DIBATTITI / COME COSTRUIRE UN FONDO PER LA CULTURA
Se la finanza vedesse gli artisti come un asset

Raccogliendo la proposta lanciata da Pierluigi Battista sul "Corriere della Sera" di un Fondo nazionale per la cultura, o Cultura Bond, ecco alcune delle idee che circolano tra gli studiosi dei mercati finanziari. E come potrebbero funzionare gli "art fund" che abbiano l’arte come asset class

Silvia Segnalini
Segnalini

Qualunque cosa accada, il 2020 rimarrà l’anno dell’occasione — ci si auspica non persa — di forzare i confini, gli schemi e forse i termini, della finanza anche per avvicinarla davvero al mondo della creatività e della cultura (in questo senso quindi “finanza creativa”, a scanso subito di ogni equivoco), laddove finora qualsiasi discussione in tal senso aveva sempre avuto un retrogusto di maniera, una attitudine salottiera: quasi come se si trattasse di una bella idea, ma tutto sommato non così necessaria da tradursi fino in fondo in veicoli operativi.

“Le banche centrali salveranno il mondo, ma poi andrà ripensata l’economia. (…) Siamo alla fine dell’ordine mondiale che avevamo fissato al termine della seconda guerra mondiale. (….) se vogliamo uscirne dovremo trovare un sistema di regole nuove che assicuri una più giusta redistribuzione della ricchezza”: se a dirlo, sulle colonne de “Il Messaggero”, è uno dei maggiori capitalisti al mondo, Ray Dalio, venticinquesimo nella lista delle persone più ricche stilata da “Forbes”, converrebbe prestargli una qualche attenzione.

Facciamo quindi un esercizio e proviamo a stravolgere gli schemi nei rapporti arte e finanza, partendo da un paio di constatazioni e dalla necessità — che si porrà in tanti ambiti — di provare a intercettare nuovi bisogni.

Anche in una crisi come questa, l’Italia ha dimostrato di essere straordinariamente ricca di artisti dalla grande energia creativa, di cui ci siamo abbondantemente nutriti   — come sarebbe stata infatti la nostra quarantena senza l’offerta (online) di arte, musica, cinema, teatro, senza parlare della lettura? — , per i quali dovremmo forse trovare nuovi meccanismi di remunerazione e sostegno (considerando il tempo, che non sappiamo quanto sarà lungo, di chiusura di musei, gallerie, teatri e sale da concerto, senza contare le resistenze anche psicologiche che comunque opporremo prima di rientrarvi). E ancora: come non notare che all’Italia non verrà di certo mai meno il patrimonio culturale, ma non sappiamo per quanto tempo potremmo contare sul turismo tradizionale.

L’esercizio è quindi quello di provare a immaginare schemi, opportunità diverse, per queste due diverse situazioni. In parole, cominciare a disegnare scenari alternativi: scenari, terrei a sottolineare, non previsioni ovviamente.

Partiamo proprio dal patrimonio culturale: già nel 2016, nel convegno “The cultural arbitrage: new frontiers in heritage and tourism management” (Fondazione Catella con Università Bocconi), si era parlato, forse per la prima volta, di arbitraggio culturale. 

Il discorso — che perlomeno nel dibattito pubblico sembrerebbe essere stato poi accantonato — meriterebbe ora di essere ripreso con particolare attenzione, in quanto il c.d. arbitraggio culturale era stato presentato come un modello applicabile per consentire a quei Paesi, tra cui l’Italia, con scarse dotazioni finanziarie pubbliche ma che detengono una parte significativa del patrimonio culturale mondiale, di avviare collaborazioni transfrontaliere per tutelare, conservare e valorizzare alcuni beni culturali. Condividendo i benefici di natura economica e non, con paesi ricchi di risorse finanziarie, ma relativamente poveri in termini di patrimonio culturale.

Ma vi è di più, e di particolarmente interessante di questi tempi: l’arbitraggio culturale era stato presentato anche come un modello per valorizzare i depositi dei musei, per metterli in circolazione: ed ora,  a ben guardare, tutti i musei sembrano dei gran depositi!

Proviamo allora a capire un po’ meglio. Cos’è, cosa si intende, innanzitutto per arbitraggio culturale?

