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Usura: il dilemma degli interessi di mora

Fiumi d’inchiostro per dirimere l’annosa questione dell’omogeneità degli interessi corrispettivi e di mora nell’ambito della disciplina giuridica dell’usura. Eppure non si scorge via d’uscita tra gli intricati labirinti interpretativi. Mentre continuano i contrasti tra Suprema Corte e Arbitro Bancario Finanziario a colpi di sentenze e decisioni collegiali

Flavio Ciotti
Ciotti

La Cassazione, da ultimo con sentenza n. 350/2013, ha avuto modo di pronunciarsi su una problematica di antica fattura ma ancora viva e vivace nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale: se includere o meno gli interessi di mora nell’ambito di applicazione della disciplina in materia di usura. La Corte, sul punto, con motivazione piuttosto succinta e sulla base del tenore letterale del dettato normativo, si è limitata a statuire che si intendono usurari gli interessi che superano il limite fissato dalla legge “nel momento in cui essi sono promessi o convenuti a qualunque titolo, quindi anche a titolo di interessi moratori”, essendosi già espressa in termini e modalità analoghe in precedenti pronunce.

Sarà per via della materia normativamente frastagliata o particolarmente sensibile, eppure la Suprema Corte pare aver perduto ogni aspirazione a quel che si diceva essere il quid pluris dell’attività nomofilattica: sviscerare e analizzare a fondo il problema. D’altronde, è difficilmente perseguibile l’ambizione al rispetto del precedente di legittimità e, in definitiva, alla uniformità dell’interpretazione giuridica nonché alla certezza di tutela, se le decisioni sono motivate in modo sfuggente. Si presta, poi, il fianco a critiche da parte dei Tribunali di merito; da ultimo, Verona 30 aprile 2014, il quale, occupandosi della questione (e giungendo a conclusione opposta a quella della Corte), non ha mancato di rilevare come “pur nel doveroso rispetto dell’autorevole arresto menzionato, la questione risulta più complessa e, perciò, bisognosa di articolata ricostruzione”. Facciamo un passo indietro. L’intreccio tra interessi corrispettivi, moratori e tassi soglia è disciplinato da un quadro normativo nutrito: a livello primario, dall’art. 1815 comma 2 c.c. e dall’art. 644 c.p. (il cui dettato stabilisce che “chiunque […] si fa dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità, interessi o altri vantaggi usurari, è punito […]”) e dalla L. 7 marzo 1996, n. 108 (cd. “Legge Usura” – condita dal D.l. 394/2000, che ne fornisce una interpretazione autentica) nonché, a livello di normativa secondaria, dai decreti trimestrali del Mef (al quale è demandato il compito di individuare il limite oltre il quale gli interessi sono considerati sempre usurari) e dalle “Istruzioni per la rilevazione dei tassi effettivi globali medi ai sensi della legge sull’usura”. La legge demanda al Mef, quindi, in un complesso procedimento che coinvolge Banca d’Italia e Ufficio Italiano dei Cambi, la rilevazione del Tegm praticato per categorie di operazioni, il quale diverrà “tasso soglia” una volta applicata la previsione incrementativa dell’art. 2, comma 4, Legge Usura (come modificato dal D.l. 13 maggio 2011, n. 70 – il Tegm rilevato per categoria di operazione viene aumentato di ¼ a cui si sommano 4 punti percentuali, e comunque la differenza tra il tasso rilevato e il limite non deve essere superiore a 8 punti percentuali).

Divergenze interpretative sul punto derivano da due ordini di ragioni: anzitutto, la apparente onnicomprensività della formulazione della Legge Usura la quale impone di tener conto, ai fini della determinazione del tasso di interesse usurario, delle remunerazioni “a qualsiasi titolo”, (e, similmente, l’art. 1, d.l. 394/2000 “si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo”); poi, la assimilabilità funzionale di interessi corrispettivi e moratori, che rientrerebbero entrambi nello stesso insieme in virtù di una unica causa giustificatrice.

