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La sentenza 8770/2020 della Cassazione sui contratti derivati degli enti locali
Sui derivati la Corte arriva tardi e male

Pur essendo condivisibili i principi che ispirano la sentenza (trasparenza, prudenza degli enti locali, efficienza dei mercati finanziari), non lo sono le argomentazioni e le interpretazioni della normativa proposte dalla Sezioni Unite. Che non solo arrivano quando è ormai vietato agli enti locali operare in finanza derivata, ma si fondano su ragionamenti logico-finanziari errati, quindi non applicabili. Il commento critico dell'economista.

Paolo Cucurachi
Cucurachi

La sentenza 8770/2020 emessa dalle Sezioni Unite della Cassazione interviene sul dibattito (tecnico e giuridico) che si è sviluppato nel corso degli ultimi 15 anni in materia di legittimità dei contratti derivati sottoscritti dagli enti locali.

La sentenza della Cassazione tenta di riempire di contenuto alcune norme di carattere generale che hanno disciplinato l’uso dei derivati da parte degli enti locali introducendo – ora per allora – obblighi e principi che oltre a non essere previsti dalla regolamentazione di settore risultano anche sconosciuti dalla prassi dei mercati finanziari e dall’esperienza di altri ordinamenti. 

Il giudizio sulle posizioni espresse nella sentenza è pertanto particolarmente critico e negativo in quanto si introducono, con effetto retroattivo e con argomentazioni contraddittorie, obblighi di comportamento che gli intermediari avrebbero dovuto tenere nella negoziazione dei contratti derivati con gli enti locali.

Nel fare questo, la sentenza trascura del tutto un aspetto di grande rilevanza che era stato invece affrontato (e risolto positivamente) da altre importanti sentenze in materia di derivati emesse dalla stessa Cassazione, dal Consiglio di Stato e dalla Corte di Appello penale di Milano concernente la legittimità del margine di profitto per la banca che, come vedremo, risulta del tutto inconciliabile con la tesi del mark to market nullo alla stipula o con l’equa ripartizione dell’alea. 

Un ulteriore punto debole della sentenza è che la stessa appare del tutto decontestualizzata sia rispetto all’evoluzione della normativa, sia rispetto all’andamento storico dei tassi di interesse, la cui dinamica  è stata condizionata da manovre di politica monetaria (straordinarie ed imprevedibili) che hanno determinato una forte riduzione degli stessi sino a portarli – ormai stabilmente – in territorio negativo.

La conseguenza di tale dinamica dei tassi – che nessun modello quantitativo avrebbe potuto prevedere – ha comportato per gli enti locali che hanno sottoscritto contratti di copertura (paradossalmente quelli considerati legittimi dalla sentenza) un costo per interessi legato al tasso fisso dello swap o al floor del collar superiore rispetto ai tassi correnti di mercato che avrebbero pagato in assenza delle operazioni di copertura. Ciò ha indotto molti enti ed imprese a tentare la via giudiziaria per disfarsi di tali contratti, usando la litigation option implicita nei contratti finanziari. 

Quali sono dunque gli errori e le contraddizioni in cui cade la sentenza della Cassazione. Sin dalle prime pagine della pronuncia le sezioni unite sembrano considerare gli strumenti derivati come una sorta di “virus” importato da esperienze giuridiche diverse dalla nostra e, pertanto, di difficile inquadramento (“è il risultato di una tradizione giuridica diversa dalla nostra”).

A nulla serve che la stessa sentenza riconosca che con la legge 448/2001 ed il successivo DM 389/2003 tali contratti siano stati tipizzati (“contratti tipici”) e che il TUF escluda che a tali contratti si possa applicare la normativa sulle scommesse. Ciò che appare del tutto inaccettabile è che l’assimilazione  – di per sé già ardita – dei contratti derivati alle scommesse razionali riguardi solo tali operazioni (senza alcun riferimento alla finalità di copertura e speculativa), e non anche altre tipologie di contratti del tutto equivalenti a quelli oggetto di analisi.

Infatti chi deve contrarre un debito a lungo termine, e questo vale anche per gli enti locali, sa bene che deve decidere se stipularlo a tasso fisso (avendo la certezza del costo del debito ed accettando l’aleatorietà del valore di mercato del debito) o a tasso variabile (accettando il rischio di una aleatorietà del costo del debito avendo la certezza della stabilità dal valore di mercato del debito).

Nessuna operazione finanziaria è pertanto esente da rischi ed è quindi assurdo che la sentenza voglia introdurre una distinzione tra operazioni di copertura e speculative avendo riguardo alla presunta maggiore aleatorietà delle seconde e prescindendo invece dalla natura della passività sottostante.

