Libri

a cura di Filippo Cucuccio

Tutto quello che nessuno vi ha detto sul debito pubblico

Giorgio Di Giorgio, Alessandro Pandimiglio, Guido Traficante

"NELLE TASCHE DEGLI ITALIANI", Newton Compton Editori, Roma  2024, pagg.220, Euro 12,90

La questione della misura del debito pubblico e della sua sostenibilità non è riconducibile a una mera percentuale del Pil. Solo se teniamo conto delle tendenze capiamo se andiamo incontro a un problema o verso la sua soluzione

Mario Comana

Non è vero che un problema complesso come quello del debito pubblico italiano non possa essere enunciato in termini facilmente comprensibili. Anzi, la soluzione di una questione parte spesso dalla sua corretta rappresentazione. Né la rinuncia al linguaggio specialistico e alla formalizzazione matematica sacrifica necessariamente il rigore e la solidità del ragionamento. Più spesso è proprio il contrario: le espressioni complicate mascherano la pochezza o l’opacità del messaggio. Insomma: chi ha qualcosa da dire lo può fare in modo piano e accessibile a tutti senza bisogno di ammantarsi di paroloni, anglicismi ed espressioni matematiche avanzate. E infatti gli Autori riescono a spiegare compiutamente e senza semplificazioni eccessive l’intricata problematica del debito pubblico.

In effetti, il tema si può ricondurre ad alcuni principi facilmente comprensibili, anche se poi sono possibili infiniti approfondimenti. Il primo principio cardine è che il debito va restituito, e che per farlo occorrono risorse. E come si procura lo Stato quelle risorse? Principalmente attraverso le imposte, a carico dei suoi cittadini. Ecco allora la prima amara evidenza che ci propongono gli Autori: il debito non sostituisce le tasse ma le differisce, con un effetto incrementale dovuto agli interessi. Il debito non è un’alternativa al prelievo o, se lo è, è solo temporanea, provvisoria. È un modo per rinviare i problemi di finanza pubblica, non per risolverli. Anzi, spesso per ingigantirli quando i rinvii sono troppi.

Ma non vorrei dare l’impressione che gli Autori siano contrari al debito, in generale, e al debito pubblico in particolare. Il pregio del libro è proprio di sfuggire alla trappola dello schieramento: il debito fa bene, il debito fa male. Perché da economisti preparati, sanno che il problema non è lo strumento in sé ma la quantità. Non esiste nemmeno il debito buono o il debito cattivo (cosa diversa dalla qualità della spesa), mentre bisogna porre attenzione alla questione del debito sostenibile o non sostenibile.

Anche qui gli Autori, da studiosi seri, si sottraggono al gioco dell’asticella: quando il debito è troppo tanto o troppo poco? Al 60% del PIL? Al 100%? Affrontano il problema in chiave dinamica, prendendo in considerazione le variabili che, congiuntamente, concorrono a definire gli equilibri di finanza pubblica. Ecco il pregio del volume: prendere le distanze da un dibattito che procede per dogmi e affermazioni assolute, impedendo di fatto una dialettica costruttiva, per analizzare serenamente e oggettivamente il tema nelle sue diverse sfaccettature e con la capacità di cogliere tutte le nuance di colore che una tavolozza così articolata propone all’osservatore.

Che si tratti di un problema di grandi dimensioni è documentato nel capitolo sull’evoluzione quantitativa del debito, in valore assoluto e in proporzione al PIL. L’analisi abbraccia l’intera storia d’Italia, offrendo la curiosa informazione del suo valore iniziale (corrispondente a 1,7 milioni di euro odierni) fino all’ultimo dato disponibile che si colloca nell’intorno dei 2600 miliardi di euro: una crescita di 1,6 milioni di volte! All’interno di questo periodo, la traiettoria è stata molto discontinua ma il trend di fondo è sempre stato crescente, con picchi all’insù e all’ingiù in corrispondenza delle due guerre e dei periodi di alta inflazione. Stupisce apprendere che è dal lontano 1926 che il bilancio dello Stato non si chiude in avanzo, alimentando così la continua espansione del debito.

Ma qual è la rilevanza della condizione finanziaria dello Stato rispetto all’economia del paese? È una relazione molto complessa, spiegano gli Autori, perché interessa la crescita, i tassi di interesse, il prelievo fiscale, il cambio quando lo stato emette una sua moneta. In breve: riguarda, forse determina, o almeno concorre a determinare, lo stato di salute delle imprese e da ultimo, ciò che più conta, il benessere dei cittadini. In prima battuta possiamo ritenere che una dose di debito pubblico sia benefica per l’economia perché stimola la domanda e quindi sostiene la crescita.

