquistare. Non ultimo: tutti gli investitori si fidavano cecamente del fiuto artistico e per gli affari del promotore (oggi si dovrebbe dire del “gestore”).
Il successo fu straordinario: allo scadere del periodo di investimento, il 2 marzo 1914, l’intera collezione andò all’incanto all’Hotel Drouot di Parigi, con prezzi spesso decuplicati rispetto a quelli originari.
Sono passati quindi cento anni esatti da quella leggendaria tornata d’asta, e la storia, a ben guardare, registra solo un altro esempio di art fund il cui successo, nonostante non sia nemmeno paragonabile a quello de La Peau de l’Ours, si può comunque considerare significativo: quello del British Rail Pension Fund, istituito dalle ferrovie inglesi a beneficio dei suoi impiegati nel 1974.
Il meccanismo utilizzato fu un po’ diverso: questo fondo infatti comprò e rivendette opere d’arte sempre attraverso Sotheby’s, ma a ben guardare delle 24.000 opere vendute si stimò che circa 60, da sole – quelle di maggior qualità – , generarono la maggior parte del profitto. Questo per dire che, a differenza de La Peau de l’Ours, gli acquisti furono interamente gestiti da una casa d’aste, esterna al fondo, le cui scelte si caratterizzarono però per essere piuttosto dispersive: molte più opere, che spaziavano attraverso vari segmenti di mercato, e soprattutto una selezione delle medesime non sempre dettata dalla ricerca della qualità assoluta.
In generale, come si diceva poc’anzi, si trattò di un esperimento di successo, ma pur rendendo più dell’inflazione, il fondo sottoperformò il mercato azionario.
Dopo quelle prime due esperienze, la situazione degli art funds conobbe una fase poco felice: in altre parole, i principali fondi nati a partire dalla fine degli anni Novanta/inizio del Duemila furono tutti destinati a rimanere non operativi o ad avere uno scarso successo.
Le uniche eccezioni in questo quadro sono il Fine Art Fund, fondo londinese ideato da Lord Hanson, un uomo d’affari che è riuscito a coinvolgere nella gestione del medesimo, personalità come Phillip Hoffman, ex vice- director di Christie’s, e Lord Gowrie, Ministro britannico della Cultura del Governo Thatcher e Presidente di Sotheby’s per 10 anni. Si tratta di un fondo che ha comunque ridimensionato nel tempo le sue ambizioni, rappresentando attualmente solo un veicolo di investimento privato (non ha convinto infatti nessun investitore istituzionale) di modeste dimensioni. Non è particolarmente agevole sapere come il fondo investa il suo capitale, ma sembrerebbe che la sua strategia sia quella di diversificare molto i periodi e le opere da acquistare.
Poi c’è il caso del Lussemburgo, che è del tutto particolare, in quanto una serie di condizioni (fiscali, normative, politiche, etc.) lo rendono la seconda piazza di fondi di investimento al mondo dopo gli Stati Uniti: la riservatezza caratteristica di tale contesto non permette di avere troppe informazioni, per cui con certezza, allo stato, sulla base delle ricerche condotte, si può dire che è sicuramente operativo da un paio di anni il fondo di Anthea Art. Il quale si caratterizza non solo per essere specializzato in un particolare segmento di mercato, quello dell’arte post war e contemporanea, ma soprattutto per essere finalizzato alla costruzione di una vera e propria collezione, coerente, costituita di opere ben scelte – grazie al lavoro di due curatori internazionali, che fanno parte del management del fondo, di provata indipendenza e riconosciuta competenza – , anche se non è possibile sapere allo stato, se la scelta sarà poi, alla scadenza del periodo di investimento, quella di vendere la collezione in blocco – opzione che sicuramente accenderebbe l’interesse di aspiranti collezionisti di Paesi di recente ricchezza – o, come più tradizionalmente avviene, le singole opere.
Non sappiamo invece quale sarà la sorte di esperienze più recenti.
A sua volta infatti il già citato Phillip Hoffman è il promotore del Fine Art Fund III, dell’omonimo gruppo: un fondo, nato nel settembre 2013, con base stavolta, non a Londra, come gli altri fondi del gruppo, ma non a caso in Lussemburgo, e specializzato nel sostegno del particolare meccanismo delle garanzie nelle aste di Christie’s e Sotheby’s.
Vi è poi l’Art Trading Fund, lanciato nel 2012 da Chris Carlson, che si caratterizza per essere molto speculativo, concentrandosi quindi in investimenti quasi esclusivamente in arte contemporanea, con un veloce turn over delle opere possedute.
