Ursula von der Leyen vuole rivoluzionare la struttura dei finanziamenti europei. Il cantiere è aperto, ma le resistenze si sono già fatte sentire, dagli agricoltori allo stesso Parlamento. Di certo, servono nuove risorse. E quindi nuove tasse comuni. Ma è qui che sorgono i problemi maggiori. Insieme all'eterna questione della governance...
Semplice, trasparente e con nuove risorse. Sono questi i requisiti del nuovo bilancio europeo sognato da Ursula von der Leyen. In una parola: una rivoluzione rispetto alla struttura del bilancio attuale, rigido, lento nel rispondere alle emergenze, appesantito da troppe burocrazie.
«Il nostro bilancio attuale è stato progettato per un mondo che non esiste più», ha dichiarato la presidente della Commissione il 20 maggio, all’Annual EU Budget Conference 2025: «Oggi, le tensioni geopolitiche aumentano. Le regole commerciali vengono riscritte. Gli eventi meteorologici estremi sono sempre più frequenti a causa dei cambiamenti climatici. E il cambiamento tecnologico è più rapido che mai. La “nuova normalità” è tutt’altro che normale».
Impossibile negare i difetti dell’attuale sistema: il 90 % del budget è deciso e allocato dall’inizio, per quello in corso vuol dire tra il 2019 e il 2020, quando il mondo era molto diverso da oggi. E ha un margine di flessibilità che è inferiore al 4%, inadatto ai cambiamenti che si renderebbero necessari. Senza contare che i costi di gestione assorbono una quota sproporzionata di risorse: «Conosco startup IT che hanno deciso di non richiedere il nostro finanziamento perché il 20% del finanziamento finale sarebbe stato speso per la procedura di candidatura. Non è possibile», ha rincarato Ursula. Ogni anno, gli auditors scoprono per di più che il 5-6 per cento delle uscite sono spese inutili, se non addirittura frodi.
Anche se le ragioni sono dalla sua, la sfida di dare una nuova forma al budget settennale che guiderà l’azione della Commissione a partire dal 2028 e fino al 2034 è altissima. La trattativa – che durerà due anni – è iniziata a febbraio con un paper in cui si proponeva di abolire i 52 programmi di spesa attuali – ognuno con le sue regole – per accorparli in tre fondi che permettano un uso più flessibile delle risorse.
Questo renderebbe la spesa più mirata a livello nazionale e lascerebbe spazio a risorse da destinare a progetti d’interesse comune per aumentare la competitività europea e per la difesa: «Il prossimo bilancio avrà un unico Fondo europeo per la competitività, con regole più semplici e procedure trasparenti. Concentrerà il potere d’investimento a livello UE in settori strategici, dall’intelligenza artificiale allo spazio, dalle tecnologie pulite e biotecnologiche alla difesa e allo spazio, a beneficio dell’intero mercato unico», ha chiarito pochi giorni fa von der Leyen.
L’annuncio della rivoluzione ha messo in allerta i paesi che dell’attuale bilancio sono i destinatari più importanti: la Francia, che è il più grosso beneficiario del fondo per l’agricoltura (valore totale 386 miliardi per 7 anni), e la Polonia, primo beneficiario dei fondi di coesione (valore 392 miliardi) ma anche l’Italia, che sui fondi coesione fa molto conto. La lobby europea degli agricoltori si è già fatta sentire, ottenendo dal commissario Christophe Hansen un’alzata di scudi rispetto all’idea di diluire i finanziamenti all’agricoltura in un unico calderone.
Per ora il Parlamento europeo non ha mostrato convergenza sulla proposta avanzata dalla presidente. Non piace l’idea dei piani nazionali, né quella di sciogliere i fondi coesione e agricoltura. «Non ci sono le condizioni politiche per riforme troppo ambiziose», ha ammesso Rocco Cangelosi, diplomatico con una esperienza di prima mano delle istituzioni europee, durante una riunione del Gruppo dei 20, il think tank guidato dall’economista Luigi Paganetto, presidente onorario della Fondazione Tor Vergata
L’elefante nella stanza non è solo il disegno del bilancio, quanto il suo finanziamento. Nel corso degli ultimi anni, quello che era il bilancio iniziale della Commissione, pari a 1200 miliardi, è quasi raddoppiato attraverso la revisione di mid-term che ha dato vita al Next Generation EU e poi agli aiuti destinati all’Ucraina. La cifra finale è così lievitata a 2077 miliardi, molti dei quali sono debiti che lasciano pendente il quesito sul come e se ripagarli o rifinanziarli.
Di certo si tratta di un volume di spesa che sarà difficile ridimensionare, visti i progetti per la difesa comune e le sfide per la competitività messe in chiaro dai rapporti Draghi e Letta. Per non parlare del fatto che nel 2030 si dovrà esaminare la domanda di adesione alla Ue di nove aspiranti Stati membri. Paesi che difficilmente saranno nuovi contributori netti ma piuttosto destinatari di denaro.
