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Se il rendimento è scarso paga la banca

Secondo la Cassazione il cliente ha il diritto di pretendere che nella gestione del suo patrimonio la banca gli procuri il miglior risultato possibile. La prestazione del gestore si trasforma così da obbligazione di mezzi in obbligazione di risultato. Con il rischio che il servizio di gestione tramonti per via giurisprudenziale.

Filippo Parrella

Con la sentenza n. 4393 del 24 febbraio 2014 la Corte di Cassazione, Sezione I, ha affermato la responsabilità della banca per non aver ottenuto “il miglior rendimento possibile” dalla gestione del patrimonio del cliente. La banca, in particolare, dopo due anni di ottimi risultati, aveva ridotto nel trimestre successivo la componente azionaria del portafoglio gestito ad una percentuale compresa fra il 3 e il 13%, laddove da contratto la soglia dell’azionario era fissata al 30%. Ciò avrebbe comportato la realizzazione di un rendimento minore di quello conseguibile se la banca avesse mantenuto l’investimento azionario fino al limite della suddetta soglia. Il punto è, però, che questo minore rendimento è stato qualificato dalla Cassazione come danno risarcibile dalla banca al cliente. Si tratterebbe di responsabilità contrattuale da negligente adempimento del mandato gestorio. La prudenza della banca nell’avere ridotto la componente azionaria del portafoglio in gestione è stata così derubricata nel caso di specie a negligenza. A nulla è valso alla banca affermare che bisognava guardare alla redditività complessiva della gestione, che nell’arco di un triennio (1990-1993) era risultata, nonostante il minore introito nel periodo incriminato, superiore di due punti percentuali a quella dei fondi comuni bilanciati, di quelli azionari e di quelli comuni. Secondo la Corte, “il fatto … che il gestore vi abbia fatto fronte molto bene in un certo arco di tempo, consentendo al cliente di realizzare i guadagni sperati, non implica certo che quell’obbligo” (di curare al meglio gli interessi del cliente) “cessi per il periodo successivo”. In verità, proprio perché i guadagni sono “sperati” – in quanto il rischio dell’investimento in strumenti finanziari è a carico del cliente, mentre il gestore è responsabile solo per la violazione delle regole tecniche della diligenza professionale – l’affermazione della responsabilità del gestore non può prescindere dall’individuazione della regola di diligenza violata. E proprio qui la sentenza risulta carente. La Corte ha formalmente tenuto distinte, nella motivazione, le scelte gestorie, “di per sé sempre relativamente opinabili”, dalla violazione dei doveri gravanti sul gestore nell’adempimento degli obblighi che è tenuto a rispettare nell’interesse del cliente; tuttavia, non ha indicato la regola di diligenza ipoteticamente violata dalla banca e non ha quindi fatto discendere la responsabilità della banca dalla violazione di tale regola. Del resto, dalla sentenza si evince che la banca non aveva l’obbligo di mantenere ferma la componente azionaria nella misura del 30% del portafoglio. Questa misura rappresentava solo la soglia massima dell’investimento azionario, oltre la quale la banca non sarebbe potuta andare, mentre ben sarebbe potuta scendere sotto tale soglia nell’esercizio della discrezionalità propria del gestore di patrimoni. Con ciò non si vuol dire che il gestore non risponda mai della minore redditività conseguente ad una propria scelta gestoria; si vuole dire che per affermare questa responsabilità occorre che il gestore abbia violato il canone della diligenza professionale. La scelta gestoria in sé non è sindacabile dal giudice; lo sarebbe la sua irrazionalità. Nella descrizione della vicenda processuale vi è un accenno ad un diverso comportamento di altri operatori professionali. Una scelta compiuta contro tendenza potrebbe allora essere irrazionale, ove non fosse giustificata alla luce delle regole tecniche della gestione. Ma la Suprema Corte non ha approfondito tale aspetto, e non ha neppure censurato la scelta gestoria della banca sotto il profilo della sua eventuale irrazionalità. Nell’iter argomentativo della sentenza è risultata invece decisiva l’affermazione del diritto del cliente “di pretendere in ogni momento che il gestore gli procuri il miglior risultato possibile”. Senonché, il gestore ha l’obbligo di adoperarsi “al meglio” per procurare tale risultato alla stregua del mandato gestorio; non ha, non può avere, anche l’obbligo di procurarlo, e non può quindi rispondere per il solo fatto che non l’abbia raggiunto. La valutazione della sua condotta va compiuta ex ante, alla luce di ciò che doveva fare ed eventualmente non abbia fatto, e non ex post, alla luce dei risultati che poteva conseguire e non abbia invece conseguito. L’esito delle scelte gestorie non è, e non deve essere, una variabile del giudizio di responsabilità; altrimenti, la prestazione del gestore si trasformerebbe da obbligazione di mezzi in obbligazione di risultato. E, considerata la volatilità dei mercati finanziari, chi sarebbe più disposto a prestare il servizio di gestione?