Così come non molto è possibile dire dei numerosi fondi di arte in Cina: si stima infatti che di 83 art funds censiti nel mondo, circa 58 siano stati fondati in Cina a partire dal 2009 (i dati derivano dall’ultimo rapporto Art&Finance di Deloitte Luxembourg e ArTactic, ma sui medesimi in realtà molti operatori del settore dubitano). Un risultato, quest’ultimo, cui, se confermato, non sarebbe di certo estraneo il Governo cinese, che, come è noto, tende a stimolare non poco il settore: al punto che è dello stesso anno la creazione anche della Shenzhen Cutural Assets and Equity Exchange (Szcaee), la borsa dei beni culturali di Shenzhen.
Tra le altre esperienze recenti e difficilmente valutabili allo stato vanno segnalati inoltre il Fondo Scudo Arte Moderna, nato dalla Scudo Investimenti Sg, istituto di San Marino; ed il Sobraine.Photoeffect, il primo grande fondo di investimento in arte russo, quotato alla Borsa di Mosca e specializzato solo in fotografia: un segmento di mercato che è stato scelto per la rapida crescita avuta negli ultimi anni, e perché considerato accessibile ad una più larga fascia di investitori (non a caso l’investimento minimo richiesto è di 16.700 dollari).
Quel che si può da subito far notare è però non solo l’estrema specializzazione del fondo russo, ma anche come, in entrambi i casi, sia il modello di business ad essere nettamente diverso da quello delle esperienze precedenti di art funds: il fondo sanmarinese investe infatti in fine art quasi l’80% del suo valore, lasciando liquida la restante percentuale dei suoi assets; mentre il fondo russo non ha all’inizio raccolto soldi dagli investitori per l’acquisto delle opere d’arte da rimettere in seguito sul mercato, ma ha raccolto direttamente un enorme corpus di opere da collezioni russe di fotografia: opere che si impegna a rivendere all’asta, annualmente, in percentuali variabili – contestualmente cercando di valorizzarle attraverso una serie di esposizioni in Musei ben scelti di tutto il mondo – , per poi pagare i dividendi finali agli investitori (al punto che qualcuno potrebbe anche dubitare che si tratti tecnicamente di un fondo).
Nonostante il quadro sembrerebbe non offrire troppi elementi di valutazione, si permetta sommessamente una prima deduzione, molto parziale, favorita da una particolare esperienza italiana, cui volutamente non si era ancora accennato: il riferimento è al fondo Pinacotheca, l’unico che la Banca d’Italia abbia mai autorizzato (nel maggio 2007), nonostante, a ben guardare, perlomeno agli occhi degli addetti ai lavori del mondo dell’arte, fosse un fallimento annunciato (come poi si è puntualmente rivelato).
Il fondo in questione, infatti, si concentrava sull’acquisto di opere di alta epoca di artisti italiani scarsamente noti, ma dietro l’indubbio, ed in parte lodevole, intento di valorizzazione dei medesimi, non si può non notare come dal punto di vista degli affari lo schema fosse piuttosto debole: non appena infatti artisti di tal genere vengono immessi sul mercato, è molto probabile, per come è concepita la normativa italiana sul patrimonio culturale, che le loro opere vengano dichiarate di interesse culturale (con la c.d. notifica): un passaggio la cui unica conseguenza certa, dal punto di vista del mercato dell’arte, è il deprezzamento di valore delle opere, dovuto essenzialmente alle restrizioni alla circolazione delle medesime all’interno dei confini del nostro Paese. Il che le priva automaticamente di qualsiasi appetibilità per il mercato internazionale; così come – soprattutto – ha privato il fondo di qualsiasi appetibilità per gli investitori, determinando il fallimento dell’operazione.
A queste considerazioni, si aggiunga infine un dato di fatto: le uniche esperienze di fondi di arte di successo risalgono ad un periodo (rispettivamente 1904-1914 per La Peau de l’Ours, e gli anni Settanta per il British Rail Pension Fund) in cui – se non lo si fosse già notato – non esisteva ancora una normativa specifica per i fondi di investimento (né in Italia, che dovette aspettare il 1983 per la prima normativa di settore, né altrove).
Il dato è molto singolare, e messo a sistema con quanto osservato fino ad ora fa venire spontanea una prima deduzione, del tutto parziale, come si diceva, ma non per questo meno suggestiva: il successo degli art funds sembrerebbe infatti dipendere non tanto dalla disciplina del settore, quanto da come vengono strutturati, ideati, financo dalla scelta delle persone coinvolte, dal loro grado di indipendenza effettiva nelle scelte di acquisto: in altre parole dal modello di business – inteso in senso ampio – prescelto.
