Nel 1981 ebbi occasione di pubblicare un lavoro di ricerca sulla allora Rivista Bancaria Minerva Bancaria, diretta dal prof. Parrillo, dedicato alle banche di minore dimensione, con riferimento esclusivo alle banche private. Erano circa 100, cui si aggiungevano 754 Casse Rurali e Artigiane, 81 Casse di Risparmio e Banche del Monte e 115 banche popolari. Le banche allora considerate maggiori erano peraltro numerose anche loro, ma nessuna superava una quota di mercato del 5% (BNL, Comit e Cariplo le prime). Lo studio fu motivato proprio dalla intuizione che si prospettasse un’evoluzione dettata dalla ricerca di una dimensione maggiore. Inoltre, era all’attenzione di operatori e studiosi l’ipotesi della presenza di economie di scala nelle aziende di credito, fattispecie tuttavia smentita da valutazioni “euristiche”, se non nell’ambito della creazione di gruppi bancari che, infatti iniziò in quel decennio a prendere corpo.
Per approfondire il fattore dimensione, è opportuno ricordare anche che, nel 1993, il TUB riconobbe la natura di impresa della banca, condizionandone così le valutazioni di efficienza e di economicità. Inoltre, per lungo tempo il sistema italiano ha mantenuto condizioni di oligopolio fortemente allargato, mentre le realtà europee avevano già ristretto il campo dei competitors.
Alcune valutazioni inducono a ritenere che esista anche un altro principio di economia aziendale che fa riferimento alle diseconomie di scala che descrivono gli incrementi di costo all’aumentare della dimensione aziendale. Un’analisi empirica delle esperienze ancora operanti sul campo riconosce l’importanza sia della dimensione quale elemento competitivo in un mercato (quello europeo) in cui la regolamentazione appare sempre più stringente ed uniforme per tutti gli enti creditizi (a prescindere dai volumi intermediari), sia del principio di proporzionalità, sostenuto anche dalla Banca d’Italia, che, di fatto, viene sistematicamente ignorato.
Nel contempo, si individua, quale soluzione per le banche di piccola dimensione, la possibilità di stringere accordi di rete o di iniziative consortili; nel caso delle Banche di credito cooperativo la soluzione, magari forzatamente accettata, è rappresentata dai nuovi Gruppi Bancari Cooperativi costituiti, per intervento legislativo, allo scopo di rendere efficienti e competitive le Bcc, mentre per le Popolari minori si stanno studiando ipotesi similari, sempre finalizzate alla riduzione dei costi di struttura e controllo delle banche di minore dimensione.
Una valutazione interessante proviene dall’esame del quadro normativo imposto dal regolatore americano (a differenza di quello europeo in cui operano molte piccole e medie imprese) nei confronti delle banche medio-piccole, che si traduce nella riconosciuta necessità di prevedere regole e norme differenziate a seconda delle dimensioni dell’ente creditizio vigilato. Una condizione in sé anomala, perché dovremmo attenderci una regolamentazione invertita. In realtà, è opportuno sottolineare che esistono diverse aree degli Stati Uniti dove le banche più presenti sono di dimensioni contenute, mentre siamo abituati a leggere lo scenario del mercato più conosciuto dagli osservatori esterni.
Cito al riguardo un pensiero di Rainer Masera quando afferma che “attenzione dovrebbe essere posta anche sulla creazione di condizioni competitive, eliminando le distorsioni create nel tempo e ancora presenti per la sostenibilità di banche di comunità efficienti, più legate all’informazione soffice, ai mercati locali e alle piccole-medie imprese”. Una lettura che potrebbe ricondursi allo scenario italiano, nelle aree dove economie locali robuste sono ormai prevalentemente assistite dalle banche maggiori che hanno acquisito quelle locali senza mantenerne un preciso disegno strategico locale. Questa condizione è presente solo in alcune altre situazioni di Paesi europei e trova quindi scarso appoggio nelle scelte normative a livello di organismi decisionali comunitari.
Anche la relazione del Governatore del 31 maggio 2019 ha ribadito come sia utile evitare che per le crisi di intermediari medio-piccoli, non assoggettabili a risoluzione (la gran parte delle banche europee), l’unica opzione disponibile rimanga una liquidazione disordinata e ancora troppo differenziata nelle soluzioni, e presenta rischi pesanti per la continuità dei servizi finanziari, per i risparmiatori, per la stabilità complessiva. Andranno esplorati i nuovi margini di manovra aperti dalla recente pronuncia del Tribunale dell’Unione europea sugli interventi preventivi dei fondi obbligatori di garanzia dei depositi.
A livello europeo, le norme sugli aiuti di Stato a tutela della concorrenza vanno applicate tenendo conto dell’esigenza di garantire la stabilità finanziaria e, in ogni caso, con la necessaria proporzionalità rispetto alle dimensioni degli intermediari interessati. La prassi non corrisponde, nell’applicazione, agli intenti presenti nelle scelte regolamentari che prevedono espressamente – nel testo – tale ricorso alla proporzionalità. Si tratta anche di un problema culturale nella formazione degli esponenti della vigilanza, che mantengono un atteggiamento più favorevole all’uniformità delle regole quando si applicano ad episodi di manifesta imperfezione nelle gestioni o in caso di coefficienti patrimoniali o rapporti fra grandezze di bilancio al di fuori dei parametri di fatto non proporzionati.
Le evidenze empiriche dell’ultimo decennio circa gli esiti andamentali delle Bcc danno indubbiamente ragione a coloro che lamentano l’assenza di normative correttamente disomogenee. La sensazione è pertanto che il disegno regolamentare comunitario propenda verso una scelta di concentrazione del sistema bancario che penalizza le banche minori in generale e quelle impostate su meccanismi cooperativi nella governance. Per contro, è opportuno per equità sottolineare come gli intermediari basati su questi principi abbiano operato spesso al di fuori dei loro contesti naturali, perdendo dal lato organizzativo e gestione le caratteristiche originarie.
È peraltro agevole verificare che il livello medio di patrimonializzazione registrato dalla componente “migliore” del credito cooperativo è normalmente superiore a quello rilevato dal resto del sistema bancario italiano, ma tale aspetto non rappresenti di fatto una condizione sufficiente per risultare efficiente. Una conferma della mia personale opinione che l’enfasi sul fattore patrimoniale non sia l’indicatore più efficace per disegnare le condizioni di solidità del sistema quando il contesto sia rischioso, volatile e non facilmente interpretabile.
Si potrebbe invece immaginare, come suggerito tempo fa sempre dal Governatore Visco, una soluzione diversa, con banche raggruppate in classi e con diversa severità dei vincoli regolamentari. In questo modo si eviterebbe che gli oneri necessari per adempiere agli obblighi posti dalla normativa, definibili come diseconomie di compliance di fronte a regole sempre più complesse, molti dei quali hanno natura di fatto quali costi fissi, producano economie di scala a vantaggio delle banche maggiori. I gruppi bancari delle BCC e quello in prospettiva delle popolari dimostrano la validità di questo elemento nel caso italiano, e riducono però a pochi casi le banche ancora interessate a quanto qui trattato.