In un contesto di tal fatta, gli interpreti più attenti, tra cui, da ultimo, l’Abf (Arbitro Bancario Finanziario) con decisione del Collegio di Coordinamento del 30 Aprile 2014, n. 2666, non avevano mancato di rilevare come l’inciso “a qualsiasi titolo” (o “a qualunque titolo”) non dovesse necessariamente essere ricondotto alla natura degli interessi convenuti tra le parti, “ben potendosi interpretare come inteso a sanzionare qualunque modalità di pattuizione di interessi corrispettivi ultra legem, tale essendo l’oggetto della norma interpretata”. Sembra, cioè, che l’espressione voglia assoggettare alla disciplina sull’usura tutti quegli interessi corrispettivi convenuti tra le parti in qualsiasi modo e non estenderne l’ambito oggettivo di applicazione anche agli interessi moratori.

Di più: chi in dottrina riconduce interessi di mora e corrispettivi nel medesimo insieme sul presupposto di una stessa causa giustificatrice, vale a dire la remunerazione dello spostamento di una somma di denaro da una sfera giuridica all’altra, in realtà non coglie nel segno: e infatti, “a seguito della mora la prestazione degli interessi assume il carattere di compenso per il ritardo, e non per l’uso legittimo del denaro, come nell’essenza della corrispettività” (Relaz. al c.c.). La corrispettività degli interessi è radicata nella naturale fecondità del denaro; l’interesse è corrispettivo perché è il corrispettivo per il godimento di una somma altrui, perché è la remunerazione del capitale concesso in credito. Gli interessi moratori sono altra cosa: non attengono al fisiologico svolgimento del rapporto contrattuale, ma alla patologia di esso. La funzione svolta dagli interessi moratori, enucleata sulla base dell’art. 1224 c.c., sembra essere quella di risarcire – anticipatamente e forfetariamente – il danno subito dal creditore per l’adempimento tardivo dell’obbligazione pecuniaria, vale a dire il pregiudizio cagionato dall’inadempimento; siamo fuori, quindi, dalla sinallagmaticità del vincolo obbligatorio, dalla corrispettività. Tra l’altro, essi sono oneri solo eventuali e non possono assumere rilevanza sempre e comunque.

Alle stesse conclusioni porta la lettera della norma che, riferendosi al “corrispettivo” di una prestazione in denaro, (art. 644, comma 1, c.p. – che abbraccia la stessa nozione di usurarietà fatta propria dal codice civile) e alle “remunerazioni” a qualsiasi titolo (art. 2, comma 1, Legge Usura), dà risalto al nesso di corrispettività tra la prestazioni del debitore e del creditore; risulta, quindi, davvero difficile riuscire a ricomprendere gli interessi moratori nell’ambito di applicazione della normativa in materia di usura.

Di tale differenza ontologica e funzionale, la Banca d’Italia ha preso atto sin dalla prima versione delle Istruzioni (Sez. I, C4, lett. d)), di talché essa ha costantemente escluso e continua a escludere gli interessi di mora dal calcolo del Tegm, come d’altronde si è premurato di precisare anche il Mef in tutti i decreti ministeriali dal 2003 ad oggi. Non solo. A fini conoscitivi, Banca d’Italia e Ufficio Italiano Cambi hanno svolto una indagine statistica (nel 2002), la quale ha rilevato che “la maggiorazione stabilita contrattualmente per i casi di ritardato pagamento è mediamente pari a 2,1 punti percentuali”, riportata tra l’altro dai vari decreti trimestrali. Come a dire: se dovessimo ricomprendere gli interessi moratori nel calcolo del tasso soglia, esso sarebbe sicuramente maggiore di quello rilevato attraverso il meccanismo tradizionale. Di quanto? Verosimilmente, di quei 2,1 punti percentuali (rivalutati, perché appaiono – bisogna dirlo – sottostimati, oltre che essere figli di una indagine di mero campione) più la solita previsione incrementativa; ma siamo nell’universo delle congetture. Vero è, d’altra parte, che la rilevazione trimestrale degli interessi (anche) moratori, sarebbe soluzione pratica efficace per calmare le acque.

