Se i sindacati cambiano pelle
Leonardo Morlino
MORLINO

A chiusura del congresso della Cgil e dopo diversi e vivaci scambi, non solo tra la Camusso e Renzi, è il caso di riflettere meglio sul possibile ruolo del sindacato nell’uscire dalla crisi, lontana dall’essere effettivamente superata. Per rispondere alla domanda se e come il sindacato possa contribuire a questo scopo, possiamo partire da un ‘mistero’ e da un richiamo al recente passato.

In questi anni, diversi mutamenti sociali e culturali, sotto gli occhi di tutti e che hanno avuto l’attenzione di numerosi studiosi, hanno portato alla virtuale scomparsa dei partiti come organizzazioni. Pur con differenze notevoli tra paese e paese – ad esempio, tra la Germania, dove pezzi di organizzazione esistono ancora e sono vivi e rilevanti, la Francia, dove con De Gaulle, e perciò già da molti anni, la trasformazione partitica e l’“evaporazione organizzativa” è stata netta e irreversibile, o l’Italia, dove gli ultimi residui di organizzazione nel Pd stanno scomparendo anche grazie al ‘Grande Rottamatore’ – le antiche organizzazioni partitiche sono un ricordo per alcuni, un sogno per altri. Per molti anni un fenomeno parallelo non è avvenuto con i sindacati, anche se gli stessi fattori (ad esempio, trasformazioni sociali ed economiche e de-ideologizzazione) che hanno indebolito i partiti avrebbero dovuto colpire anche loro. Il mistero è, tuttavia, solo apparente, ed ha una spiegazione: i sindacati sono riusciti a mantenere in piedi le proprie strutture organizzative grazie sia alle risorse economiche di cui potevano disporre attraverso l’affiliazione dei lavoratori, pensionati inclusi, sia ai servizi e consulenze che possono mettere a disposizione degli stessi sia al fatto che sono riusciti a sfuggire, in buona misura, al processo di delegittimazione che ha investito i partiti come strutture intermedie. Basta guardare a tutti i dati di sondaggio di questi anni per vedere la netta differenza tra la diffusa sfiducia per i partiti e la relativa fiducia per i sindacati.

Vi è, però, un altro aspetto da richiamare che fa parte della nostra storia recente. In Europa l’uscita dalla grave crisi degli anni settanta – la più importante, prima di questa, negli ultimi decenni– è avvenuta con il contributo sostanziale dei sindacati, e questo ha consentito ad alcuni paesi, come Germania e Inghilterra, di rientrare dai forti debiti pubblici già negli anni ottanta. Gli accordi neo-corporativi di quegli anni tra governi, sindacati e imprenditori sono stati gli elementi decisivi per la ripresa. Più tardi, negli anni novanta in Italia vi è una vicenda in parte simile, in cui alla crisi economica si aggiunge il terremoto politico con la fine dei partiti tradizionali. Dunque, vi è anche una forte instabilità politica, che è superata e compensata dalla stabilità economica assicurata dagli accordi neo-corporativi, che vanno dal 1992 al 1998, l’ultimo con D’Alema primo ministro e 32 organizzazioni intorno al tavolo di Palazzo Chigi per stipulare quell’accordo. E ora?

Il neo-corporatismo è ormai quasi scomparso dappertutto. Ha un forte affanno anche nella sua terra di elezione, l’Austria. Ormai le principali decisioni di politica economica non solo negli obiettivi, ma anche in parte sostanziale nelle modalità, sono largamente sfuggite di mano ai governi nazionali. Globalizzazione ed europeizzazione dettano quelle decisioni. Accordi sia con i sindacati che con le associazioni imprenditoriali, qualora possibili, costituirebbero solo un impaccio per qualsiasi governo, che sarebbe punito dai suoi elettori qualora comportassero nuovi sacrifici. Ma in realtà soluzioni politiche di questo genere non convengono neanche più alle parti sociali, che sono così libere di giocare all’opposizione e unirsi alla protesta dei partiti che prosperano in queste condizioni difficili. Dunque, le molte, forse troppe, chiacchiere in realtà nascondono un vuoto di proposte da parte di tutti gli attori politici costretti a ….navigare a vista in mari sconosciuti.