Quando si parla di arbitraggio, nel linguaggio finanziario, si intende indicare «un’operazione che consente di ottenere un profitto certo, senza che il soggetto che la mette in essere corra alcun rischio. Solitamente l’arbitraggio consiste nell’acquisto/vendita di uno strumento finanziario (ma anche non finanziario, come una commodity) e in una contemporanea operazione di segno opposto sullo stesso strumento negoziato su un mercato diverso dal precedente, oppure su uno strumento diverso ma avente le stesse caratteristiche a livello di payout del primo. Appare evidente che una siffatta operazione può generare un profitto solo nel caso in cui esista un differenziale di prezzo tra due strumenti pressoché identici, differenziale determinato da un’inefficienza di tipo informativo (o normativo)» (fonte: Borsa Italiana).

Si è pertanto immaginato che ciò avvenga con i c.d. heritage assets, e che patrimonio culturale e turistico possano rappresentare, a certe condizioni, la prossima frontiera di safe assets. Un target finanziario appetibile non solo per investitori privati, ma anche per grandi investitori istituzionali (fondi pensione, fondi sovrani e altri investitori di lungo periodo), con logiche in grado di coniugare la redditività economica con valori e funzioni civili.

Quando però si va agli esempi concreti, illustrati nel convegno poc’anzi citato, si trova di tutto un po’: si va infatti dal caso del Louvre di Abu Dhabi (una operazione cross border che si sostanzia in un accordo trentennale tra la città di Abu Dhabi e il Governo francese, in cui la possibilità di associare il nome del Louvre al nuovo museo è costata ad Abu Dhabi 525 milioni di dollari, mentre ulteriori 747 milioni di dollari sono stati chiesti agli UAE per prestiti di opere, mostre speciali e consulenze varie di settore); all’Herculaneum Conservation Project — unico case study italiano che compare nel paper del convegno — che è in realtà un esempio di PPP (public private partnership), realizzato con fondi privati, in particolare quelli di un ente filantropico come il Packard Humanities Institute, per il restauro di un sito archeologico (un caso che nel diritto amministrativo si chiama “opera calda”, nel senso di capace di generare profitto per il privato che vi investe).

Si noterà pertanto come la terminolgia “arbitraggio culturale” non possa quindi essere tradotta con una definizione ben precisa, non trattandosi — come di primo acchito si potrebbe pensare — di un utilizzo di heritage assets in una classica operazione di arbitraggio, nel senso visto poc’anzi  (il che sarebbe del resto un po’ difficile):  piuttosto si è voluto adottare un termine di grande impatto per racchiudere tutta una serie di operazioni cross border , in cui assets culturali fisici – come i già citati depositi dei musei, che in questo momento potrebbero essere molto interessanti — producono una remunerazione certa per l’investitore.

Lasciando ampi margini per disegnare, per il futuro, scenari che utilizzino modelli di questo tipo, in cui potremmo utilizzare i marchi dei nostri musei, far uscire le immense collezioni dei nostri depositi museali (ma anche, se perdurasse lo stato di chiusura dei medesimi, le collezioni permanenti), e molto altro ancora: senza far correre alcun rischio né all’investitore — in quando si tratterebbe di safe assets, meno liquidi, ma più sicuri in quanto ancorati a un bene fisico che protegge dall’inflazione — né al patrimonio italiano, in quanto si potrebbe pensare di costruire un golden power ad hoc per evitare abusi da parte degli Stati esteri in queste particolari operazioni cross-border

Ma vi è di più (e così veniamo alla questione dei creativi italiani): con la ripresa in queste ore dell’SP 500, una sorta di sismografo del nostro stato di salute mentale e materiale, abbiamo appreso come il mercato — con le molte società assetate di liquidità che vi si stanno affacciando in queste ore  — stia dimostrando di sapersi salvare da solo, e un mercato che si salva da solo richiede meno interventi di sostegno da parte di banche centrali e governi, che possono poi ad un certo punto dirottare i loro fondi verso l’economia reale.

In questa luce va vista anche la fioritura di fondi privati che stanno raccogliendo soldi da destinare alle speciali opportunità create dalla crisi: è un segno di estrema vitalità del sistema, che, occorre sottolineare, non si è avuto nella crisi del 2008-2009, e che ci dice inoltre come la finanza, che in quegli anni fu l’epicentro della crisi, abbia cambiato in parte natura, potendo questa volta addirittura contenere in sé un contributo per la risoluzione della crisi. 