C’è di più: se questo si verifica, si possono superare le fasi di recessione e grazie alla crescita ci saranno più imposte con cui ripagare il debito. Questo, in qualche modo si autofinanzierebbe e così si estingue il problema. È  la ricetta keynesiana, o no? La teoria di Keynes è più complessa, avvertono gli Autori: “la tesi nasce da una trasposizione semplicistica del fatto che la spesa dello Stato si tramuta in reddito e quindi, l’effetto di aumentare la spesa pubblica è sempre e comunque positivo”. Quello che occorre sottolineare è che, per quanto la spesa pubblica generi reddito, aumentarla non è una politica da seguire sempre. In realtà, l’idea di Keynes consisteva nell’aumentare la spesa pubblica solamente in momenti di crisi economica per poi rientrare e seguire una politica di più prudente quando la crisi è passata e l’economia è in grado di fare a meno di un supporto pubblico forte. Pertanto il messaggio della teoria keynesiana non è che aumentare la spesa pubblica attraverso il debito fa aumentare la produzione e il reddito dell’economia in modo da non doversi preoccupare di quanto ci si sta indebitando”.

I disavanzi, ci ricordano gli Autori, vanno fatti quando ce n’è bisogno, nelle recessioni e nelle emergenze, mentre nei tempi normali si dovrebbe produrre piccoli avanzi per colmare i deficit precedenti e per accumulare riserve per le prossime, eventuali difficoltà: saving for a raining day. È proprio quanto prevede anche la nostra Costituzione, all’articolo 31, che stabilisce il principio del pareggio di bilancio non in modo rigido ma tenendo conto delle fasi avverse e favorevoli del ciclo economico.

La questione della misura del debito pubblico e della sua sostenibilità, come accennato, non è riconducibile a una mera percentuale del Pil e la spiegazione che danno gli Autori è semplice e convincente: se guardiamo alla percentuale osserviamo una situazione puntuale che non dà conto delle tendenze e quindi non ci fa comprendere se andiamo incontro a un problema o se stiamo andando verso la soluzione.

Consideriamo un rapporto del 100%: per l’Italia, che viaggia intorno al 138%, potrebbe essere un target; per la Germania, oggi prossima al 60%, indicherebbe un deterioramento. Non è neppure solo una questione di traiettoria ma di relazione fra le principali grandezze macroeconomiche: debito, crescita del Pil e tasso di interesse. Con l’intrusione del saldo primario di finanza pubblica, ossia l’avanzo o il disavanzo del bilancio dello Stato prima di computare la spesa per interessi. Quando la crescita del Pil è superiore al tasso di interesse siamo in una condizione virtuosa perché, per quanto grande possa essere lo stock di debito, l’aumento del denominatore tende a far diminuire il rapporto. Quindi ci troviamo probabilmente in una condizione di rientro dal debito che dimostra, nei fatti, la sua sostenibilità.

Al contrario, in presenza di bassa crescita e alti tassi di interesse, condizione teoricamente improbabile ma che, ahimè, è proprio quella che viviamo in questo momento, è molto facile che il circuito si inverta e da virtuoso divenga vizioso: la spesa per interessi si aggiunge al debito esistente e non è compensata dall’espansione del prodotto. Ci sono tutta una serie di combinazioni possibili che non rappresento qui perché lo fanno compiutamente gli Autori nel volume. Ma il senso traspare nettamente: giudichiamo sostenibile o no il rapporto debito/Pil in funzione delle dinamiche complessive dell’economia e non solo come i colori del semaforo. Questa non sembra una buona notizia per l’Italia, incatenata a percentuali di crescita molto bassa, che difficilmente potrà invertire stabilmente la tendenza del rapporto in questione. A meno di gravi sacrifici imposti ai cittadini, sia in quanto contribuenti sia in quanto fruitori dei servizi pubblici.

E qui veniamo alla seconda parte del libro, quella dei rimedi. Ma prima è interessante riprendere uno spunto degli Autori in ordine alla significatività del rapporto debito/Pil. Non c’è bisogno di essere raffinati economisti per conoscere i limiti che una proporzione così secca porta con sé, ma è difficile trovare indicatori migliori. In realtà uno ci sarebbe, o almeno sarebbe interessante da considerare: il cosiddetto “Pil demografico”, cioè una grandezza che tenga conto delle dinamiche demografiche del Paese, perché nel lungo andare le grandezze decisive per la sostenibilità del debito (il prodotto, la spesa pubblica e le imposte) ne sono grandemente influenzate. Detto in termini semplici ma efficaci: un debito pubblico alto è più facilmente sostenibile in un contesto demografico vivace piuttosto che se il Paese deve fronteggiare un calo della natalità. E di nuovo, questa non è una buona notizia per l’Italia che vede invecchiare rapidamente la sua popolazione.

