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SOSTENIBILITÀ ESG E ATTIVITÀ BANCARIA*

In base al Single Supervisory Mechanism gli spazi di intervento delle autorità di vigilanza in materia di governance bancaria sono già molto ampi. Ora nella recente Proposta della Commissione UE di modifica delle regole prudenziali per le banche, alle autorità di vigilanza è attribuito un potere ad hoc per richiedere alle banche di rivedere i piani o di ridurre i rischi di un eventuale disallineamento rispetto agli obiettivi climatici dell’Unione Europea. Ci si chiede se il sistema bancario possa sopravvivere all’alluvione di provvedimenti di hard e soft law funzionali alla realizzazione di una «sana e prudente gestione sostenibile»

 

Raffaele Lener e Paola Lucantoni
lener
Lucantoni

1. “Sostenibilità” è un lessema complesso, molto (ab)usato dalle fonti di produzione normativa, di hard law come di soft law, interne e internazionali, il cui significato può essere colto attraverso due dimensioni che non sono necessariamente convergenti.

Da un lato, in una prospettiva solo interna all’attività di impresa, la “sostenibilità” va intesa nell’accezione di “continuità aziendale”, di cui all’art. 2086 c.c., indicando la possibilità che gli amministratori, in un orizzonte temporale sufficientemente lungo, garantiscano un equilibrio economico/finanziario. In tal senso evoca la duplice prospettiva del short-termism versus long-termism.

Dall’altro, in una prospettiva esterna all’attività d’impresa, la “sostenibilità” affiancata dall’acronimo ESG (Environment, Social e Governance), allude alla possibilità che in un orizzonte temporale sufficientemente lungo le esternalità dell’attività d’impresa siano tali da non pregiudicare gli equilibri ambientali, sociali e di buon governo.

Prospettive, queste ultime, davvero immense.

Il tema ESG, come prima quello CSR (Corporate Social Responsability), è da tempo oggetto di acceso dibattito nella letteratura, che sottolinea al contempo il rischio di una sostanziale carenza di cogenza di una siffatta formula, ampia e vaga, e il rischio di possibili conflitti e antinomie tra la sostenibilità economico/finanziaria e la sostenibilità ESG. Nella stessa (confusa) prospettiva, si segnalano neologismi di moda quali Green-washing, da intendersi come comportamento illecito idoneo a garantire un indebito vantaggio attraverso la rivendicazione di caratteristiche di sostenibilità ESG in tutto o in parte assenti; o il più recente Green-hushing che, all’opposto, indica l’atteggiamento degli emittenti di non comunicare le caratteristiche di sostenibilità al mercato al fine di evitare lo stigma del Green-washing.

2. La “sostenibilità ESG” assume, nel contesto dell’attività bancaria, connotati di particolare complessità posto che, nell’attuale assetto normativo, il parametro della “sana e prudente gestione” ricopre un ruolo sistemico, indicando una regola di comportamento per gli amministratori della banca che va in una direzione diversa rispetto a quella che, nella società azionaria di diritto comune, potremmo sussumere sotto l’espressione business judgment rule.

Se quest’ultima consente, infatti, di non disincentivare l’assunzione di rischi da parte degli amministratori, creando una “zona franca” per le decisioni di gestione, al contrario il canone della “sana e prudente gestione” assolve, non solo per la singola banca ma a livello sistemico, la funzione di indurre alla “prudenza” nell’assunzione dei rischi nell’esercizio dell’attività bancaria.

In definitiva, il paradigma della “sana e prudente gestione”, nelle declinazioni che assume nel contesto della Banking Union, finisce per incidere sui procedimenti di selezione e ponderazione degli interessi disponibili nell’esercizio del potere di gestione affidato agli amministratori.

Quanto alla prestazione richiesta agli amministratori delle banche, la “sostenibilità ESG” sembra così introdurre un ulteriore (ed eterogeneo) interesse da integrare nella (già alquanto complessa) organizzazione dei processi decisionali dell’impresa bancaria.

3. L’interesse sociale e la particolare governance della società bancaria rendono l’integrazione dei fattori di sostenibilità ESG tutt’altro che agevole.