Come non citare, a questo proposito, il dibattito lanciato da Pierluigi Battista sulle colonne del “Corriere della Sera” (lo scorso 26 marzo) di un «Fondo nazionale per la cultura, o Cultura Bond, il problema non è il nome. Certo, bisogna studiare la sua fattibilità pratica che solo gli esperti di economia e finanza potrebbero indicare nel dettaglio tecnico». 

Ora, chi scrive non è un’esperta di economia e finanza, ma la suggestione è forte, quindi perché non raccogliere il guanto di sfida?

Innanzitutto, cosa intende Battista per “fondo”? Perché se entriamo in un discorso tecnico, il nome non è affatto un dettaglio: leggendo l’articolo citato, ed il dibattito che ne è seguito, sembra usarsi la parola fondo indifferentemente — a seconda della opzione scelta dall’interprete, cui Pierluigi Battista in realtà ha dato ampi margini  — per indicare una “raccolta straordinaria di fondi a favore della cultura” o un qualche tipo di fondo di investimento, per il quale ultimo però l’intervento di Carlo Fuortes, Sovrintendente del Teatro dell’Opera di Roma, sembra negare definitivamente ogni prospettiva: «purtroppo la proposta di Battista, pur validissima nell’intenzione, rischia di rimanere lettera morta proprio perché si tratta di un settore non profit, che produce beni e servizi il cui valore è solo parzialmente monetizzato nel prezzo di vendita. Senza profitti è impossibile trovare capitali di rischio o utilizzare strumenti finanziari dell’economia di mercato».

In realtà, mentre l’idea di una raccolta straordinaria di fondi per la cultura in questo momento potrebbe non essere particolarmente percorribile e suonare in un certo qual modo “stonata” nel contesto di crisi economica che ci si prospetta davanti — potendo scontare, a tacer d’altro, resistenze e riserve mentali di qualunque tipo  — , quella di uno strumento più connotato finanziariamente, in cui gli italiani diventino investitori (potendo quindi contare su un dividendo) non è poi, nonostante siano giuste le osservazioni di Fuortes,  così peregrina. Proviamo quindi a immaginare uno scenario in tal senso.

Il presupposto è quello della circulArt, una definizione molto ben riuscita, coniata da Edoardo Marcenaro, collezionista e top manager Enel, partendo dall’intuizione di Andy Wharol: firmando i dollari, Wharol ha per primo utilizzato la moneta americana come simbolo della fruibilità di massa delle opere d’arte, facendo altresì notare come, a parte le opere d’arte, non vi sia nient’altro capace di circolare come le monete e che sia altrettanto popolare.

Se a questo presupposto aggiungiamo che da lungo tempo in Italia si è alla ricerca di forme/modelli di sostegno per la giovane arte contemporanea italiana, compresa quella emergente (che non riceve un vero sostegno istituzionale o comunque ne riceve di insufficiente e legato a logiche non sempre condivisibili, a differenza di quanto non avvenga in altri Paesi, che sono più strutturati da questo punto di vista); che da qualche anno, nei convegni degli studiosi di mercati finanziari, circolano suggestioni riguardo all’utilizzo/utilità degli art funds o di veicoli simili e/o da inventare (veicoli che abbiano in ogni caso l’arte come asset class), come ‘incubatori’ per il lavoro dei giovani artisti (che se ben valorizzati nel tempo possono dare una plusvalenza, partendo infatti da quotazioni piuttosto basse), secondo lo schema del venture capital per una scuderia di sconosciuti o secondo lo schema del private equity in caso invece di artisti giovani ma mid-career o già piuttosto affermati; infine che — almeno a leggere la stampa specializzata —gli artisti italiani, tutti, ma soprattutto i giovani e gli emergenti, sembrerebbero di questi tempi chiusi nei loro studi a produrre incessantemente opere (che difficilmente riusciranno a vendere secondo i ‘riti’ tradizionali del mercato dell’arte: tra fiere cancellate o rimandate, gallerie che falliranno, art dealer che saranno spazzati via dalla crisi, insieme ad altre figure più opache del mercato dell’arte, e forse anche una domanda che potrebbe essere inferiore all’offerta, chi lo sa…).

