Finora la tecnica del Direct Listing era limitata ad operazioni di vendita di azioni già esistenti. La SEC ha rimosso questo vincolo. Sul NYSE è ora possibile essere ammessi a quotazione con operazioni miste sia di vendita che di sottoscrizione, senza l’ausilio di intermediari finanziari. Borsa Italiana consente da tempo di collocare direttamente strumenti finanziari, possibilità mai stata utilizzata per azioni. Ora sembra che un percorso di “autocollocamento” alternativo all’ IPO tradizionale sia sperimentabile anche nel nostro Paese.
Mercoledì 26 agosto la Securities and Exchange Commission (“SEC”) degli Stati Uniti ha approvato delle modifiche al regolamento del New York Stock Exchange (“NYSE”) che ampliano e rendono particolarmente agevole il Direct Listing.
Con tale denominazione si indica un processo di accesso al mercato azionario diverso dalla tradizionale IPO, e consistente in un avvio delle negoziazioni direttamente sulla piattaforma di trading dello stock exchange ad un prezzo delle azioni determinato dalla interazione tra ordini in acquisto ed ordini di vendita.
La tecnica è già stata utilizzata in passato da aziende tecnologiche con un vasto numero di azionisti derivanti dalla crescita tramite round di raccolta equity sui mercati privati (i casi più noti sono quelli di Spotify AB e Slack Inc) e potrebbe essere utilizzata da alcune imminenti operazioni, quali Palantir Technologies Inc o Airbnb Inc.
Fino ad ora, tuttavia, la tecnica del Direct Listing era limitata ad operazioni in cui la società ammessa a quotazione non vendeva proprie azioni di nuova emissione: gli ordini di vendita erano immessi esclusivamente da azionisti già esistenti.
La rilevante decisione della SEC ha, sotto alcune condizioni, rimosso tale vincolo e, sul NYSE è quindi ora possibile essere ammessi a quotazione con operazioni miste sia di vendita che di sottoscrizione senza l’ausilio di intermediari finanziari che agiscono come underwriter.
Merita quindi approfondire la natura del Direct Listing, comprendendone da un lato le caratteristiche soprattutto in merito alla funzione di price discovery comparativamente ad altre tecniche utilizzate, ma anche verificare se un tale approccio possa essere adottato nel contesto regolamentare italiano e con quali limiti.
A tal fine può essere utile ricostruire brevemente i caratteri delle tecniche di accesso al mercato azionario finora utilizzate.
L’ offerta a prezzo fisso: un ricordo “storico”
Il collocamento a prezzo fisso in IPO è una prassi ormai in disuso. Ci rammenta il funzionamento della Borsa italiana al tempo degli agenti di cambio, il cui comitato direttivo redigeva il “certificato peritale” attestante il “valore venale” dei titoli, sulla base del quale veniva determinato il prezzo di offerta.
La sottoscrizione di un accordo di collocamento e garanzia con intermediari finanziari prima dell’effettiva vendita dei titoli lasciava al consorzio e alle banche che vi aderivano il rischio non solo di uno scarso gradimento dell’offerta al prezzo stabilito, ma anche di repentini mutamenti nelle condizioni di mercato nel periodo dell’offerta. Una simile garanzia era particolarmente onerosa (potremmo dire “hard”), simile a quella oggi rilasciata in occasione degli aumenti di capitale: gli intermediari garantivano prima di aver raccolto gli ordini di acquisto.
La price discovery nella “tradizionale” IPO
Nella IPO tradizionale il prezzo finale di collocamento deriva da un processo articolato che vede inizialmente le banche d’affari incaricate di effettuare valutazioni teoriche in base all’equity story e al posizionamento della società quotanda che intendono proporre rispetto a comparables già quotati. In queste fasi il metodo di valutazione privilegiato è quello dei multipli, in quanto semplice ed eminentemente “comparativo”.
In seguito, i collocatori effettuano i primi sondaggi con potenziali investitori (una fase spesso detta di “pilot fishing”) e in base al feed back di questo ristretto gruppo decidono il range di offerta, la cosidetta “forchetta” di prezzo.
Nel periodo di offerta vero e proprio vengono quindi raccolti gli ordini degli investitori retail (che aderiscono conoscendo il prezzo massimo, ma non partecipano al processo di pricing) e istituzionali. Questi ultimi possono invece esprimere ordini in funzione del prezzo (di fatto, rivelando una loro curva di domanda), così che gli intermediari costruiscono una curva di domanda aggregata e, sulla base di quest’ultima decidono (in genere “d’intesa” con la società ed i suoi azionisti) il prezzo finale.
Il processo descritto va sotto il nome di bookbuilding, in quanto consiste nella costruzione di un “libro degli ordini” che ha alcuni tratti in comune con il book del mercato secondario telematico.
