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Se i signori partecipanti diventano azionisti veri

Il Parlamento ha definito nuove regole di governance per la Banca d'Italia. Con soluzioni ibride. Che non chiariscono se chi mette i capitali è socio a tutti gli effetti. Oppure ha solo una funzione di protezione dalle ingerenze della politica.

Raffaele Lener
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  1. Lo stimolante articolo di Filippo Fiordiponti, pubblicato su FCHub, mi spinge a proporre alcune riflessioni sul tema (che saranno compiutamente sviluppate in un articolo di prossima pubblicazione in un volume a cura diFrancesco Capriglione).

Sono svariate le motivazioni che hanno portato al recente intervento legislativo sulle quote della Banca d’Italia: vi è stata certamente la volontà di adeguare il capitale della Banca, fermo dal 1936; indubbiamente il legislatore ha anche inteso introdurre un correttivo alla singolare situazione venutasi a creare a seguito dei processi di fusione che hanno interessato il sistema bancario italiano negli ultimi anni e che hanno avuto come effetto indiretto, sicuramente non voluto, la concentrazione in mano a due soli gruppi bancari di più del 60% del capitale della Banca; ancora, e in stretto collegamento con l’esigenza appena indicata, è apparso necessario limitare le prerogative dei partecipanti al capitale, ribadendo l’assoluta indipendenza della banca centrale dai suoi quotisti – nel frattempo divenuti banche private – nell’esercizio delle proprie funzioni pubbliche; infine – anche se forse è stata proprio la motivazione che ha portato alla accelerazione finale – il legislatore ha ritenuto opportuno consentire una significativa plusvalenza alle banche partecipanti al capitale dell’istituto di vigilanza, ottenendo il duplice risultato di rafforzare il patrimonio delle banche stesse e di creare una plusvalenza tassabile, funzionale agli obiettivi “a breve” di politica economica del governo.

Le soluzioni adottate per rispondere a queste, molteplici esigenze lasciano, peraltro, qualche perplessità, pur se, nel complesso, credo si possa dire che l’intervento legislativo sia  stato positivo.

In effetti, quanto alle nuove regole di governance della Banca sembra che il legislatore sia stato poco coraggioso, appiattendosi sulla struttura ridisegnata, senza particolari soluzioni innovative, dalla legge n. 262 del 2005, non riuscendo cioè a superare le incertezze legate alla funzione ibrida dell’organo assembleare e del Consiglio superiore.

Non è dubbio che il tema della governance delle banche centrali sia tema delicato, che ha portato a soluzioni, appunto, ibride, non solo nel nostro paese. Bisogna, infatti, garantire l’indipendenza della Banca del potere politico – e in questo senso può aiutare la struttura pseudo-corporativa dell’ente – al tempo stesso non consentendo ingerenze nella gestione ai soggetti privati che “partecipano” al suo capitale, soprattutto ove vigilati dalla Banca stessa.

E non è dubbio neppure che per un tempo molto lungo abbia funzionato bene questo strano modello pseudo-corporativo italiano, che fa della Banca d’Italia un ente «collettivo» anomalo, che neppure somiglia a una società di capitali e in cui i partecipanti al capitale non ne sono realmente «proprietari». Sì che può sembrare comprensibile che si sia preferito non toccare siffatto modello, che sino a oggi bene ha garantito l’indipendenza della banca centrale, anche in periodi estremamente complessi e in congiunture instabili.

Quieta non movere, dunque. Comprensibile. Ma ora qualcosa si è mosso.

Se è vero, in altri termini, che (almeno in parte) l’indecifrabile struttura di govenance della Banca ha contribuito alla sua indipendenza; se è vero che di siffatta struttura organizzativa si può dire solo ciò che non è, e questa anomalia dell’ente lo ha reso forte e autonomo; allora era certamente meglio non toccarla.

Se invece oggi si rivaluta il capitale della Banca, ciò fa pensare che esso abbia una funzione organizzativa; se si crea un potenziale mercato, ancorché non completamente libero, della quote, ciò fa pensare che esse possono costituire oggetto di investimento (e non si può predicare l’investimento in uno strumento finanziario dal “contenuto” incerto); se si (ri)disegnano i poteri dei partecipanti al capitale, ciò fa pensare che siffatti poteri abbiano, debbano avere un peso nell’organizzazione dell’ente; se si attribuiscono funzioni estremamente importanti a un organo collegiale di nomina assembleare, come l’anomalo Consiglio superiore, ciò fa pensare che questo organo non possa poi essere limitato a un ruolo formale, di facciata.