Il peso delle regole a tutela del buon governo delle banche è invero oggi ulteriormente amplificato a seguito della crisi dei mercati finanziari del 2007/2008. Si pensi, in particolare, ai poteri di vigilanza e regolamentari in materia di governo societario, affidati, a livello nazionale, alla Banca d’Italia, ai sensi dell’art. 53, comma 1°, lett, d), t.u.b. e, nella prospettiva europea, alla Banca Centrale Europea, sotto forma di «orientamenti e raccomandazioni» ai sensi dell’art. 4, § 3, secondo periodo, del Reg. UE n. 1024/2013, pur sempre soggetti alle norme tecniche di regolamentazione e attuazione vincolanti elaborate dall’EBA a norma del Reg. UE n. 1093/2010.

Il complesso sistema del Single Supervisory Mechanism ha in definitiva ampliato gli spazi di intervento delle autorità di vigilanza in materia di governance bancaria portando al governo pubblico (qualcuno parla di bank government) di un sistema creditizio il cui rischio, tuttavia, deve essere sopportato esclusivamente da investimenti privati. Alle autorità di controllo del settore, di vigilanza e di risoluzione, competono, in altre parole, penetranti poteri di intervento sugli aspetti strutturali e funzionali dell’attività bancaria che rischiano di essere confliggenti con il paradigma imprenditoriale.

La finalizzazione dell’azione degli amministratori alla sana e prudente gestione, con evidente compressione della discrezionalità imprenditoriale, ha la sua ragione nella peculiare struttura finanziaria della banca, caratterizzata da un disallineamento (c.d. maturity ladder) tra (i) le passività, rappresentate dalla raccolta di capitale presso il pubblico dei depositanti, ed esigibili a vista, e (ii) le attività, rappresentate dagli impieghi nelle forme di erogazione del credito, con scadenze variabili. A ciò si aggiunga che la richiesta di capitale a fini prudenziali sconta anche una valutazione dei rischi cui sono esposti gli impieghi. Ne risulta così, nell’ordinamento settoriale, la preminenza dell’interesse alla gestione del rischio di liquidità e di capitale, rispetto al quale l’interesse alla massimizzazione del valore della partecipazione dei soci diviene recessivo.

Al fine di contenere il rischio di capitale e di liquidità, gli amministratori della banca, in una prospettiva dialogica (o di eterodirezione?) con le Autorità di vigilanza, devono attivare due processi: ICAAP, Internal Capital Adequacy Assessment Process e ILAAP, Internal Liquidity Adequacy Assessment Process. In questa prospettiva si assiste a un imponente fenomeno di normativizzazione di regole aziendali, che cristallizzano l’organizzazione dei processi di gestione del rischio di capitale e di liquidità, cui consegue una accentuata compressione dell’autonomia degli amministratori, ulteriormente enfatizzata nelle ipotesi di crisi della banca.

Ne risulta che i poteri di intervento delle autorità di vigilanza si spingono fino a disegnare gli strumenti di gestione di rischi funzionali alla “sana e prudente gestione”, in ciò sostituendosi all’opera (nel contesto della società di diritto comune coperta dalla richiamata business judgment rule) degli amministratori. In particolare, la combinazione tra norme inderogabili e soft-law finisce per conferire all’intervento pubblico un potere di conformazione dell’attività gestoria degli amministratori.

4.   In tema di fattori ESG, nella prospettiva di gestione dei relativi rischi, la tassonomia normativa appare incompleta, essendo notevolmente — se non esclusivamente — privilegiati i profili ambientali, la cui mappatura, data la complessità del creato, non è opera facile. Mette conto, tuttavia, segnalare che il riferimento, nei provvedimenti di hard e soft law ma anche nei commenti della letteratura, continua a essere ai tre fattori ESG, quasi a voler annettere all’espressione ESG una efficacia taumaturgica in sé.

Il processo di risk governance dei fattori ESG (recte del fattore ambientale) si rivela drammaticamente complesso, vuoi per l’assenza di una definizione delle fattispecie universalmente condivise, vuoi per l’impatto che il rischio può avere sull’organizzazione dei processi dell’attività bancaria, sotto un duplice profilo. Da un lato, la crisi ambientale, con le emergenze climatiche di cui siamo spettatori, può, in misura sempre crescente, avere un impatto sugli impieghi della banca, in termini di riduzione delle garanzie reali e di aumento dei rischi — c.d. rischio fisico — cui consegue l’esigenza di valutarne l’impatto in termini di capitale, ove assume un ruolo primario la ponderazione delle attività ai rischi (c.d. RWA, Risk Weighted Assets); dall’altro, il sistema bancario, come quello finanziario in generale, almeno nelle intenzioni del legislatore potrebbe — ma occorrerebbe vagliarne la legittimità — assumere un ruolo di motore di un processo di transizione, privilegiando il finanziamento verso iniziative green, affrontando così il c.d. rischio di transizione.