È da notare che il book di raccolta degli ordini dovrebbe essere riservato (anche se è frequente che vengano fatte filtrare informazioni sullo stesso, sia in merito all’ammontare delle adesioni che agli investitori sottoscrittori) e che l’allocazione finale dei titoli (“allotment”) è sostanzialmente discrezionale, così che le banche incaricate dell’operazione possono consegnare le azioni all’investitore preferito.
Si noti bene: anche non consegnarle, ovvero promettere che un ordine venga allocato per un ammontare molto inferiore, così da “gonfiare” la domanda (che viene in genere comunicata al pubblico prima dell’avvio del mercato secondario) e fare in modo che essa non sia rappresentativa del vero “appetito” per quel titolo.
La tradizionale IPO ha poi un meccanismo di elasticità sulla quantità offerta, dato dalla cosiddetta opzione di sovrallocazione e dalla connessa attività di stabilizzazione dei corsi nei primi trenta giorni di mercato secondario. La “overallotment option” vale in genere il 15 % dell’offerta.
Più in dettaglio, nella prassi italiana delle IPO, non vi è un limite inferiore esplicito alla quantità offerta (posto che, comunque, un flottante minimo del 25% del capitale è richiesto dal regolamento di Borsa Italiana per l’ammissione alle negoziazioni), così che riduzioni dell’offerta, anche sostanziali, possono occorrere senza che gli investitori abbiano la facoltà di “ritirare” la propria adesione.
Analogamente travasi dalle azioni destinate agli investitori retail a quelli istituzionali e viceversa (c.d. “clawback”) sono consentiti senza limiti, così che la significatività del processo di price discovery del bookbuilding può essere alterata lasciando ad un piccolo gruppo di istituzionali price setter l’onere di partecipare alla costruzione del prezzo finale.
In questo processo la garanzia prestata dai membri dei consorzi di collocamento è “soft”: essi non garantiscono l’effettiva sottoscrizione dei titoli, ma solo l’esatto adempimento di ordini già ricevuti. Non a caso la firma dell’accordi di underwriting avviene a monte del periodo di adesione all’offerta.
L’open price bookbuilding è comunque una tecnica di price discovery per l’IPO apprezzata dagli intermediari finanziari (chiaramente anche perché la partecipazione ai consorzi di collocamento fornisce rilevanti commissioni) e dai regolatori, disponibili persino a una deroga ai divieti di market manipulation (quale è la stabilizzazione) ritenendola funzionale all’efficiente raccolta di capitale, obiettivo di interesse “sociale”.
Più controverso è il giudizio del mondo accademico, che da tempo si interroga su tecniche alternative, e degli emittenti che frequentemente criticano le banche d’affari per l’eccessiva (soprattutto sul mercato USA) performance delle azioni neo-quotate dopo il collocamento. Performance che, chiaramente, corrisponde ad un minor prezzo riconosciuto agli emittenti ed ai loro soci, ovvero alla cosiddetta money left on the table dell’IPO discount.
Forme alternative di collocamento: l’asta
In più mercati ed in tempi diversi alcuni emittenti hanno scelto la modalità ad asta per stabilire il prezzo della loro IPO. Tale modalità è stata particolarmente promossa negli USA dalla banca d’affari W.R. Hambrecht + Co., la quale, fra l’altro, è stata coinvolta nel 2004 nel più famoso di questi collocamenti, quello di Google Inc.
L’idea sottostante a questa alternativa è che la price discovery fornita dall’asta rispetto a quella di un bookbuilding dovrebbe essere migliore, più “fair”, riducendo l’IPO discount, ovvero la “money left on the table” che, come detto, le banche d’affari tenderebbero a “far pagare” alle società quotande ed ai loro soci.
L’asta utilizzata è in genere del tipo “sealed bid uniform-price”: i partecipanti, dopo essere stati ammessi all’asta, esprimono la loro offerta (“bid”) in termini di prezzo e quantità domandata senza conoscere il comportamento degli altri offerenti e senza indicazioni sull’andamento complessivo del processo.
Al termine delle offerte il banditore, dopo averle ordinate in funzione del prezzo offerto, individua il prezzo a cui la quantità domandata è tale da coprire l’offerta e a tale valore (“market clearing price”) assegna le azioni, procedendo ad un eventuale pro-rata sulle offerte più basse accettate (“stop-out price”) o, alternativamente, su tutte.
Il meccanismo d’asta descritto è tale che ogni offerente, prima di partecipare, ha incertezza sia sull’accettazione della sua offerta che sul prezzo finale. Tuttavia, il comportamento razionale dell’investitore è quello di indicare con il proprio “bid” la propria valutazione dell’azienda e l’esatta quantità desiderata, in quanto se il bid verrà accettato l’allocazione sarà (pressoché) totale.