Ed è forse per questo che le esperienze più recenti sembrerebbero tendere a diversificarlo il più possibile. Solo il tempo ovviamente ci potrà dire quale sarà il modello, o i modelli, vincenti: sempre che ce ne siano. La sensazione è infatti che non si tratti di modelli standardizzabili, né tantomeno immutabili nel tempo: molto potrebbe dipendere infatti dalle condizioni e dall’evoluzione del mercato dell’arte, sempre molto volatile.
Quel che è certo è come la più recente normativa di settore sembrerebbe, dal canto suo, favorire gli investimenti in asset alternativi (come l’arte, per l’appunto) e che molti operatori del settore finanziario si aspettino comunque molto da queste novità.
Potendo infatti considerare ormai risolti definitivamente, ed in senso positivo, i problemi di opportunità, per così dire, della sussunzione dei beni d’arte nel contesto della gestione collettiva del risparmio, va detto come proprio nel momento in cui si scrive, il quadro normativo che più può interessare tale contesto, si stia definitivamente componendo: entro luglio 2014 dovrebbero infatti essere emanati anche tutti i decreti attuativi, ponendo così fine alla fase transitoria, per cui si avrà il novellato Tuf (Testo unico della finanza) pienamente operativo, e la direttiva 2011/61/Ue, c.d. Aifmd (Alternative investment fund managers directive) già in vigore dal 9 aprile 2014.
La cornice generale della materia è poi quella già definita con l’attuazione della direttiva 2009/65/Ce, c.d. direttiva Ucits IV (Undertakings for collective investment in transferable Securities), che ha progressivamente ridisegnato lo scenario: dividendo le tipologie di fondi innanzitutto tra quelli Ucits e quelli non Ucits.
Ormai quindi gli art funds sembrerebbero avere una loro, e più soddisfacente, collocazione definitiva nel sistema: certamente come fondi non Ucits rispetto a quest’ultima direttiva; mentre, rispetto al novellato Tuf, si potrebbe affermare, in via di ipotesi di lavoro, come delle due l’una: o si tenderà a costruirli come Oicr italiani chiusi, in particolare come Fia (fondi comuni d’investimento alternativi) italiani chiusi, oppure si tenderà a configurarli come Oicr italiani riservati, in particolare come Fia italiani riservati (che, a tacer d’altro, non abbisognano di nessuna autorizzazione).
Quel che è certo è che con la Direttiva Aifmd, il gestore di fondi di investimento alternativi potrà commercializzarli anche in uno Stato membro dell’Unione diverso dal proprio stato di origine grazie al passaporto; oppure gestire un Fia stabilito in un altro Paese dell’Unione (mentre, al momento in cui si licenziano queste pagine, sembrerebbe che i Fia extra Ue, che svolgano attività di gestione o commercializzazione in seno all’Unione europea, potranno ottenere il passaporto solo dal 2015).
Per il resto, attendiamo di leggere le ultime novità legislative nel loro testo definitivo, anche se a sensazione – nonostante l’esperienza fin qui ci abbia mostrato uno scenario in cui il successo o l’insuccesso dei fondi di arte sembrerebbe non dipendere troppo dall’esistenza di buone leggi per la materia (ma come insegna Taleb con i suoi Cigni Neri, esiste anche una sorta di “empirismo ingenuo”, per cui si scambia un’osservazione ingenua del passato per qualcosa di definitivo o rappresentativo del futuro, da cui occorre ben guardarsi) – , si potrebbe affermare fin da ora che tali novità lascino intravedere un futuro migliore per gli art funds.
Non foss’altro perché potrebbero meglio intercettare la domanda, nel mercato dell’arte, proveniente da una categoria di collezionisti che, pur se di recente formazione, già rappresentano il 24% di tale mercato: quella dei collezionisti investitori. Quelli, per intenderci, che ricercano online una vasta gamma di informazioni su performance d’asta, prezzi e andamenti delle opere, in quanto l’investimento deve proteggere il loro capitale, se non anche accrescerlo (con opportune speculazioni); i medesimi per i quali l’arte è soprattutto status symbol, per cui al contemporaneo più recente (e rischioso, da veri appassionati) preferiscono di gran lunga nomi più affermati; e che hanno cominciato a collezionare non più di cinque anni fa, ammettendo candidamente di capire poco o nulla di arte (dati ArtEconomy del 15 marzo 2014).
Insomma, un bel passo in avanti sulla strada – da molti operatori professionali, del mondo finanziario e dell’arte, auspicata – per trasformare finalmente l’investimento in arte da “passion investment”, come finora di fatto è stato, a investimento più razionale e strutturato: rendendolo così più congeniale all’ormai sempre più variegato mondo del risparmio gestito.