CACCIA ALLE PMI
Tremila imprese famigliari nel mirino dei fondi
Paola Pilati

Indicate come il nerbo della nostra struttura produttiva, campioni dell’export e dell’inventiva, le piccole e medie imprese italiane sono state considerate a lungo la parte vincente di un’economia in cui i pesi massimi spesso arrancavano. Oggi qualcosa è cambiato. Le Pmi sono improvvisamente diventate il fronte fragile del tessuto imprenditoriale, quello a cui serve un trapianto di innovazione e di cultura manageriale, e che richiede interventi d’urgenza per scongiurarne il declino.

È questo il messaggio che arriva da più voci in convegni e analisi concentrati proprio sul tema delle Pmi. “Le Pmi tradizionali faticano lungo tutte le dimensioni: si finanziano a debito, usano risorse manageriali interne, tendono a rimanere piccole”, sintetizza Fabiano Schivardi, prorettore alla ricerca della Luiss, nel suo intervento alla Consob durante il convegno che l’autority che vigila sui mercati finanziari ha deciso di dedicare al settore, apparentemente fuori dall’area di diretto interesse.

Che cosa è successo? Che il contesto in cui il piccolo imprenditore-artigiano – padrone e manager al tempo stesso, che identificava l’impresa con la famiglia – si muoveva benissimo, mettendo sul mercato prodotti non troppo sofisticati e ancor meno tecnologici, oggi è cambiato. Quello che è andato bene dal dopoguerra in poi, con la crisi finanziaria ha iniziato a incrinarsi.

Gli imprenditori, è vero, hanno in gran parte capito che la competizione si deve fare non solo sui costi, come nel passato, ma sulla qualità. Smettere insomma di essere, come siamo stati, la Cina del mondo. E questo ha permesso loro di tenere la presa su quote di mercato nazionali ed estere. Ma quell’imprenditore è ancora molto legato alla struttura produttiva classica, il cui fulcro è il macchinario e il binomio famiglia-banca. Oggi, per crescere, a contare di più sono altre cose.

Invece dei capitali materiali servono sempre più i capitali immateriali, osserva Schivardi: innovazione, marketing, catena distributiva. Tutte cose che richiedono investimenti. Invece che credito bancario, servono risorse sotto forma di equity. Ancora: tutte cose che richiedono risorse manageriali. Uomini con una formazione che le Pmi, i cui raghi sono imbottiti di esponenti familiari, spesso non hanno.

Eppure il settore delle Pmi ha continuato a mostrare vitalità anche con la crisi. Dopo l’emorragia che aveva falcidiato il settore con lo scoppio della bolla speculativa, la ripresa c’è stata. Ad aiutare, è arrivata la politica della Bce che ha erogato liquidità al sistema, e ha abbassato lo spread. Come registra il Cerved, il numero totale delle Pmi è tornato ai livelli pre-crisi (circa 150 mila Pmi, di cui due terzi sono le piccole), sono migliorati i conti ed è diminuito l’indebitamento. Quelle con un profilo “solido” sono 80 mila, oltre la metà. La resistenza del sistema ad eventi avversi – come una nuova impennata dello spread – è aumentata. Soprattutto, in quel mondo si registra un tasso di crescita del Pil del 5 per cento, un tasso che il paese a livello nazionale ha visto solo negli anni Cinquanta.

Ma le Pmi possono dare di più. Essere quella forza di riserva a cui il nostro sistema economico potrebbe attingere per spingere la ripresa. Come? Facendo un salto dimensionale. Proiettando la loro crescita verso fatturati, ricavi, capacità di internazionalizzazione, posti di lavoro, che ne aumentino il peso specifico nella nostra economia. Stimolando il suo valore aggiunto complessivo, e il Pil nazionale.

Il momento è propizio. Il Cerved, con un algoritmo costruito appositamente, ha mappato l’universo delle Pmi italiane secondo il ruolo che la famiglia ha nella compagine azionaria. Ebbene: 101 mila imprese (su circa 150 mila) sono a controllo famigliare (cioè la famiglia è almeno al 51 per cento dei voti). Di queste 54 mila sono chiuse, sprangate. Cioè assolutamente impermeabili a influenze esterne, anche nel management.

Altre 47 mila non sono famigliari, cioè non c’è una famiglia che esercita il controllo. Ma non di meno sono solo 971 mila quelle che hanno vissuto l’ingresso di investitori istituzionali, quindi si sono aperte a capitali esterni.

È questo, l’apertura all’esterno per crescere, il passaggio su cui la Consob ha acceso il suo faro. Ed è lo stesso su cui si dibatterà nel convegno Casmef-Fondazione Lab-PA il 24 settembre alla Luiss (https://mirror.fchub.it/crescita-economica-e-innovazione-finanzia/). Perché questo passaggio richiede l’opera di affiancamento non più delle banche, ma di nuovi soggetti finanziari specializzati, proprio quelli su cui la Consob svolge il suo controllo.

Quali? I fondi di private equity, prima di tutto, ma anche veicoli come gli Eltif, i fondi europei orientati all’investimeno di lungo termine nelle Pmi. Soggetti finanziari che rientrano sotto la vigilanza della Consob e conquistano improvvisamente un ruolo da protagonisti sulla scena economica, colmando il vuoto lasciato dalle banche.

Il problema è scegliere. Come si possono individuare le imprese che meritano questo tipo di attenzione da parte dei fondi di PE? Qui lo screening del Cerved ha seguito due piste. Una crescita dei ricavi superiore al 10 per cento nell’ultimo quinquennio, e di altrettanto del Mol e del cashflow sui ricavi. L’altra pista riguarda quali imprese rientrano nei requisiti di quelle nel mirino dei Private Equity, e quali invece possono puntare direttamente alla quotazione, e quindi a raccogliere sul pubblico mercato le risorse.

Ebbene, nel mondo delle Pmi il Cerved individua come “elegibili” all’iniezione di capitale, perché con ottime possibilità di crescita, 4386 imprese. Tremila di queste sono a carattere famigliare. Spesso proprio nella fase in cui il passaggio generazionale rende molto delicato l’equilibrio gestionale.

Un esercito di imprese. Molte delle quali potrebbero cambiare totalmente i propri connotati se si aprissero all’apporto di capitali e di management del PE, o se accettassero di andare in Borsa. Non tutte possono intraprendere lo stesso cammino. L’identikit delle prime individua aziende più piccole che operano nei servizi e sono numerose nel Sud e nelle isole. Le quotabili sono più grandi, sono nel manifatturiero e nel Nord, e nelle estrapolazioni del Cerved sono 735, di cui circa la metà di tipo famigliare.

Per tutte comunque si moltiplicano le occasioni di trovare ascolto e risorse, con i nuovi strumenti finanziari messi in campo ultimamente, dal programma Elite di Borsa italiana all’accordo tra Cdp e Confidi, agli Eltif, canale che consente di convogliare sulle Pmi italiane anche i capitali fuori dall’Italia, ai mini bond alle Sis, le società di investimento semplice. Non tutti al massimo dell’efficienza, come osserva Silvia Segnalini nell’articolo qui sotto (https://mirror.fchub.it/le-forme-di-finanziamento-alleconomia-reale-fondi-di-mini-bond-fondi-di-credito-e-sis/). Ad ogni modo, se la liquidità che è in circolo nel sistema europeo punta a trovare il diamante nella miniera delle nostre Pmi, speriamo che le Pmi siano in grado di cogliere l’occasione a cambiare pelle.