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Sulle crisi bancarie s'è perso l’approccio globale

Il meccanismo unico europeo per la risoluzione delle crisi ha avuto via libera, con l'approvazione della normativa di riferimento e l'istituzione di un board per gestire i dissesti. Ma negli Stati Uniti le regole introdotte dal Dodd-Frank del 2010 sono diverse.

Jacopo Carmassi

Il 20 marzo 2014 il Consiglio dell’Ue e il Parlamento europeo hanno raggiunto uno storico accordo sulla creazione di un meccanismo unico europeo per la risoluzione delle crisi bancarie, il Single Resolution Mechanism (Srm). Il dibattito che ha preceduto questo accordo si è focalizzato su una serie di temi cruciali per l’efficacia e la credibilità del meccanismo, tra cui il ruolo del nuovo Single Resolution Board, i poteri della Commissione e del Consiglio, il bail-in, il fondo unico di risoluzione e gli eventuali backstop. Questo articolo, pur nella consapevolezza della centralità di questi temi, si concentra su un ulteriore elemento, che ha forse ricevuto meno attenzione degli altri, ma che merita di essere analizzato in profondità: la necessità di un meccanismo capace di gestire la risoluzione di gruppi con rilevanza cross-border non soltanto su scala europea, ma a livello globale.

Uno degli obiettivi cruciali della profonda fase di riforma della finanza dopo la crisi globale del 2008 è stato quello di eliminare il problema del “too-big-to-fail”, cioè l’esistenza di istituzioni finanziarie talmente grandi da non poter essere lasciate fallire, perché il loro fallimento provocherebbe una crisi sistemica, alla luce del loro ruolo centrale nel sistema finanziario ed economico. La scelta drammatica che i policy-makers furono costretti a compiere nell’autunno del 2008 fu quella tra fallimenti “disordinati” con effetti sistemici da un lato e salvataggi pubblici dall’altro lato; una terza via non esisteva, perché di fatto non esistevano, né in Europa, né negli Stati Uniti, procedure e strumenti di risoluzione che consentissero di gestire rapidamente ed efficacemente le crisi dei grandi gruppi bancari e finanziari (soprattutto se cross-border), lasciandoli fallire in maniera ordinata e senza impatti sistemici. Dopo il fallimento di Lehman Brothers si scelse, su entrambe le sponde dell’Atlantico, di intervenire con risorse pubbliche, per non correre il rischio di effetti devastanti sul sistema finanziario ed economico globale.

Questa strategia poteva tuttavia produrre effetti collaterali in termini di disciplina di mercato e azzardo morale, con il significativo rischio che proprio quelle istituzioni che avevano contribuito alla crisi, assumendo rischi eccessivi e operando con una leva finanziaria troppo elevata, beneficiassero nuovamente di sussidi impliciti e incentivi a ripetere gli stessi comportamenti e le medesime strategie. Governi e regolatori hanno correttamente individuato questo rischio, ed hanno inserito nell’agenda della riforma della finanza l’eliminazione del too-big-to-fail, predisponendo a tal fine un’ampia gamma di strumenti. Tra le varie misure, è stata creata una nuova speciale categoria di istituzioni finanziarie, quella delle istituzioni finanziarie sistemiche (Systemically Important Financial Institutions, Sifi). Sia gli Stati Uniti che l’Unione europea hanno adottato, pur con modalità e tempi diversi, criteri per l’identificazione delle Sifi e una serie di regole speciali, che in buona sostanza mirano a due principali obiettivi: i) far “internalizzare” a tali istituzioni il rischio che esse possono porre al sistema finanziario (per esempio con requisiti di capitale addizionali per il rischio sistemico); e ii) rendere possibile il loro fallimento ordinato senza effetti sistemici e senza costi per i contribuenti, e cioè eliminare il problema del too-big-to- fail. Il Financial Stability Board (Fsb) e il Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria hanno svolto un fondamentale ruolo di coordinamento internazionale nel processo di identificazione e regolamentazione delle Sifi; il Fsb ha inoltre elaborato una serie di principi fondamentali per l’efficace risoluzione delle istituzioni finanziarie, e a tali principi si ispirano in larga misura le nuove norme, sia americane che europee.

Con il Dodd-Frank Act (Dfa) del luglio 2010 gli Stati Uniti hanno introdotto un meccanismo di identificazione delle Sifi (gruppi bancari con totale attivo di almeno 50 miliardi di dollari, nonché le istituzioni non bancarie designate dal Financial Stability Oversight Council) e hanno elaborato un complesso sistema di norme ad esse dedicate: tra queste, l’istituzione di un regime di risoluzione speciale, affidato alla Federal Deposit Insurance Corporation (Fdic), e denominato Orderly Liquidation Authority (Ola – Titolo II del Dfa). Il Titolo I del Dfa prevede, come opzione primaria, che le Sifi falliscano secondo le procedure ordinarie di bancarotta, e secondo le modalità previste dalle banche stesse nelle cosiddette “living wills”: tuttavia, qualora venga determinato dai regolatori e dal Tesoro che la bankruptcy ordinaria potrebbe causare rilevanti conseguenze negative sulla stabilità finanziaria negli Stati Uniti, allora si applica il Titolo II, cioè l’Ola. La Fdic, che aveva già prima della crisi il potere di mettere in liquidazione le banche di deposito (ma non i gruppi bancari, né le istituzioni finanziarie non bancarie), può ora, con i poteri dell’Ola, gestire la risoluzione delle crisi delle Sifi.

