approfondimenti/Mercato finanziario
Tutti i canali per finanziare l'economia reale

Troppo sofisticati e costosi per le Pmi i minibond. Troppo subalterni alle banche i fondi di credito. Troppi incertezze fiscali per le SiS... Un'analisi tra la disponibilità di strumenti potenziali per investire nell’economia reale e come si traducono in opportunità concrete

Silvia Segnalini
Segnalini

Proseguiamo il ragionamento iniziato in un articolo precedente (https://mirror.fchub.it/le-forme-di-finanziamento-alleconomia-reale-fondi-di-mini-bond-fondi-di-credito-e-sis/), entrando un po’ più nel merito dell’analisi degli strumenti che, nell’attuale quadro regolatorio italiano e comunitario, sono a disposizione dei soggetti che vogliano finanziare l’economia reale.

Tracciando una sorta di “stato di salute” dei medesimi, potremo capire meglio perché (era questo l’interrogativo da cui eravamo partiti la scorsa volta) gli investitori istituzionali ritengano vi siano poche occasioni di investimento e una scarsa propensione ad investire in Pmi.  

In un contesto di contrazione del credito bancario, come quello generato dalla crisi, sono nati grazie ad alcuni provvedimenti del periodo 2012-2014 innanzitutto i minibond.

Comunemente, si ritiene come il problema fondamentale dei minibond e dei fondi di minibond sia la liquidità. Per loro natura, infatti, riguardano emissioni di piccola taglia (in generale inferiore ai 10 milioni di euro) e non sono quotati sul mercato ufficiale. 

Un limite però parzialmente superato con l’istituzione, nel 2013, del segmento ExtraMOT PRO di Borsa Italiana, in cui gli investitori professionali possono negoziare, tra gli altri strumenti, anche i minibond. Il che ovviamente non risolve tutti i problemi, anzi. 

Gli alti costi degli operatori quali advisor finanziari e legali, banche e agenzie di rating, ed i costi delle garanzie e della quotazione sul segmento di mercato dell’ExtraMotPro di Borsa Italiana, rendono il minibond uno strumento di credito sostanzialmente più costoso di quello bancario.

Per quanto riguarda invece i fondi di minibond, una sorta di aggregatori di tali strumenti finanziari sotto forma di fondi di debito riservati chiusi, va detto come, da un lato, proprio perché aggregatori, risolvano il problema della liquidità, consentendo di trovare investitori in un tempo ragionevole, che sottoscrivano le obbligazioni.

Dall’altro lato sono, nel nostro sistema, molto ancorati alle banche, sia nell’organizzare le emissioni, sia per i canali distributivi di cui dispongono, là dove in altri paesi europei, come Germania, Francia, Inghilterra e Paesi Scandinavi, all’equivalente di tali fondi è concessa l’attività di direct lending, per cui non risultano sottoposti a quella stretta, ferrea ed altamente vigilata regolamentazione tipica delle banche. 

Non stupisce quindi come il principale report sui minibond, il Report annuale dell’Osservatorio minibond del Politecnico di Milano, rilevi come nel 2018, nonostante il mercato delle emissioni obbligazionarie di piccola taglia sia cresciuto e siano aumentate le emissioni e le imprese emittenti, il controvalore collocato si sia mediamente ridotto, con ciò determinando una contrazione nei volumi complessivi. Nel contempo, non sorprende – per quanto si è detto sui costi dell’operazione – come continui a scendere il numero di minibond quotati in Borsa e dotati di un rating ufficiale. 

Con i fondi di credito, nel 2016 il legislatore è andato decisamente oltre, aprendo il mercato del credito ai fondi di investimento alternativo: un obiettivo perseguito consentendo, in presenza di certe condizioni, agli organismi di investimento collettivo del risparmio (Oicr), di erogare direttamente finanziamenti.

La materia non si è mai distinta per una eccessiva chiarezza dell’intervento del legislatore, con la necessità di successivi coordinamenti applicativi, il che non è mai un fattore attrattivo per gli investitori. 

Così come non sta agevolando l’utilizzo dello strumento il fatto che, una volta definitivamente chiarita la possibilità di erogare crediti anche da parte di FIA UE, per questi ultimi sia stato previsto un vero e proprio regime autorizzativo da parte della Banca d’Italia, che di fatto rallenta l’operazione.

Inoltre, mentre i fondi di minibond operano sostanzialmente come tutti gli altri fondi di investimento, dando origine a forme di credito sì diretto, ma pur sempre cartolarizzato; i fondi di credito investono in contratti di finanziamento, ovvero in attività finanziarie non cartolari, con lo stesso modello operativo delle banche. 

