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UniCredit e Intesa Sanpaolo: la pulizia di bilancio non basta

La borsa ha apprezzato la forte svalutazione dei crediti. Ma la rete distributiva è da ridimensionare, senza poter cedere sportelli per assenza di compratori. Con ricadute significative su personale e immobili. Poi ci sono i titoli illiquidi, finiti sotto la lente della Bce. Per le due maggiori banche italiane gli esami non sono ancora finiti.

Silvano Carletti
Carletti

UniCredit e Intesa Sanpaolo rappresentano in termini di attivo circa un terzo del nostro sistema bancario. La presentazione dei loro consuntivi fornisce quindi l’occasione per una valutazione del circuito bancario italiano. Entrambi i gruppi hanno chiuso il 2013 con una perdita netta molto consistente (€ 14 mld e € 4,5 mld, rispettivamente). Malgrado il segno fortemente negativo, la Borsa ha accolto questi risultati in modo favorevole rafforzando ulteriormente la valutazione dei loro titoli (+70-75% da inizio 2013, quasi tre volte l’incremento del Ftse Mib nello stesso periodo).

Le analisi dei commentatori si sono finora concentrate sui principali parametri patrimoniali e gestionali, oltre che ovviamente sui fattori che hanno originato la perdita (incremento della coperture per crediti deteriorati, svalutazione degli avviamenti). Qui si intende concentrare l’attenzione su altri due aspetti, decisamente non secondari.

Il primo è quello della rete distributiva in Italia che alla fine dello scorso anno consisteva di 4.171 unità nel caso di UniCredit e di 4.766 unità in quello di Intesa Sanpaolo. Reti distributive così dense sono assai rare in Europa (la Caixa spagnola è una delle poche eccezioni). Se nel 1999 la dotazione di sportelli nel nostro Paese era sostanzialmente in linea con la media europea, successivamente in Italia si è perseguita una politica di nuove aperture mentre in Europa ci si è mossi in direzione opposta. Senza considerare gli oltre 13mila sportelli di Bancoposta, la rete bancaria italiana è cresciuta fino a un massimo di quasi 34.200 unità all’inizio del 2009, per poi lentamente ridursi (appena al di sotto di 32mila a fine settembre 2013, ultimo disponibile). UniCredit e Intesa Sanpaolo hanno affrontato il problema prima della generalità dei concorrenti nazionali: mentre il resto del sistema ha continuato fino alla prima parte del 2012 ad aumentare i suoi presidi, i due gruppi hanno cominciato a ridurre le agenzie molto prima (rispetto alla fine del 2007, la loro dotazione è oggi inferiore di 900 e 1.700 unità, rispettivamente), sportelli peraltro con minore personale. La realtà procede però più velocemente: se nel 2008 ogni 100 operazioni 62 venivano perfezionate allo sportello e il resto attraverso i canali diretti, attualmente le prime sono scese a 21 e le seconde salite a 79.

Le famose sinergie di struttura promesse dai processi di fusione e aggregazione di cui UniCredit e Intesa Sanpaolo sono stati protagonisti in una prima fase non sono state ricercate con il necessario impegno e hanno cominciato a realizzarsi solo successivamente. La rete distributiva rappresenta la parte predominante dei costi fissi di qualunque banca commerciale. Ridisegnarla è compito molto impegnativo ma al tempo stesso il passaggio obbligato per aumentare la redditività e costruire un vantaggio competitivo.

Nel piano strategico appena presentato Intesa Sanpaolo prospetta la chiusura di 800 agenzie entro il 2017; da parte sua, UniCredit ha in corso un programma di riduzione di oltre 5.700 dipendenti, in ampia misura impiegati nella rete distributiva. Ridisegnare il modello di servizio retail e realizzare il ridimensionamento della rete è operazione molto impegnativa perché, diversamente dal recente passato, oggi non può essere realizzata attraverso la cessione di sportelli ad altre banche. E chiudere uno sportello ha ricadute (personale e spesso immobili) che richiedono tempo e energie per essere gestite.

Un secondo aspetto sul quale è opportuno richiamare l’attenzione è quello delle cosiddette attività di livello 3, vale a dire il portafoglio di titoli illiquidi, privi di un qualunque mercato e considerati in bilancio a prezzi calcolati con modelli matematici. Si tratta prevalentemente di titoli strutturati, eredità diretta della bolla finanziaria all’origine della crisi scoppiata nel 2008-09. Secondo il monitoraggio periodicamente condotto da Mediobanca alla fine di giugno 2013 i venti principali gruppi bancari europei ne detenevano per circa € 218 mld. Per tre di questi gruppi (Deutsche Bank e i due maggiori gruppi svizzeri) il loro ammontare era pari a oltre metà del patrimonio netto tangibile. UniCredit e Intesa Sanpaolo ne detengono in misura contenuta ma comunque significativa (rispettivamente, per € 8,2 mld e € 4 mld, corrispondenti all’11,5% e al 16,5% del patrimonio netto). Per aggiornare a fine 2013 questi valori bisognerà aspettare la pubblicazione della relazione di bilancio.

Se da un lato i due gruppi italiani non sono su questo fronte tra quelli più esposti, essi sono però tra quelli che in questi anni hanno ridotto con meno intensità la consistenza di questa posta. L’Asset Quality Review avviata dalla Bce riporta questa componente dell’attivo sotto i riflettori. La riconsiderazione di questi titoli è assai probabile porti a un taglio considerevole del loro valore contabile. Trattandosi di miliardi, una svalutazione potrebbe appesantire non poco il risultato contabile dell’anno in corso.