FINANZA&ELEZIONI USA
Trump cavalca il Nasdaq

Trump Media, società in perdita, viene quotata nel listino dei titoli super-tecnologici, raccoglie 9 miliardi di dollari e poi si sgonfia. L'ennesima operazione spregiudicata di Donald

Oliviero Pesce

Escluso da Twitter e da Facebook nell’ottobre 2021, a seguito dei moti a Capitol Hill, moti sovversivi da lui istigati e per i quali, dopo più di tre anni, né la Giustizia né la Politica americane sono state in grado di condannarlo, e neppure di escluderlo dalle prossime elezioni presidenziali (malgrado i tentativi di alcuni Stati), Mr. Trump creò una propria piattaforma di blogging, denominata Truth Social (Verità, come la Pravda), allo scopo di continuare a diffondere le proprie bugie sul preteso furto delle elezioni presidenziali del 2020, la cui correttezza era stata certificata non solo da tutte le autorità preposte a tale compito, ma anche dal suo stesso vice presidente uscente, Mike Pence; e per dare voce ai propri seguaci.

Dalla sua creazione, all’inizio del 2022, la società, di proprietà della Trump Media & Technology Group (che è anche un’agenzia di stampa), non è stata certamente un successo: avrebbe incassato 3,7 milioni di dollari e perso 73 milioni (venti volte il fatturato), avendo costi elevati, pochi followers, e un modesto fatturato pubblicitario. Mentre la Trump Media ha comunicato (dopo la quotazione della controllata) di aver perso, nel 2023, 58,2 milioni di dollari a fronte di un fatturato di appena 4 milioni, e ha aggiunto, nelle note consegnate alla Sec, che prevede di continuare ad accumulare perdite operative nel futuro prevedibile (foreseeable future).

Anche se definita, dalla stampa economica americana, “struggling” (in difficoltà, se non – da alcuni – a rischio di fallimento), la società ha concluso un accordo per fondersi con la Digital World Acquisition Corporation, una special purpose acquisition company. Sebbene ben cinquemila azionisti avessero rifiutato la fusione, essa è andata in porto: ne è risultato che la nuova DJT (Donald J. Trump) – che in futuro si dovrebbe chiamare Trump Media – è stata quotata al Nasdaq, per capitalizzazione il secondo mercato azionario americano. Tale mercato tende ad accogliere nuove società incentrate sulla tecnologia e l’innovazione, ed è considerata quindi, da alcuni investitori, più rischiosa di altre borse. Il Nasdaq Stock Market è regolato dalla National Association of Security Dealers, Inc. (NASD®), la maggiore industria del trading di  titoli autoregolata.

Malgrado questo quadro, non certo positivo, né, diciamo così, garantistico, il primo giorno di quotazioni ha visto la capitalizzazione del nuovo costrutto – poco più di una scatola vuota – arrivare a circa nove miliardi di dollari, mentre la quota di Trump, a seconda della fonti tra il 58 e il 70% del totale (possiede 79 milioni di azioni), si sarebbe posta tra 4,5 e 5 miliardi di dollari. Già di per sé le differenze tra i dati forniti da fonti diverse, vaghe notizie su possibili diluizioni, e la mancanza di utili consolidati, di un record, delle imprese che si sono fuse, hanno reso l’operazione poco trasparente.                     

Per analizzare le prospettive di una società, quotata o meno, e il suo merito di credito, ne andrebbero valutati la capitalizzazione, l’indebitamento, il fatturato, la redditività, l’andamento di questi fattori nel tempo, la competitività dell’impresa nel settore in cui opera. Per le imprese quotate, limitiamoci a guardare il price earnings, il rapporto tra prezzo per azione e utili per azione, ovvero, ed è la stessa cosa, il rapporto tra la capitalizzazione di borsa e gli utili dell’impresa.

Questo, per imprese tradizionali e consolidate, si è situato in generale, storicamente, tra 20 e 30 volte, in media, di recente, attorno a 20, rendendo, cœteris paribus, più appetibile l’acquisto di un titolo con un price earnings basso e meno il titolo caratterizzato da un rapporto elevato.