In tal modo i gestori di tali fondi sono chiamati ad una attenta valutazione del merito di credito di chi richiede il finanziamento, là dove però tali competenze non sono numerose tra le SGR italiane: quindi delle due l’una, o il fondo deve dotarsi di tutta una costosa struttura organizzativa e delle necessarie professionalità; oppure deve ricorrere alla cooperazione con intermediari bancari o finanziari. Ma in questo caso, quello più diffuso, non si esce ancora una volta dallo schema “bancocentrico” della finanza italiana.

In questo scenario, con il recente c.d. Decreto crescita 2019, sono state da ultimo introdotte le Società di investimento semplice: FIA italiani costituiti in forma di SICAF che gestiscono direttamente il proprio patrimonio, ed aventi ad oggetto esclusivo l’investimento diretto nelle PMI non quotate su mercati regolamentati che si trovano nella fase di sperimentazione, di costituzione e di avvio dell’attività.

 Come già da altri illustrato (https://mirror.fchub.it/con-il-decreto-crescita-nascono-le-sis-ecco-come-funzioneranno/), si tratta a tutti gli effetti di gestori (sotto la soglia prevista dalla disciplina europea), che gestiscono direttamente il patrimonio raccolto, con un tetto massimo di 25 miliardi di euro, senza possibilità alcuna di avvalersi della leva finanziaria, e che godono di alcune agevolazioni regolamentari (il capitale sociale minimo è pari a quello fissato dall’art. 2327 c.c. per le Spa; essendo gestori c.d. sotto soglia non sono soggetti ai poteri regolamentari della Banca d’Italia e della Consob, ma è sufficiente un’assicurazione di responsabilità civile professionale adeguata all’attività svolta, anche se — a differenza della disciplina europea e di quella di altri ordinamenti — vi è l’obbligo, anziché di una mera registrazione, di una autorizzazione preventiva alla costituzione da parte di Banca d’Italia e Consob).

Con la legge di conversione del Decreto Crescita, è stata ampliata la platea dei potenziali sottoscrittori anche alla clientela retail: facendo rientrare così tra quest’ultima anche i business angels, una dizione prima esplicitamente presente in una delle versioni della norma, la cui successiva espunzione aveva fatto temere, al mondo delle start up, un depotenziamento di tali veicoli. Un rischio che comunque allo stato permane, risultando ancora incerta, nel momento in cui si scrive, l’applicazione anche ai sottoscrittori di SIS degli incentivi fiscali già previsti a certe condizioni per i Fondi per il venture capital.

Infine, è notizia recente (https://mirror.fchub.it/october-lancia-fondo-italia/), il lancio da parte di October, una piattaforma fintech che è diventata il principale operatore di prestiti alle PMI — in altre parole una versione tech degli Eltif (i fondi chiusi e a lungo termine, che hanno l’obiettivo di investire nelle piccole e medie imprese con passaporto europeo) — , di un fondo dedicato esclusivamente al sostegno delle PMI italiane, riservato agli istituzionali (ma con possibilità per la clientela retail di parteciparvi indirettamente tramite altri veicoli di raccolta). 

Pur non avvantaggiandosi dei vantaggi fiscali che gli Eltif hanno ottenuto quest’anno dal Decreto crescita solo per gli investitori retail, il fondo per le PMI italiane è una operazione di sistema interessante, in cui, in termini di rendimento, il taglio del costo del prestito è compensato dall’esistenza di una garanzia del Fondo europeo per gli investimenti strategici, mantenendo così alta l’attrattività per gli investitori. 

Potrebbe quindi essere la volta buona: gli operatori professionali finanziari italiani sostengono, infatti, come il venture capital ed il private equity debbano investire maggiormente, nel nostro contesto, non tanto sulle nuove start-up, ma soprattutto sulle aziende medie, le nostre PMI di qualità, e in prodotti di infrastrutture. 

Per cui, per rispondere all’interrogativo da cui siamo partiti, non stupisce — dopo aver evidenziato i punti deboli dei mini-bond (sofisticati e costosi per le nostre piccole imprese, e quindi di difficile accessibilità effettiva); dei fondi di credito (troppo subalterni al sistema bancario e vittima di una perpetua modifica delle fonti normative che ne ha decretato lo scarso appeal nell’attrarre investitori); e delle SiS (le quali, incertezze fiscali a parte, sono rivolte per l’appunto alle start up innovative) —  come finora la sensazione degli investitori istituzionali sia stata quello, in Italia, di uno scollamento tra disponibilità di strumenti potenziali per investire nell’economia reale, e concrete occasioni di investimento.