Servono quindi nuovi fondi, come anche il Parlamento europeo ha convenuto, con una risoluzione del 23 aprile scorso, proponendo l’introduzione di risorse proprie e l’adozione di prestiti europei per finanziare non solo la difesa comune, ma anche la transizione ecologica e la dimensione sociale.
Come ottenere nuove risorse proprie?
Oggi più del 70 per cento del finanziamento del budget viene dai paesi membri, che contribuiscono con l’1% del proprio reddito nazionale lordo. Difficile immaginare che questo contributo venga volentieri raddoppiato. Servirebbero perciò tasse a livello comunitario, ma poiché la sovranità sulla materia fiscale resta ai paesi, finora organizzare collegialmente una forma di tributo che abbia un valore comunitario è stato impossibile (esiste solo l’Iva).
Eppure, economisti e fiscalisti non rinunciano a mettere sul tavolo nuove proposte. C’è, per esempio, l’idea di un tributo che colpisca i fattori inquinanti, oppure il rilancio di una Tobin tax europea sulle transazioni finanziarie, o anche un prelievo sulla trasmissione dei dati informatici, o ancora una tassa sugli utili societari. C’è chi punta sulle nuove risorse che potrebbero arrivare dal tassare le “esternalità negative” come il gioco d’azzardo, il tabacco, lo spreco alimentare: si stima per esempio che tassare al 10% il gioco d’azzardo potrebbe produrre introiti di 50 miliardi di euro all’anno. Ma niente è andato oltre il ballon d’essai.
L’altro elefante è quello dei meccanismi decisionali, che a livello comunitario richiedono l’unanimità, difficile da conseguire in questa materia: «È questo il vero ostacolo del sistema europeo», afferma il tributarista Franco Gallo. Con l’ulteriore complicazione della struttura “duale” – come l’ha definita il politologo Sergio Fabbrini – che è alla base della governance europea: le entrate sono stabilite dagli stati membri, le uscite sono decise dal Parlamento UE. Un difetto che Fabbrini pensa si possa superare solo «con un modello di governance che ha il cuore nel bilancio: cioè con un rafforzamento del ruolo del Parlamento e del Consiglio europeo in materia di risorse».
C’è però nei regolamenti UE uno strumento di governance poco utilizzato ma pensato proprio per superare l’impasse dell’unanimità e togliere di fatto il potere di veto ai paesi membri. Questo strumento si chiama “clausola passerella” ed è stato definito nella forma vigente dal Trattato di Lisbona. Permette di prendere decisioni in sede al Consiglio in base al voto di una maggioranza qualificata (dal 55% dei membri del Consiglio, ovvero almeno 15 Stati, che rappresentino almeno il 65 % della popolazione) in tutta una serie di casi (per esempio politiche sociali, ambientali, diritto di famiglia, Pesc, ma è esclusa la difesa), su mandato unanime del Consiglio europeo.
In materia fiscale, però, il tabù dell’unanimità è duro a morire, tanto che è rimasto uno degli ultimi campi non toccato dalle riforme che hanno allargato la possibilità del voto a maggioranza qualificata. Anzi, quello fiscale è anche uno dei pochi settori di intervento in cui le decisioni sono adottate con una procedura legislativa speciale, con il Consiglio che decide unanimemente su una proposta della Commissione, senza un coinvolgimento decisivo del Parlamento, dato che quest’ultimo è solo consultato.
La base imponibile comune per le società, la dichiarazione Iva standard e altri progetti sono rimasti lettera morta proprio per l’incapacità della UE di arrivare a un compromesso e a una negoziazione per via del rigido processo dell’unanimità.
In realtà, in materia di bilancio pluriennale è ammessa una clausola passerella speciale, che consente il passaggio dall’unanimità al voto a maggioranza qualificata nel Consiglio.
Per l’uso di questa clausola nel caso dell’adozione del budget occorre l’autorizzazione del Consiglio europeo con decisione unanime e l’approvazione del Parlamento a maggioranza dei membri che lo compongono. Ma di fatto serve a ratificare cose già decise a livello politico, non per votare a maggioranza su nuove risorse proprie: per queste ultime è necessaria sempre l’unanimità.
La Commissione ha già da qualche anno invitato i leader dell’Unione ad avallare una tabella di marcia per allargare i casi di impiego delle clausola passerella, che potrebbe così dare via libera a progetti di politica fiscale in stand by da parecchio, come la base imponibile consolidata comune per l’imposta sulle società o la tassazione dell’economia digitale.
Ma le resistenze dei paesi membri sono forti, tanto è vero che l’utilizzo di questo sistema di governance è di fatto pari a zero. Alla rivoluzione di Ursula, però, una nuova governance è indispensabile, e oggi il clima potrebbe essere favorevole.