Ciò è particolarmente vero per gli enti locali che, ai sensi del DM 389/2003, possono stipulare un contratto derivato soltanto a condizione che esista una passività sottostante (tipicamente mutui CDP e BOC); è pertanto evidente che l’ente locale è già esposto ad un rischio (esposizione al tasso fisso o al tasso variabile) connesso alla passività e l’obiettivo del contratto derivato è quello di trasformare tale rischio (da fisso a variabile o da variabile a fisso) nel pieno rispetto della normativa.

Nel gergo comune si è spesso soliti ipotizzare che la copertura consista solo nella eliminazione della aleatorietà del costo del debito (ad esempio con il passaggio da un debito a tasso variabile ad una esposizione a tasso fisso) e non anche della aleatorietà del valore di mercato del debito. In ogni caso ciò che conta è che un’operazione di copertura, per essere perfetta, deve avere un rischio esattamente uguale e di segno opposto rispetto a quella della posizione originaria e pertanto è assolutamente privo di senso valutare la rischiosità dell’operazione in derivati senza tener conto del rischio della posizione che si intende coprire.

È quindi del tutto sbagliato ipotizzare, come fatto dalla sentenza, che la finalità del contratto possa essere desunta dalla aleatorietà dello stesso e non piuttosto dall’effetto complessivo prodotto sulla passività sottostante al contratto. Seguendo questo percorso argomentativo sarebbe del tutto legittimo contrarre un mutuo a tasso variabile mentre sarebbe illegittimo stipulare uno swap fisso-variabile che trasforma un precedente mutuo a tasso fisso in un indebitamento a tasso variabile.

Al contrario, sarebbe del tutto legittimo contrarre un mutuo a tasso fisso o contrarre uno swap variabile-fisso che trasforma un precedente mutuo a tasso variabile in un indebitamento a tasso fisso: la legittimità sarebbe però condizionata nel caso dei derivati alla comunicazione di costi impliciti, mark to market e scenari probabilistici, mentre nel caso del mutuo a tasso fisso non sarebbe necessario nulla di tutto ciò.

Trattare in modo eterogeneo comportamenti finanziari equivalenti introduce un incentivo a comportamenti di arbitraggio regolamentare che la regolamentazione e la giurisprudenza devono evitare, a meno che non si voglia che quanto può essere legittimamente fatto ai sensi del TUB non possa avvenire, a parità di risultato finale, ai sensi del TUF.  

Una ulteriore ed evidente contraddizione della sentenza la si coglie ove si parla dei contratti derivati stipulati con gli enti pubblici come prodotti su misura (bespoke) costruiti sulla base delle specifiche esigenze della clientela e per questo negoziati sul mercato OTC. Questo significa che non esiste sui mercati regolamentati la possibilità di reperire i “pezzi” necessari per assemblare un analogo prodotto e pertanto è del tutto fuori luogo l’affermazione secondo cui le banche sarebbe indotte, in palese conflitto di interessi, a negoziare tali contratti sul mercato OTC con l’unico obiettivo di occultare costi che, altrimenti, sarebbero risultati espliciti.

La sentenza confonde in modo clamoroso la distinzione tra negoziazione in conto proprio ed in conto terzi con la negoziazione sui mercati regolamentati ed OTC come se si trattasse di modalità diverse di analizzare lo stesso fenomeno. In realtà l’intermediario che negozia in conto proprio opera da dealer e doveva includere nel prezzo, ai sensi della disciplina, tutte le commissioni, mentre chi negozia in conto terzi opera da broker e si deve aggiungere al prezzo dello scambio (cui il broker non partecipa) le commissioni per il servizio svolto.

Tutto ciò è del tutto indipendente dal mercato (regolamentato o OTC) nel quale si svolge la negoziazione.  Il voler far passare il mercato OTC come una specie di Far west dove tutto è possibile in barba alla regolamentazione è quanto di più distante dalla realtà, in quanto anche sui mercati OTC vigono i principi di best execution e di correttezza dei comportamenti sanciti dal TUF e dai regolamenti attuativi.

Oggi la sentenza della Cassazione aggiunge nuovi adempimenti ai quali il legislatore e le autorità di vigilanza non avevano mai pensato e che avevano addirittura scartato come nel caso degli scenari probabilistici. 

Del tutto contraddittoria è anche l’argomentazione secondo cui la Cassazione riporta in auge la tesi del valore nullo alla stipula e del mark to market come elemento essenziale per identificare la causa e/o l’oggetto del contratto. Se infatti fosse vero che esisteva un obbligo normativo di stipulare soltanto contratti par, non si comprende come si potesse chiedere agli intermediari di fornire un’informazione che doveva essere necessariamente pari a zero.