5. Il processo di monitoraggio del credito, come imposto dal nuovo sistema degli IFRS9, impone agli amministratori, in dialettica con le Autorità di Vigilanza, un monitoraggio costante, per verificare periodicamente la classificazione delle singole posizioni debitorie nelle tre classi di rischio: (1) crediti esigibili; (2) c.d. UTP unlikely to pay, se il debitore presenta i primi segnali di sofferenza; e (3) c.d. NPL non performing loan in ipotesi di crediti deteriorati.

Nella prospettiva green, è allora pensabile una graduazione tra (1) crediti green, (2) crediti likely to (turn) brown o (3) un declassamento al livello di brown loan? E quali conseguenze in punto di incidenza sulla quantificazione del capitale che, come noto, dipende dal valore degli impieghi ponderati con i rischi, il c.d. RWA?

Ma v’è di più.

La gestione dei rischi nella prospettiva ESG è ancora più complessa. Va rammentato infatti anche il c.d. “rischio operativo”, da intendersi come il “rischio fisico” cui sono soggetti beni immobili, filiali e centri di elaborazione dati della banca a causa dei rischi climatici. A questo si aggiunge il “rischio liquidità”, sempre nella prospettiva ESG, da quantificarsi in termini di contrazione della liquidità a disposizione della banca, a ragione della possibile riduzione dei depositi della clientela, tanto corporate, quanto retail, per finanziare eventuali spese di riparazione e ristrutturazione, che si rendano necessarie per i danni da eventi climatici o per la transizione ecologica.

Da ultimo, gli amministratori dovranno valutare altresì il c.d. “rischio di mercato”, da intendersi come l’oscillazione del portafoglio degli strumenti finanziari nell’attivo della banca; rischio correlato ai fattori ESG, quale la riduzione di valore e/o l’incremento della volatilità del pricing di strumenti finanziari a seguito di eventi climatici sfavorevoli; o anche la riduzione del fair value di strumenti finanziari emessi da imprese che non rispettano i criteri di sostenibilità ambientale e sociale; o ancora l’aumento dell’instabilità o della volatilità del fair value dei titoli emessi da imprese appartenenti a settori percepiti come non sostenibili, soprattutto in caso di inasprimento delle azioni regolamentari e di politica economica in ambito ESG.

Come si legge nella recente Proposta della Commissione UE di modifica delle regole prudenziali per le banche, «alle autorità di vigilanza è attribuito un potere ad hoc per richiedere alle banche di rivedere i piani o di ridurre i rischi di un eventuale disallineamento» rispetto agli obiettivi climatici dell’Unione Europea.

Le banche sono tenute a pubblicare le informazioni relative ai rischi ambientali, sociali e di governance, compresi i rischi fisici e i rischi di transizione, in applicazione della già citata disciplina della NFRD. L’obiettivo è, in sintesi, di individuare il c.d. green asset ratio, da intendersi come la misura della quota di attività di portafoglio bancario, inclusi i prestiti e le anticipazioni, i titoli di debito e gli strumenti di capitale, allineata alla tassonomia dell’UE in termini di sostenibilità aziendale.

Risulta così evidente che il c.d. climate and enviromental risk (e quindi, in ultima analisi, solo quanto sintetizzato dalla “E” del noto acronimo) occupa un ruolo preminente negli obiettivi del legislatore e nelle aspettative delle autorità di Vigilanza ed è destinato a segnare profondamente l’organizzazione dei processi dell’attività bancaria, pur nella manifesta difficoltà del sistema nel trovare un inquadramento condivisibile dei rischi climatici e dei conseguenti obiettivi green da raggiungere.

Ci si deve chiedere, alla fine, se il sistema bancario possa sopravvivere all’alluvione di provvedimenti di hard e soft law funzionali alla realizzazione di una «sana e prudente gestione sostenibile».

Il rischio che la governance bancaria non riesca a reggere il peso del green swan è di certo altissimo.

(*) Parte di un paper più ampio, in corso di pubblicazione in Banca, borsa e titoli di credito, 2023, I.