La tecnica può essere poi affinata in più modi. Per esempio: la società può porre un livello minimo di prezzo esplicito (“reservation price”), può limitare la quantità massima di ciascuna offerta, può indicare un range di valori (vincolante o meno) per le offerte, può riservarsi la facoltà di stabilire un prezzo più basso di quello di market clearing.
Rispetto al bookbuilding si può notare che: (i) anche investitori retail possono partecipare al processo di price discovery, (ii) le allocazioni non hanno elementi di discrezionalità gestiti dalle banche d’affari e (iii) il meccanismo di determinazione del prezzo è noto e trasparente con una chiara indicazione della quantità domandata al market clearing price.
Per quanto riguarda la società quotanda ed i suoi soci invece: (i) come già detto l’IPO discount dovrebbe essere minore, (ii) dovrebbe esserci minor rischio di assegnare azioni a investitori che le rivendono subito (“flip”), (ii) vi sono minori costi di underwriting nei confronti degli intermediari finanziari.
In verità rispetto a quest’ultimo punto bisogna comprendere con più precisione quale è l’esatto ruolo delle banche d’affari in operazioni di questo tipo. Da un lato è possibile che esse svolgano un ruolo di advisory all’emittente, ma è altresì ragionevole che collaborino comunque al marketing dell’operazione e forniscano un soft underwriting.
Infine, è da segnalare che l’asta, pur necessitando di infrastruttura informatica, non avviene sulla piattaforma della società di gestione del mercato.
Il Direct Listing
Come anticipato, prima della recente modifica del NYSE Listed Company Manual (“LCM”) in discussione, il Direct Listing prevedeva solo la forma del Selling Shareholders Direct Floor Listing, ovvero le contrattazioni si avviavano con ordini in vendita da parte di azionisti esistenti. Negli “unicorni” tipicamente i fondi di venture capital o dipendenti e management della società.
L’operazione era quindi sostanzialmente coincidente con l’ammissione a quotazione senza offerta (“introduction”), ben conosciuta in molte giurisdizioni e frequente nel caso di società con un azionariato già diffuso o risultanti dalla scissione (“spin off”) di società già quotate.
In tutti questi casi vi è un problema di price discovery, ovvero di dare avvio alle negoziazioni sulla base di informazioni adeguate e con un equilibrio tra domanda ed offerta. I regolamenti delle borse si preoccupano infatti che in queste situazioni vi sia un flottante sufficiente e meccanismi d’asta che aiutino un mercato ordinato. In termini informativi è poi sempre presente un documento di ammissione.
Non può sfuggire tuttavia che in questa situazione non è nota ex ante una quantità di titoli offerta e, quindi, è particolarmente critico il funzionamento dell’asta di apertura, per la quale il NYSE richiede la presenza di un Designated Market Maker, ma esclude la comunicazione dello squilibrio tra domanda e offerta, affidando quindi un compito decisivo proprio al market maker. La Direct Listing Auction è infatti manuale.
La possibilità ora che in questa fase di apertura del mercato possa partecipare anche la società quotanda offrendo proprie azioni di nuova emissione complica lo scenario.
Innanzitutto, le azioni offerte dall’ “issuer” rappresentano risorse raccolte, prospetticamente finalizzate a investimenti e, quindi, il NYSE prevede che l’ammontare di azioni offerte debba essere comunicato, l’ordine relativo (“Issuer Direct Order”) non possa essere modificato ed il prezzo debba essere all’interno della forchetta riportata nel Prospetto. Qualora non ci sia domanda sufficente a coprire l’ordine di vendita dell’emittente il Direct Listing non potrà concludersi.
Tralasciando ulteriori tecnicalità previste dal NYSE LCM, quello che qui più interessa è osservare come la partecipazione della società quotanda al processo consente a quest’ultima di raccogliere fondi senza pagare commissioni a intermediari, ponendola nella posizione (teorica) di gestire in totale autonomia il marketing del proprio collocameno e godere di un meccanismo di pricing simile all’asta di cui si è discusso in precedenza.
Diverse sono state le critiche alla decisione della SEC di autorizzare il NYSE a questa modifica. In particolare, alcuni commentatori hanno messo in evidenza che l’assenza di underwriters farebbe venir meno l’attività di scrutinio (“due diligence”) che essi svolgono sulla qualità della società quotanda, così come la possibilità per gli investitori di rivalersi sugli stessi in caso di contenziosi attinenti a errate od omesse informazioni. La Section 11 del Securities Act USA impone infatti un’ampia responsabilità (“liability”) sui soggetti coinvolti a vario titolo in una securities offer: issuer, directors, accountants and other esperts, underwrites.
Una via italiana al Direct Listing ?