In Europa la risoluzione è uno dei tre pilastri su cui si fonda l’unione bancaria (gli altri due sono la vigilanza, con il Single Supervisory Mechanism, Ssm, e la garanzia dei depositi). Le nuove regole includono sia una direttiva per l’armonizzazione di procedure e strumenti speciali di risoluzione delle banche (separazione di attività, vendita di attività, bridge bank, bail-in), sia un regolamento che istituisce il Single Resolution Mechanism, un nuovo sistema europeo di risoluzione delle crisi bancarie che ha al centro un Single Resolution Board incaricato di gestire, con gli stessi strumenti previsti dalla direttiva e con un nuovo fondo unico europeo, la risoluzione delle banche europee dei paesi che partecipano al Srm (cioè i paesi dell’area euro e i paesi non euro che aderiranno volontariamente al Ssm; è importante ricordare che il Regno Unito resterà fuori). L’Srm dovrebbe contribuire in maniera decisiva a rendere possibili i fallimenti anche delle banche sistemiche nonché, in quanto meccanismo centralizzato a livello europeo, ad eliminare il problema della “supervisory forbearance” delle autorità di vigilanza nazionali. Resta però una rilevante area di incertezza per quanto concerne l’approccio alla risoluzione e la dimensione globale, e non solo europea, delle grandi banche cross-border.

Un aspetto fondamentale dell’approccio alla risoluzione negli Stati Uniti è il cosiddetto Single Point of Entry (Spoe), su cui la Fdic ha pubblicato un importante documento di consultazione nel dicembre 2013. Il Spoe prevede che le perdite vengano inflitte solo agli azionisti e ai creditori della holding company, non alle subsidiaries del gruppo, che rimangono operative: le attività della holding, che consistono essenzialmente negli investimenti e nei prestiti alle controllate, vengono trasferite a una bridge company appositamente creata, gestita e sostenuta dalla Fdic. Questa entità ponte deve sostenere le subsidiaries del gruppo, consentendo loro di restare operative, anche con trasferimenti di capitale e liquidità; la Fdic cederà poi le operazioni della bridge company ad una nuova società privata. È importante evidenziare due elementi: primo, la strategia Spoe consente di preservare l’unitarietà del gruppo, almeno in una prima fase; secondo, da un punto di vista regolamentare è fondamentale introdurre dei requisiti minimi per l’assorbimento delle perdite a livello di holding.

Alla strategia Spoe si contrappone l’approccio del Multiple Point of Entry (Mpoe): con il Mpoe la risoluzione è gestita a livello di subsidiaries, e quindi i vari strumenti di risoluzione  sono applicati in maniera decentralizzata e da più autorità di risoluzione (ad esempio, una per ogni paese in cui sono presenti subsidiaries). È possibile che siano scelti strumenti di risoluzione diversi per le differenti entità ed anche, fin dall’inizio della risoluzione, un break-up del gruppo su base geografica o funzionale. In questa strategia la capacità di assorbire le perdite deve essere dunque concentrata a livello di singola subsidiary, e non presso la holding.

Si noti che la scelta tra Spoe e Mpoe – sulla quale il Fsb ha lasciato discrezionalità – ha implicazioni assai rilevanti in termini di distribuzione delle risorse all’interno del gruppo, di allocazione delle funzioni di gestione dei rischi, di potenziali ostacoli alla risoluzione e di regolamentazione: per esempio, con il Spoe la capacità di assorbire le perdite dovrà essere sufficientemente concentrata a livello di holding company, mentre con il Mpoe le risorse dovranno essere disponibili a livello di singola subsidiary. Un gruppo bancario gestito in maniera “centralizzata” (per esempio in termini di capitale, liquidità, risk management, sistemi informativi, funzioni operative critiche) avrà probabilmente una preferenza per il Spoe, mentre gruppi bancari che operino con strutture decentralizzate – come quelli che hanno adottato il modello della subsidiarization – prediligeranno il Mpoe.

