approfondimenti/diritto
L'arbitraggio economico
Un futuro per il "terzo decisore"

Il legislatore ha dato facoltà ai soci delle società di persone e delle srl di rimettere a un terzo una decisione che avrebbe dovuto essere presa dagli amministratori e sulla quale non sono riusciti a decidere. Finora la norma del "terzo decisore" ha avuto scarso successo. Ma potrebbe trovare fortuna tra le startup

Antonio Di Ciommo
Di-Ciommo

Tra le – non molte – norme ancora in vigore del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5, si è recentemente destato interesse per l’art. 37, che regola la “risoluzione di contrasti sulla gestione di società”.

In particolare, la norma stabilisce che “gli atti costitutivi delle società a responsabilità limitata e delle società di persone possono anche contenere clausole con le quali si deferiscono ad uno o più terzi i contrasti tra coloro che hanno il potere di amministrazione in ordine alle decisioni da adottare nella gestione della società”.

In sostanza, la norma autorizza i soci a predisporre un meccanismo con il quale dei terzi risolvano i contrasti – meramente gestionali – insorti tra gli amministratori della società. In particolare, i terzi non sono necessariamente terzi alla società, bensì terzi rispetto all’organo di amministrazione. Ciò comporta che il contrasto possa essere rimesso anche a un socio non dotato di poteri di amministrazione.

Il comma 2 dell’art. 37 stabilisce che, se previsto dallo statuto, la determinazione del terzo possa essere impugnata davanti a un “collegio”, ovverosia, davanti a più terzi nominati quali “decisori di secondo grado”.

Il successivo il comma 3 dell’art. 37, poi, espande notevolmente la “cognizione” delle questioni devolute al terzo: se previsto dallo statuto, infatti, il terzo “decisore” (come anche i “decisori di secondo grado”) possono dare “indicazioni vincolanti” anche su questioni – logicamente – collegate a quella che sono direttamente oggetto della decisione da assumere.

Rinviando all’art. 1349, comma 2, c.c., il comma 4 dell’art. 37 stabilisce, infine, che la determinazione del terzo (come quella dei “decisori di secondo grado”) può essere annullata solo se assunta dal terzo con malafede, ovverosia solo se la decisione sia stata assunta dal terzo o dai terzi con il fine o, comunque, la consapevolezza di arrecare danno alla società o a singoli soci.

La limitazione alle sole società di persone e alle società a responsabilità limitata porta a credere che questa norma sia stata evidentemente pensata per società a familiari e, comunque, per imprese dalla dimensione contenute.

Nonostante la considerevole flessibilità dell’art. 37 D.Lgs. 5/2003 e il potenziale contributo all’efficienza aziendale, l’insuccesso di cui ha sinora sofferto l’istituto sembra sia riconducibile sia al (non ragionevolmente) ristretto ambito di applicazione della norma e alla perdurante resistenza delle “famiglie imprenditoriali” ad attenuare il proprio controllo sulla propria impresa.

2. Natura del contrasto, del terzo “decisore” e della sua decisione

Anche se collocato tra le norme dedicate al c.d. “arbitrato societario” (recte, alle clausole compromissorie previste dagli statuti delle società), l’art. 37 D.Lgs. 5/2003 disciplina una fattispecie opposta al procedimento arbitrale.

L’arbitrato è, infatti, un procedimento convenuto contrattualmente dalle parti per rimettere la soluzione di una controversia a persona diversa dal giudice ordinario. In altri termini, l’arbitrato ha ad oggetto (e, perciò, gli arbitri possono conoscere) le medesime controversie che rientrano ex lege nella competenza del giudice civile ordinario.

Al contrario, i contrasti cui si riferisce il primo comma dell’art. 37 non sono tecnicamente delle controversie. Non sono, in altre parole, diritti soggettivi di cui il titolare possa o debba chiedere tutela al giudice ovvero all’arbitro.

I contrasti di cui all’art. 37 sono mere discordie tra amministratori in ordine alle scelte gestionali da assumere nella conduzione dell’impresa sociale: essi, perciò, attengono a quale decisione assumere ovvero ai criteri di valutazione che stanno alla base delle possibili scelte. 

Poiché rientranti nella discrezionalità degli amministratori, siffatte questioni sarebbero sottratte a un sindacato di merito del giudice (e, perciò, anche dell’arbitro). Il perdurare dei contrasti, tuttavia, rischia di portare la società stessa a una situazione di “confusione gestoria” o, nella peggiore delle ipotesi, alla paralisi dei processi produttivi.

Perciò, conscio di questi rischi, il legislatore ha predisposto un meccanismo che possa agevolare la soluzione di siffatti problemi e, perciò, favorire l’efficienza dell’organizzazione produttiva con l’intervento di un – qualsiasi – terzo che, ai sensi dell’art. 37, indichi in modo vincolante agli amministratori la decisione che dovrebbe (recte, avrebbe dovuto) essere adottata da loro.

In altri termini, con l’introduzione dell’art. 37 D.Lgs. 5/2003, il legislatore ha dato facoltà ai soci di rimettere a un terzo la determinazione del contenuto di una decisione che avrebbe dovuto essere assunta dagli amministratori e sulla quale essi non siano riusciti a decidere (recte, a trovare un compromesso). 

Di fatto, il legislatore ha dato facoltà ai soci di “spogliare” eccezionalmente gli amministratori delle competenze gestorie relative alla decisione ancora in discussione.