Quali sono allora le possibili soluzioni del problema? La seconda parte del lavoro passa in rassegna le diverse proposte che ci sono sul tavolo, comprese “le più fantasiose”. Di queste non parlerò per non togliervi il gusto di scoprirle leggendo il libro (e leggendo le garbate ma incisive obiezioni).

Il punto di partenza è l’urgenza di affrontare la questione, perché il suo protrarsi rende sempre più ardua la soluzione e danneggia i cittadini che dovranno pagare più tasse, e le imprese, che devono pagare tassi di interesse più alti. Ma di questa urgenza non sembra esserci consapevolezza diffusa: non presso i politici, per timore di perdere consensi, e nemmeno presso gli stessi cittadini che probabilmente non colgono il punto centrale già enunciato in apertura: il debito non elimina le tasse ma le rinvia (letteralmente con gli interessi). E neppure esistono scorciatoie: il debito va riportato dapprima sotto controllo e poi, gradualmente, riassorbito, grazie a un mix equilibrato di interventi di rigore fiscale e di attenzione alla crescita. Nessuna misura draconiana, dunque, almeno finché circostanze drammatiche non lo impongano: vedi il caso ampiamente raccontato nel libro della Grecia dello scorso decennio (ma era una situazione molto diversa dalla nostra). Anche qui gli Autori dimostrano grande equilibrio, rifuggendo sia dalle ricette semplicistiche sia da un ingiustificabile furore rigorista. Due sono le parole chiave che li guidano e che dovremmo fare nostre: gradualità e credibilità, due parole ovviamente intersecate positivamente fra loro.

Gradualità significa che non dobbiamo necessariamente pensare di abbattere il debito di colpo, con una serie di avanzi di bilancio consistenti: basta il pareggio (o almeno il tendenziale equilibrio in un arco di tempo pluriennale) così che, unitamente a un percorso di crescita economica sostenuto da opportune riforme, il rapporto debito Pil si avvii stabilmente su un sentiero di rientro.

E qui interviene la seconda parola chiave: la credibilità. Impostare un piano di risanamento che sia realisticamente realizzabile e poi seguirlo con costanza, convince i mercati che i loro crediti non sono a rischio e li induce ad accettare remunerazioni più moderate sui titoli che acquistano. Così si contiene la spesa per interessi e anche questo concorre a rimanere nella traiettoria del rientro. Come spesso accade, si tratta di condizioni favorevoli che si alimentano vicendevolmente. In fondo, non è molto diverso da quanto previsto dai recenti accordi europei, che si discostano da logiche più strettamente contabili del passato e abbracciano una visione più di prospettiva, nella quale però deve essere inscritto, appunto, un piano di rientro sostenibile e credibile. Non mancano neppure elementi di flessibilità e di personalizzazione dei piani dei singoli Paesi per incorporare proprio le loro peculiarità e le alterne fasi del ciclo economico.

Le proposte degli Autori sono corroborate da quanto scrivono i sei economisti che hanno contribuito al libro offrendo la loro visione di quali sono le possibili vie d’uscita. Non li citerò individualmente, ma anche loro condividono l’urgenza del problema soprattutto per assicurare maggiore benessere alle generazioni future o, per meglio dire, per non gravarle di un problema ancora più grande. Certo gli accenti sono diversi: chi pone più enfasi sulle pensioni, chi pigerebbe di più sull’acceleratore del rigore per avvicinare il rientro; chi aderisce di più all’impostazione del nuovo patto di stabilità europeo, chi pone al centro la crescita arrivando a suggerire di invertire i termini del problema: non debito troppo alto rispetto al Pil ma Pil basso a fronte del debito. Tutti concordano su un aspetto, presente anche nell’analisi teorica degli Autori: oltre alla quantità della spesa pubblica conta la sua qualità, che si traduce nell’attitudine a generare crescita e quindi futuro gettito per ripagarsi.

Il volume risulta dunque uno strumento utile a chi, pur privo di competenze specialistiche, voglia capire i termini del problema del debito pubblico e formarsi un orientamento sulle sue possibili soluzioni. Ma proprio in virtù della sua godibilità riesce di interesse anche per il lettore con maggiori cognizioni economiche, perché proprio il percorso logico ed espositivo lineare rende le argomentazioni inoppugnabili.

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