Borsa Italiana S.p.A. ha da tempo consentito ad un emittente di collocare direttamente, tramite la propria piattaforma di supporto alle negoziazioni, strumenti finanziari: la disciplina di tale processo, che va sotto il nome di “distribuzione” è contenuta nel Regolamento dei Mercati.
L’opportunità è stata ampiamente utilizzata da banche e, in misura minore da alcuni emittenti corporate, per distribuire proprie obbligazioni. Non è mai stata utilizzata per azioni.
Nel caso della distribuzione di strumenti finanziari è interessante ricordare che, data la natura dell’operazione, non è presente un “responsabile del collocamento”, figura che, ai sensi dell’Art. 94 del Testo Unico della Finanza (“TUIF”) è gravato da una presunzione di responsabilità in merito al contenuto del Prospetto. Ciò riporta ad una delle critiche al Direct Listing USA: l’assenza di un “gatekeeper” che, oltre ad effettuare adeguata due diligence, possa rappresentare un “deep pocket” (quale tipicamente è una banca d’affari solidamente patrimonializzata) in caso di contenzioso.
Va da sé che in un’operazione di distribuzione le commissioni usualmente riconosciute dall’emittente agli intermediari nelle tradizionali operazioni di collocamento sono in parte sostituiti da costi di marketing e pubblicitari per generare una “domanda spontanea”, soprattutto, ma non solo, da parte del pubblico retail, che data ormai l’amplissima diffusione del trading on line può avere immediato accesso ai titoli offerti.
Gli ordini di acquisto vengono raccolti sulla piattaforma di negoziazione di Borsa Italiana e, pertanto, non è necessaria la costituzione di un consorzio di collocamento: la tecnica descritta tramuta una operazione di mercato secondario (l’ordine sulla piattaforma di negoziazione) in una operazione di mercato primario (la sottoscrizione di strumenti finanziari di nuova emissione).
È tuttavia certo che il costo complessivo per la raccolta di capitali è inferiore rispetto al “normale” collocamento.
Ci si può chiedere perché finora nessun emittente abbia tentato la via della distribuzione di azioni. In proposito si potrebbe osservare che nell’ equity l’asimmetria informativa tra emittente e investitori è “maggiore” e “più complessa” che non nel debito, dove peraltro le emissioni godono spesso di un rating esterno, che rappresenta comunque un’assunzione di responsabilità da parte di un gatekeeper.
A tale osservazione si può però contestare che il Regolamento di Borsa comunque prevede una figura (lo sponsor) che, indipendentemente dalla presenza di un collocamento, assume su di sé l’onere di “certificare” (in primo luogo nei confronti della stessa società di gestione del mercato) la qualità dell’emittente. Sotto altro profilo si può anche notare che circa la responsabilità da prospetto, ancorché non avvenga di frequente, essa può essere coperta con contratti assicurativi.
Nel Regolamento di Borsa la “distribuzione” non prevede lo svolgimento di un’asta di apertura con una conseguente determinazione di un prezzo secondo le regole d’asta del mercato, ma nulla sembrerebbe impedire tale scelta (molto vicina al Direct Listing del NYSE) tenuto anche conto dell’ampia libertà organizzativa che la Borsa si è riservata sulla procedura di distribuzione.
Conclusione
Sembrerebbe quindi che, con adeguate cautele e opportune verifiche, un percorso di “autocollocamento” alternativo all’ IPO tradizionale sia sperimentabile anche nel nostro Paese. Resta il fatto che si tratta di un percorso più adatto ad imprese di grandi dimensioni, con un forte brand e una struttura proprietaria già adeguatamente diffusa: tutte caratteristiche difficili da rintracciare nelle IPO domestiche, recentemente concentrate soprattutto su operazioni di piccole dimensioni sul mercato AIM Italia.
D’altronde, fino ad ora, è innegabile che il Direct Listing è stato uno strumento per fornire liquidità a società che si erano abbondantemente finanziate sui mercati “privati” e che quindi giungevano a quello “pubblico” di borsa con una età più avanzata e con nessuna necessità di fundraising. Tra le tante conseguenze che comporta un simile percorso, vi è anche quella di escludere una larga fetta di investitori retail dalla opportunità di investire in queste imprese in un momento in cui l’upside è ancora notevole perché le prospettive di sviluppo sono ampie: l’accesso a fondi di private equity o simili è, come noto, ristretto per qualità dell’investitore e dimensione dell’investimento.
Significativo è, a questo proposito, il commento di Goldman Sachs, forse la più prestigiosa banca d’affari, che, nel sostenere la modifica richiesta dal NYSE scriveva alla SEC: “We believe that allowing for multiple pathways for private companies to achieve an exchange listing will enable and encourage more companies to participate in public equity markets in the United States, providing public investors a broader array of attractive investment opportunities”.