Quindi, se pur si argomentasse per una sostanziale unitarietà (di natura e di funzione) delle due tipologie di interesse e per la conseguente negazione di una rigida categorizzazione degli stessi, mi sembra che il porto da cui salpare debba comunque essere un altro: ed esso non può che individuarsi nel solo elemento realmente centrale nella questione, cioè il parametro per misurare la eventuale usurarietà dell’interesse calcolato attraverso il procedimento di cui supra. E’ fondamentale tener conto di quali componenti si incastonano a formare l’insieme “tasso soglia”, risultando altrimenti difficile una comparazione omogenea tra gli oneri complessivamente addebitati al cliente e le singole voci che concorrono a formarlo. Infatti, al fine di assicurare una sostanziale tutela nel settore creditizio è necessario includere nella base di calcolo dei Tegm vari oneri connessi all’erogazione del credito: non interessa, però, in questa sede, individuare i singoli oneri che concorrono al calcolo dei tassi, ma solo se gli interessi di mora siano ricompresi tra essi o meno. E la risposta è negativa; non vengono rilevati nel procedimento che identifica i tassi e non sono compresi tra le voci che ne costruiscono il dato finale.

Se così è, si rivela privo di senso (non giuridico, beninteso, ma, ancora prima, matematico) assoggettare alla disciplina sanzionatoria prevista per l’usura anche gli interessi moratori. Il mancato computo di questi ultimi nelle rilevazioni trimestrali impedisce alla radice l’operare della logica alla base del meccanismo introdotto dalla Legge Usura, la quale richiede che i Tegm si applichino alla stessa categoria di interessi nell’ambito della quale sono stati rilevati, altrimenti il dato da parametrare manca di simmetria con il parametro. Di qui, la poca utilità di fiumi di inchiostro scorsi sulla diversità di natura e di funzione tra interessi corrispettivi e moratori, come di argomenti esegetici tratti dall’ambigua espressione “a qualsiasi titolo” fatta propria dalla disciplina primaria.

Come si è correttamente premurato di precisare l’Abf al termine di un percorso logico difficilmente criticabile, “rileva solo se una certa voce di costo del credito è effettivamente presa in considerazione nelle rilevazioni che vengono condotte nel corso del procedimento di identificazione dei tassi soglia”, e non labirinti interpretativi che fanno leva su elementi testuali e solo portano ad affaticare la mente degli interpreti. D’altronde, se gli interessi di mora costituissero una voce di cui tener conto nel calcolo del Tegm, il tasso soglia rilevato sarebbe più alto di quello che effettivamente è, con conseguente maggiore difficoltà di invocare la tutela che l’ordinamento appronta per l’usura: una diversa lettura conduce ad una situazione nella quale lo scarto tra il tasso soglia rilevato senza tener conto degli interessi moratori e il tasso soglia (ipotetico) che invece ricomprendesse questi ultimi, è sopportato dal creditore, non si capisce bene per quale ragione.

Se gli interessi di mora sfuggono alla disciplina di contrasto dell’usura, ciò non significa che sia ammissibile la “manifesta eccessività” di essi. In tali casi, soccorrerà il rimedio di cui all’art. 1384 c.c., fermo restando che i consumatori potrebbero sempre far valere la nullità di protezione ex art. 33, comma 2, lett. f) del Codice del consumo.

Non si sta qui mettendo in discussione se sia giusto o meno che la Banca d’Italia sposi una posizione (che ha ribadito anche, recentemente, attraverso i “Chiarimenti in materia di applicazione della legge antiusura” del luglio 2013) diversa da quella della Cassazione; è, questo, un problema – come lo ha definito autorevole dottrina – “istituzionale”, che esula dalla presente trattazione. Semplicemente, si prende atto che i dati sui quali fare affidamento oggi, sic stantibus rebus, sono quelli testé indicati, e ci si deve muovere su quelli, non sulla presupposizione che ve ne dovrebbero essere altri.

Al di là di interpretazioni in un senso o nell’altro, a chi scrive preme solo mettere in evidenza come, in realtà, contrariamente all’intento della Cassazione che sembra aver preso posizione più a fini paternalistici che squisitamente logico-giuridici, il conto alla fine ricada sui “tutelati”. Perché, lungi dal costituire un punto fermo sulla questione, come sarebbe legittimo aspettarsi da una sentenza della Suprema Corte, la pronuncia non fa altro che alimentare la proliferazione del dubbio nonché quel processo di costante perdita di autorevolezza dell’organo. Lo stesso Abf, nascosto tra le maglie della trattazione, ha inserito un inciso di speranza: “diviene nettamente più prudente attendere ulteriori indicazioni da parte della Corte regolatrice”, stante la mancata esauriente spiegazione del problema. Attendiamo fiduciosi.