Inoltre se tutti i contratti derivati, a prescindere dalla loro struttura e dalla posizione assunta dall’ente locale, dovevano avere un valore nullo alla stipula, allora non si comprende che valore informativo avrebbe potuto avere la disclosure del mark to market che avrebbe inevitabilmente portato a considerare del tutto equivalenti operazioni anche molto diverse tra loro purché fossero par.

La realtà è che il mark to market alla stipula, i costi impliciti e lo squilibrio dell’alea sono tutte manifestazioni diverse dello stesso fenomeno: il margine lordo della banca sull’operazione. Sostenere quindi la tesi del mark to market nullo alla stipula equivale e negare la liceità del margine lordo (che non è ancora profitto) per la banca ed è del tutto pretestuoso ritenere che un set informativo più completo avrebbe portato a decisioni finanziarie diverse. 

Ciò è particolarmente vero per le operazioni di copertura del rischio – le uniche ritenute lecite dalla sentenza della Cassazione – che sono motivate non dal desiderio di sfruttare la dinamica dei tassi da parte dell’ente locale, ma dal timore di andamenti avversi delle variabili finanziarie cui è legato il costo del debito. Il passaggio da un’esposizione a tasso variabile ad una esposizione al tasso fisso comporta inevitabilmente un costo (il costo della copertura) e pertanto non si comprende come la sentenza della Cassazione possa dare credito all’ipotesi che “il legislatore abbia prescritto all’ente pubblico di guadagnare senza rischiare”.

La sentenza della Cassazione sembra disegnare un nuovo ordine dei mercati finanziari all’interno dei quali non soltanto gli enti locali dovrebbero essere guidati da scelte puramente razionali – trascurando un filone di ricerca assai caro alla Consob secondo cui i comportamenti finanziari sarebbe invece condizionati da bias emotivi e cognitivi – ma addirittura le quotazioni dei mercati dovrebbero essere sempre perfettamente allineate a quelle definite dai modelli teorici di pricing e spetterebbe proprio agli enti pubblici agire da arbitraggisti, ossia realizzare  – per legge –  un profitto senza rischio al fine di riportare in equilibrio i mercati. 

Altrettanto assurda è la tesi secondo cui si dovrebbe estendere alla conclusione dei contratti derivati la valutazione di convenienza economica prevista dall’art. 41 della Legger 44872001 per le operazioni di rifinanziamento del debito. In quel contesto, infatti, la finalità della norma è quella di consentire la sostituzione del vecchio debito con un nuovo debito soltanto a condizione che il secondo sia più conveniente del primo.

L’estensione del principio di convenienza economica –  non previsto dalla normativa – anche ai derivati presuppone che l’ente locale abbia come controparte dello scambio un ente di beneficenza disponibile ad entrare in contratti bilaterali “convenienti” per una delle parti e quindi “non convenienti” per l’altra parte. Gli errori logici commessi dalla sentenza della Cassazione sono almeno due:

  • in primo luogo, nella negoziazione di una operazione finanziaria ciò che rileva ai sensi del TUF è che le condizioni praticate siano eque, ossia in linea con il mercato, e soltanto ex post si potrà valutare la convenienza economica dell’operazione conclusa; 
  • in secondo luogo il margine lordo realizzato dalla banca sull’operazione non ha nulla a che vedere con l’esito che il contratto stesso avrà per l’ente locale, in quanto mentre la redditività dello swap per la banca dipende dalle condizioni alle quali si chiude l’operazione back to back di copertura, la convenienza economica dell’operazione per l’ente dipende dalla dinamica delle variabili di mercato cui sono legati l’indebitamento ed il contratto derivato.

In definitiva, quella delle Sezioni Unite è una sentenza discutibile in quanto pur essendo del tutto condivisibili i principi che la ispirano (trasparenza, prudenza degli enti locali, efficienza dei mercati finanziari), non lo sono affatto le argomentazioni e le interpretazioni della normativa che forniscono agli intermediari un orientamento ormai tardivo (essendo ormai vietata qualunque operatività in finanza derivata da parte deli enti locali) per di più fondato su ragionamenti logico-finanziari errati e quindi non applicabili.

L’auspicio è che il riferimento ad una valutazione “caso per caso” delle singole operazioni consenta di correggere le contraddizioni presenti nella Sentenza. Quello che nel frattempo potrebbe essere utile è che le Sezioni Unite fornissero la formula rispetto alla quale calcolare gli scenari probabilisti dal momento che non risulta che i metodi di misurazione dell’alea siano così “scientificamente riconosciuti ed oggettivamente condivisi” come la sentenza vorrebbe far credere.