Ecco, congiungendo tutti questi puntini, e provando a forzare la struttura dei fondi di investimento per come li abbiamo sempre conosciuti finora, che ci appare un veicolo capace di superare le (fin qui giustissime) osservazioni di Fuortes: un veicolo che — tramite una call lanciata autorevolmente, forse anche con la collaborazione in qualche modo dello Stato (perché la chiamata dovrebbe essere forte e di sistema) – raccolga opere di artisti italiani giovani ed emergenti, le cui quote possano essere sottoscritte dagli italiani (tutti, con il ruolo quindi di investitori) così come da chiunque creda nei nostri artisti. 

Le opere d’arte fisicamente finirebbero in un veicolo utilizzato come ‘incubatore’ per gli artisti, con gli strumenti cui si accennava poc’anzi – che varieranno a seconda della caratteristiche dell’artista (emergente o già in parte affermato, quindi, rispettivamente, strumenti di venture capital o di private equity) — , mentre la liquidità proveniente dalla sottoscrizione delle quote del veicolo, verrebbe scissa in due: una parte costituirebbe un fondo (in senso atecnico dal punto di vista dei mercati finanziari) inteso come “raccolta di fondi per la cultura e le industrie culturali italiane” (liquidità quindi di pronto utilizzo per un preciso obiettivo, facendo così degli italiani contemporaneamente degli investitori e dei mecenati per il proprio Paese); l’altra parte della liquidità, invece, verrebbe utilizzata per tutte le operazioni necessarie per la valorizzazione delle opere: in modo che al termine dell’operazione — che si immagina essere di medio periodo — , una volta ottenute le plusvalenze dalla vendita delle opere del veicolo, gli italiani-investitori siano remunerati.

Perché il disegno complessivo si tenga, andranno sciolti molti dubbi, studiate molte tecnicalità, trovata la banca adatta, ipotizzato un accordo Stato-società di gestione del risparmio, magari con una garanzia europea e una fiscalità agevolata, in modo che tutto si tenga, e tutti — artisti, investitori, sistema cultura italiano, e ovviamente gestori del veicolo — trovino un interesse a essere parte del sistema, cominciando proprio dagli artisti (che in qualche modo dovranno essere remunerati, prima, e non solo alla fine dell’operazione, da cui ricaveranno sicuramente una maggior affermazione, e quindi un maggior valore nel mercato dell’arte): ma le possibilità per immettere benzina nel veicolo — cui non a caso si è evitato di dare un nome, e stavolta proprio per ragioni tecniche (chissà infatti se alla fine lo si potrà davvero chiamare fondo di investimento o sarà qualcosa d’altro per i mercati) — possono essere tante.

Ad esempio si potrebbe pensare di diversificare gli assets inserendo, accanto alle opere d’arte visive, anche i diritti musicali di brani, sempre di artisti italiani (in Lussemburgo vi è infatti una lunga tradizione di fondi con questo tipo di assets, che garantiscono buoni profitti: si dovrebbe pertanto studiare meglio come funzionano). 

Vi è da dire infatti, come, se già si poteva prevedere poco in passato l’andamento del mercato dell’arte — il che è sempre stato percepito come un problema dalla finanza — , ora più che mai ogni previsione è piuttosto una scommessa: non sappiamo se in futuro avranno la meglio gli artisti emergenti e crolleranno gli affermati o viceversa: quindi in ogni caso un fondo i cui assets fossero, ad esempio, solo opere di artisti emergenti sarebbe oltremodo rischioso, la diversificazione è, come sempre del resto, fondamentale.  

Ma non mi si metta, come ostacolo (mentale), quello del rischio, non è davvero il momento: vi è, infatti, una lunga tradizione ormai, che va da Altavilla, il fondatore della psicologia giuridica, a Bona, con le sue Sentenze imperfette, per arrivare più di recente a Kanemann e ai suoi pensieri lenti e pensieri veloci, che ci dice chiaramente come l’economia capitalistica pur essendo stata fondata sulla calcolabilità, anche giuridica, ha dimostrato di essere dominata da talmente tanti fattori (bias, riserve mentali, superstizioni, deficit cognitivi …) che ne diminuiscono e compromettono tale calcolabilità, da farci dire che se dobbiamo davvero — come ci esorta Ray Dalio, così chiudendo circolarmente il discorso — costruire un nuovo ordine mondiale, è ora di sbarazzarci senza pietà di questi falsi miti.