Sotto questo aspetto, la previsione di cui all’art. 37 sembra possa ricondursi alla comune fattispecie dell’arbitraggio e, perciò, il terzo cui è rimessa la questione potrebbe ricondursi all’arbitratore.

In sostanza, il terzo “decisore” ha la funzione di determinare il contenuto della (o, meglio, di completare una) delibera non ancora assunta e solo discussa dagli amministratori.

In dottrina si suole, tuttavia, affermare che la fattispecie di cui all’art. 37 D.Lgs. 5/2003 non sia riconducibile all’arbitraggio di diritto comune, bensì si afferma che l’introduzione dell’art. 37 avrebbe generato una speciale fattispecie.

Si argomenta, infatti, che l’arbitratore di cui all’art. 1349 c.c. sia un soggetto nominato dalle parti con l’incarico di determinare dell’oggetto del contratto e, dunque, di completare quello stesso negozio che, altrimenti, sarebbe nullo.

Per contro, il terzo cui è demandata la soluzione del contrasto tra gli amministratori non è chiamato a completare un contratto in divenire, bensì egli deve completare (recte, determinare il contenuto di) una decisione normalmente di competenza degli amministratori e, perciò, dovrebbe “completare” un atto che scaturisce da un contratto (ovverosia il contratto di società) già completo e perfetto al momento della sua nomina.

Tuttavia, come l’arbitratore di diritto comune, il terzo “decisore” riceve dai soci un incarico pur sempre diretto a “completare” il contenuto di una volontà riferibile ad altri soggetti.

In altri termini, il terzo nominato dai soci è chiamato pur sempre a completare un processo volitivo soltanto “avviato” dagli amministratori, indicando loro tutti quegli elementi – economici od “operativi” – sui quali gli amministratori non hanno potuto accordarsi o discutere.

Come si è detto, il terzo nominato dai soci non è chiamato a risolvere vere e proprie controversie, ma ad assumere una decisione per gli amministratori sulla gestione della società. Il terzo è chiamato ad assumere una decisione di tipo tecnico-economico e la sua azione è sostanzialmente diretta a evitare che una parte dei processi produttivi sia paralizzata a causa dei contrasti che siano insorti sul punto tra gli amministratori. 

Il terzo “decisore”, dunque, è chiamato dai soci a decidere sulla società in luogo degli amministratori, non dei rapporti che la società intrattiene con terzi contraenti.

In altri termini, un “arbitratore economico” non potrebbe concludere con terzi un contratto per conto della società e in luogo degli amministratori; ciò anche nel caso in cui la negoziazione tra amministratori e un terzo contraente si sia da lungo tempo “incagliata” per un contrasto tra gli amministratori della medesima società.

Il terzo “decisore”, infatti, potrebbe solo dare agli amministratori indicazioni vincolanti circa il contenuto delle negoziazioni da intraprendere con le altre parti (ad esempio, fissare un prezzo minimo o massimo, indicare il tipo di garanzie che gli amministratori possono o non possono prestare per conto della società, etc.). E ciò, comunque, potrebbe farlo solo alla condizione in cui il “blocco” della negoziazione sia causato, almeno in parte, dai contrasti insorti tra gli amministratori.

3. I vantaggi dell’arbitraggio economico: una proposta di riforma

Ben diciotto anni sono passati dall’introduzione dell’art. 37 D.Lgs. 5/2003 e rare sono le società che hanno adottato un simile istituto.

Non si comprende la ragione per la quale il legislatore abbia inteso escludere implicitamente le società “azionarie” dall’ambito di applicazione dell’art. 37 D.Lgs. 5/2003.

Parte dello scarso successo della norma, infatti, potrebbe essere stato causato da un ambito di applicazione irragionevolmente limitato alle c.d. “micro-imprese”, quando l’istituto, invece, ben potrebbe risolvere contrasti sulla “strategia commerciale”, contrasti la cui frequenza è ragionevolmente più elevata in imprese di media dimensione o, comunque, in fase di crescita o espansione.

Certamente, appare quantomai opportuno una riforma che modifichi l’ambito di applicazione della norma, limitandola non più a specifici tipi societari, ma alle dimensioni e alla complessità raggiunta dall’impresa sociale.

Per come concepito, l’arbitraggio economico è un istituto che potrebbe apportare efficienza nell’organizzazione aziendale e contribuire – notevolmente – al contenimento dei costi: come anticipato, la norma consente ai soci di rimettere la soluzione della questione potenzialmente a chiunque, anche a un socio “semplice”.

Peraltro, il mercato e l’industria di oggi sono mutati rispetto al contesto conosciuto dal legislatore del 2003. L’ultimo decennio è stato caratterizzato da una significativa crescita del “private equity” e dal proliferare di start-up innovative. 

In questa prospettiva, i fondatori di start-up e P.M.I. innovative, nelle quali è frequente la presenza di investitori professionali, potrebbero ulteriormente profittare della professionalità di questi ultimi, rimettendo loro la soluzione di contrasti in ordine alle “strategie commerciali” della società.

In altri termini, i fondatori di start-up potrebbero “farsi aiutare” dai professionisti che hanno scommesso sulla loro idea di impresa e farsi indicare la scelta – presumibilmente – più corretta sulla scelta dei mercati di riferimento, sul novero dei prodotti da sviluppare, sulla fissazione del miglior prezzo, sulle campagne pubblicitarie, sulla strategia nella raccolta di capitali sul mercato, etc.