Ci sono, insomma, molti rischi in una ridefinizione … non definita.

In particolare, appare davvero singolare la posizione dei soggetti che detengono quote di partecipazione al capitale della Banca d’Italia. Il legislatore non sa bene come chiamarli. Infatti li chiama atecnicamente “partecipanti”, talora semplicemente “soggetti”.

Certamente non sono soci della Banca. Però sono coloro che materialmente dotano la Banca dei mezzi economici necessari per la sua attività, che ne garantiscono l’indipendenza finanziaria e, con ciò, l’autonomia.

La presenza di privati come apportatoridi capitale è addirittura enfatizzata nella riforma, quale fattore di bilanciamento rispetto al potere politico. Per questa ragione è stato ora abrogato il comma 10 della legge n. 262/2005, che aveva tentato una sorta di ritorno al capitale pubblico.

Non dimentichiamoci, peraltro, che il fatto che il capitale della Banca sia oggi detenuto da “privati” è largamente casuale, dipendendo dalla sopravvenuta trasformazione in imprenditori, appunto, privati di soggetti che erano enti pubblici al momento in cui a essi venivano attribuite quote del capitale della banca centrale.

2. A regime, comunque, i partecipanti dovrebbero essere molti di più degli attuali. Almeno questo è l’auspicio del legislatore.

L’assemblea potrà dunque diventare – e questa è certamente una innovazione – un luogo di confronto e di discussione fra molti intermediari, probabilmente tutte le principali banche, imprese di assicurazione, fondazioni bancarie, casse di previdenza e fondi pensione.

Luogo di discussione, certamente, ma anche di voto. E’ in quella sede che, ad esempio, dovrà essere approvato il bilancio e, con esso, l’eventuale distribuzione di dividendi. E sempre in quella sede verrà nominato il (nuovo) Consiglio superiore, dai poteri, sulla carta, molto vasti e penetranti.

Si dirà che l’assemblea non può avere “ingerenza” nelle funzioni istituzionali della Banca d’Italia (come enfatizzato dall’art.5 della legge), ma anche l’assemblea di una normale società per azioni non ha poteri di ingerenza nella gestione, che è affidata in via esclusiva all’organo amministrativo.

Non si dimentichi che proprio la scelta “di mercato”, a tacer d’altro, potrebbe giustificare la richiesta dei quotisti di una politica di distribuzione dei dividendi. E già questo potrebbe stridere con le funzioni istituzionali della banca centrale, fra i cui scopi non c’è certamente quello di produrre utili.

Sotto altro profilo, il voto sul bilancio potrebbe divenire una sorta di giudizio ex post da parte dei soggetti vigilati sull’operato dell’autorità vigilante. Si è detto che potrebbe configurarsi una sorta di controllo democratico sull’Istituto da parte delle imprese che operano sul mercato finanziario italiano.

Mi sembra, però, soluzione confusa, che meriterebbe di essere rivisitata. L’indipendenza della banca centrale è un bene da preservare. Non si possono accettare aree grigie.

L’idea dell’organo assembleare può funzionare, ma disegnandone meglio le competenze e le modalità di funzionamento.

Il Consiglio superiore, francamente, appare poco sensato: se davvero esercitasse le sue prerogative si rischierebbe proprio quell’ingerenza che il legislatore non vuole. Ma se non le esercita, a cosa serve? Non sfugge a chi scrive che proprio la presenza del Consiglio può servire, è servita, a sottrarre le nomine dei componenti del Direttorio aeccessive ingerenze politiche. Ma potrebbero trovarsi soluzione differenti, ad esempio prevedendo che essi vadano scelti fra persone in possesso di significativi requisiti professionali, non solo formali, e comunque, necessariamente, su proposta del Governatore, come peraltro già oggi previsto dall’art.  18, comma 2, dello statuto.

Lo stesso legislatore mostra di condividere queste perplessità o almeno di intuire (forse inconsciamente) i denunciati rischi, là dove impone l’italianità dei partecipanti al capitale. Una scelta che sarebbe incomprensibile, se non per il fatto che attribuire voice a quotisti italiani, e dunque sottoposti a vigilanza in Italia, dovrebbe garantire che di questa voice non si farà un uso distorto.