Tra progetti di aggregazione naufragati, offerte d'acquisto con la dote, proposte e marce indietro, la sorte di Carige è ancora al palo. Eppure la soluzione ci sarebbe...
La sposo, ma solo con la dote. I grandi salvataggi bancari degli anni passati (dalla banca Etruria alle banche venete), realizzati trasferendo asset a prezzo vile pur di evitare il peggio con il crac, hanno lasciato nel mondo nel credito uno stigma: l’idea di poter fare un affare facendo pagare ad altri le spese.
Ha assunto questa piega la trattativa condotta con il Tesoro dal neo-amministratore delegato di Unicredit, Andrea Orcel, per Mps. Sembra avere gli stessi connotati la faccenda di Carige, la cassa di risparmio di Genova, da tempo in cerca di un partner. Ma chi si è fatto avanti pretende di portare a casa, oltre alla banca, anche il bottino.
A fare un’offerta per Carige è stata la BPER, banca popolare dell’Emilia-Romagna che ha Unipol come principale azionista, e non è la prima volta. Si era fatta avanti già durante la fase di amministrazione straordinaria di Innocenzi, Modiano e Lener, come pure hanno soppesato l’idea di una integrazione i due big Intesa e Unicredit. Ma pur essendo stata ripulita dai crediti deteriorati, alleggerita di alcuni asset e parte dei dipendenti, la fine dell’amministrazione straordinaria ha affidato Carige a una soluzione che si è rivelata fragile.
Lo sposo promesso, la trentina Cassa Centrale Banca, che aveva acquisito l’8,3 per cento del capitale della cassa ligure con l’opzione di rilevarne successivamente il pacchetto di controllo dal Fondo interbancario, si è tirato fuori nella scorsa primavera. Motivo? Quello ufficiale dei vertici della CCB ha tirato in ballo “l’aleatorietà degli impatti della pandemia sul mercato e della sua imprevedibile evoluzione” e la “neutralizzazione di ogni possibile ulteriore fattore di rischio per il nostro gruppo”. Dietro, c’è il fallimento del progetto caldeggiato dalla banca di Trento di diventare un polo di aggregazione per una parte della galassia delle banche cooperative in alternativa a quello rappresentato dall’Iccrea. Un polo più piccolo ma più ricco, e in cui il network ligure sarebbe stato a pennello.
Tutto naufragato, invece. Ma non tanto per la pandemia, quanto per la forte reazione dell’Iccrea. E per la sua moral suasion esercitata sulle banche cooperative quanto all’inopportunità di un matrimonio “eterologo” con una banca commerciale come Carige. Alla fine, insomma, CCB si è ritrovata con il cerino in mano di quell’8,3 per cento di partecipazione e un inevitabile cambio di strategia.
Ecco quindi riapparire BPER all’orizzonte. Con un’offerta prendere o lasciare rivolta all’indirizzo del Fondo interbancario, che a questo punto ha la castagna bollente in mano, cioè l’80 per cento di Carige: voi ricapitalizzate per un miliardo di euro la banca, e noi prendiamo il pacchetto per un euro. Naturalmente, trattativa esclusiva.
Richiesta respinta al mittente per l’enormità? Sì e no. Perché il Fondo, pur rigettando l’offerta, non ha voltato le spalle a BPER, ma ha argomentato, chiaro indizio che la strada di una trattativa resta aperta. Ha detto, per esempio, che il suo limite per una capitalizzazione è di 600 mila euro. E che comunque no, la trattativa non può essere esclusiva.
Così il risiko bancario si è riaperto, altri protagonisti, silenti finora, si sono riaffacciati alla finestra, annusando l’aria e le nuove opportunità prospettate dall’affare: si parla di Credit Agricole. Carige è ben radicata nel territorio, si è liberata della spada di Damocle della causa intentata dall’ex primo socio della banca Vittorio Malacalza, che chiedeva 480 milioni di danni, ha in pancia due banche molto attive nel private banking come la banca del Monte di Lucca e la Banca Cesare Ponti. Ma l’attesa può davvero trasformarla in “un morto che cammina”, come l’ha definita Alessandro Penati. Quindi il fattore tempo è fondamentale. Lo è anche per il Fondo interbancario, che non può detenere troppo a lungo quella partecipazione.
Viceversa per BPER conquistare la banca ligure vorrebbe dire arrivare a 5 milioni di clienti (più 20 per cento) e salire al quarto posto in Italia quanto ad attivi (oltre 150 miliardi).
Quale potrebbe essere il modo per oliare una soluzione? Certo non l’utilizzo delle DTA (Deferred tax asset), perché quegli incentivi fiscali alle fusioni bancarie finiscono il 31 dicembre e sembra improbabile che vengano prorogati. Né si può pensare a un intervento pubblico: Carige non è né una banca pubblica né tantomeno una banca in crisi, quindi un intervento a carico delle casse dell’erario sarebbe ingiustificato.
Si tratta quindi di trovare un’architettura contrattuale che faccia tutti contenti. Per esempio? Piace sempre di più l’idea che il passaggio di proprietà del pacchetto Carige avvenga senza passaggio contestuale di danaro. Ma non per questo gratuitamente. Le banche del Fondo potrebbero offrire all’acquirente la loro garanzia sulle perdite. Una garanzia che scatterebbe solo se queste perdite portate con sé da Carige – ma sempre negate da chi vende – si dovessero materializzare. La trattativa è aperta e serratissima.