Nelle società più innovative, per le quali giocano un ruolo importante le aspettative di crescita, delle stesse e dei mercati in cui operano, le cose tendono a cambiare e i rapporti prezzi-utili a crescere. Nel settore dell’intelligenza artificiale, ad esempio, e dei chip necessari a svilupparla, a fine 2022 il price earnings di Nvidia era di 61,4, per crescere, nel 2023, a 216,7 volte; mentre quello di Cadence, che ha un giro di affari di 4,1 miliardi di dollari, cresciuto nell’ultimo anno del 15%, con un utile ’22 di 896,4 milioni e ’23 di 1,04 miliardi, è arrivato a 52,4; maggiore di quello della concorrente Synopsis, di 42,5.

Ma se questi sono rapporti stratosferici, che comprendono in effetti elevate aspettative (speranze/opzioni implicite) sul futuro, da qui al rapporto impossibile, che tende all’infinito dell’impresa di Trump, ce ne corre; perdite di 60-70 milioni cumulate in un paio d’anni, non giustificano una capitalizzazione di 9 miliardi e più. Infatti, nei cinque giorni successivi alla quotazione, i titoli del gruppo Trump avrebbero perso il 30%.

Trump, in base agli accordi, non potrà vendere le proprie azioni per sei mesi, anche se una deroga potrebbe venirgli concessa dal Consiglio di amministrazione, del quale fa parte il genero (che auspica investimenti turistici sulla costa mediterranea della Striscia di Gaza). Si gioca in casa. Inoltre avrebbe la possibilità di aumentare la propria quota sul totale in relazione al verificarsi di una serie di eventi. Ma, ingordi tutti, Trump ha accusato due dei suoi maggiori soci, Wesley Moss e Andrew Litinsky, di cattiva gestione e di aver rallentato il processo di quotazione della società, chiedendo che gli vengano restituite le azioni a loro assegnate; mentre questi hanno accusato Trump di voler diluire le loro quote.

Si è permesso di quotare nidi di vipere. Il soufflé ha cominciato a sgonfiarsi, e la stampa sostiene che Trump avrebbe perso alcuni miliardi; ma si tratta in realtà di miliardi che non sono mai esistiti, del tutto «virtuali».

Insomma, a Donald Trump, le cui società sono più volte fallite o che più volte hanno fatto ricorso al Chapter 11, norma che consente di continuare ad operare ripudiando gran parte dei propri debiti; che deve per multe sostanziali 464 milioni di dollari per aver gonfiato gli asset di altre sue imprese; che ha vari debiti relativi a numerose condanne, civili e penali, si è consentito di quotare in borsa una società in gran parte di sua proprietà e il cui unico asset è la proprietà dello stesso Donald Trump e delle aspettative, sue e dei suoi seguaci, che diventi il prossimo Presidente degli Stati Uniti. Mentre il Guardian sostiene che la società di Trump è riuscita a sopravvivere solo per vari interventi esterni e per l’aiuto di un accolito di Putin. Situazione che dubito abbia precedenti nel mondo della finanza.

In tale episodio, la auto-regolamentata Nasdaq e la Security and Exchange Commission sembra si siano comportate da istituti di una repubblica delle banane. Il volume Casino Capitalism, di Susan Strange,(© Susan Strange, Basil Blackwell, 1986), che tradussi nel 1988 per Laterza col titolo Capitalismo d’azzardo (che pure parla di regime dell’assenza di regole e di erosione della buona fede e della fiducia), non arriva a descrivere episodi del genere, che fanno pensare piuttosto alla Enron, a Bernard Madoff e a qualche schema Ponzi. Mentre le raccolte fondi presidenziali, con posti a tavola da 2 o 300.000 dollari, somigliano alle scommesse sui cavalli più in forma.

Francesco Guicciardini, (Ricordi, 172, Sansoni, Firenze, MCMLI) sostiene che:

E principi non furono trovati per fare beneficio a loro, ma per interesse de’ popoli, perché fussino bene governati.

Oggi certi «principi» (o pretesi tali) sono degli influencer, plurifalliti e coinvolti in cause civili e penali, condannati e sovversivi, che operano non per l’interesse «de’ popoli», ma di sé medesimi e delle proprie finanze; e il loro «governare» consiste nell’attaccare o occupare le istituzioni.