Come mostrato chiaramente dalla crisi del 2008, quando si verificano crisi di grandi istituzioni finanziarie cross-border, è vitale la presenza di meccanismi di cooperazione e incentivi che scongiurino il rischio di un ring-fencing delle attività da parte delle varie autorità dei paesi host: il ring-fencing può frammentare i mercati, impedire un utilizzo efficiente delle risorse del gruppo e dunque anche compromettere l’ordinata risoluzione del gruppo, con rischi di spillovers sistemici. È quindi essenziale che i paesi e le autorità host dispongano di alcune garanzie, che possano rassicurarli sull’equo trattamento delle società con sede nel proprio territorio, e dei relativi creditori. Il Spoe e il Mpoe offrono ai paesi host modalità e strumenti diversi di tutela: se si segue il Spoe, le autorità host dovranno assicurarsi che la holding del gruppo abbia risorse sufficienti per sostenere le subsidiaries in caso di risoluzione; se invece si segue il Mpoe, allora le autorità host dovranno preoccuparsi di far rispettare alle subsidiaries locali determinati requisiti, in primis in termini di capitale e liquidità. Affinché la risoluzione di un grande gruppo bancario cross- border sia possibile, rapida ed efficace, è dunque auspicabile che ci sia chiarezza, ex-ante, su quale dei due approcci sarà adottato. In caso contrario, da un lato si potrebbe produrre un’inefficiente allocazione delle risorse all’interno del gruppo, e dall’altro lato le autorità host potrebbero avere difficoltà a tutelare i propri interessi se le risorse non sono collocate nella parte “giusta” del gruppo. Risulta evidente che la scelta dell’approccio di risoluzione – Spoe o Mpoe – ha implicazioni estremamente importanti in termini di regolamentazione e vigilanza, e non solo per la fase della risoluzione.

Mentre gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Svizzera hanno adottato una posizione a favore del Spoe, le nuove regole europee per la risoluzione delle crisi bancarie non esprimono una preferenza per l’uno o per l’altro modello. D’altra parte, tra le grandi banche europee ve ne sono alcune con una struttura ed un’operatività centralizzata, mentre altre seguono un modello decentralizzato di subsidiarization: dunque sarebbe forse stato difficile imporre uno dei due modelli a livello di legislazione.

Questa strategia europea lascia però significativi margini di incertezza: sarà seguito l’approccio Spoe, e le autorità del paese home accetteranno che le risorse della holding o della capogruppo siano utilizzate per salvaguardare l’operatività di subsidiaries o branches attive in altri paesi? O sarà preferita una strategia Mpoe, in cui le autorità di ogni paese si concentreranno sulle entità locali? È probabile che la risposta sarà diversa nei diversi casi, e dipenderà dalla natura delle banche in risoluzione e dalle preferenze dei paesi e delle autorità coinvolte.

Si deve ricordare, peraltro, che le Global Systemically Important Banks (G-Sib) operano in decine di paesi in tutto il mondo, ma i loro assets sono tipicamente concentrati in poche aree, tra cui certamente gli Stati Uniti e l’Europa: che cosa succederebbe in caso di risoluzione di una G-Sib molto attiva sia in Europa che negli Stati Uniti? Le G-Sib americane hanno una quota rilevante di business in Europa, e le G-Sib europee hanno rilevanti volumi di attività negli Stati Uniti: in entrambi i casi l’attivo di singole subsidiaries è spesso superiore ai 100 miliardi di dollari e in alcuni casi supera i 300 miliardi di dollari. Si deve evidenziare, peraltro, che la maggior parte delle grandi subsidiaries delle G-Sib americane in Europa ha sede legale nel Regno Unito, e dunque la scelta delle autorità britanniche in favore del Spoe è particolarmente rilevante.

Il progetto di unione bancaria europea è avanzato a ritmi estremamente rapidi: la costruzione potrebbe essere completa con tutti i tre pilastri – vigilanza, garanzia dei depositi e risoluzione – nella prima metà del 2014, a soli due anni di distanza dalla cosiddetta Road Map dei quattro Presidenti, che diede l’avvio a questo necessario ed ambizioso progetto. Per quanto concerne la risoluzione, è innegabile che siano stati compiuti passi di portata storica e difficilmente immaginabili fino a pochi anni fa. Tuttavia, oltre agli aspetti più controversi e maggiormente discussi, resta da capire se il nuovo meccanismo sarà capace di gestire la risoluzione con un approccio globale, e non semplicemente pan-europeo. L’unione bancaria non potrà funzionare senza un meccanismo di risoluzione credibile, e un meccanismo di risoluzione credibile non può prescindere dalla natura globale delle G-Sib e da scelte chiare sull’approccio alla risoluzione, inclusa quella su Spoe e Mpoe.

L’idea di meccanismi di risoluzione globali può certamente apparire poco realistica (anche alla luce delle difficoltà in un’area relativamente omogenea come l’Unione europea); d’altra parte è probabile che un sistema con banche globali in vita ma locali al momento della “morte” rimanga esposto a gravi rischi di instabilità sistemica. Al Financial Stability Board spetterà  l’arduo compito di continuare ad elaborare principi e regole globali che possano quanto meno minimizzare tali rischi. Il problema del too-big-to-fail dovrà essere risolto globalmente, o rischia di non essere risolto affatto: il Single Resolution Mechanism e l’unione bancaria sono al tempo stesso un grande successo nella costruzione europea e un punto di partenza.