È trascorso ormai oltre un lustro da quando l’eterogeneo fenomeno del Fintech si è imposto all’attenzione della scienza giuseconomica. Ancora oggi, tuttavia, non vi è una definizione universalmente riconosciuta che possa riassumere le plurime e variegate modalità in cui tale fenomeno si estrinseca tanto nelle manifestazioni del presente quanto, a maggior ragione, del futuro [Schueffel P., «Taming the Beast: A Scientific Definition of FinTech», in Journal of Innovation Management, 4, pp. 32-54]. Qualche punto fermo lo si può ricavare da un’interpretazione letterale della locuzione stessa, dalla quale a sua volta si evince la sussistenza di un collegamento applicativo-funzionale tra tecnologia (Tech) e finanza (Fin). Qualcuno potrà obiettare l’ovvietà di un approccio siffatto e ritenere tale affermazione nulla più che una tautologia. Così non è.
Quale che sia la definizione di FinTech, ad una più attenta analisi, non può non rilevarsi come il rapporto tra tecnologia e finanza sia ben più risalente rispetto a quello che suole credersi. Già nel 1967 con l’introduzione delle Automatic Teller Machine, si iniziano a intravedere i possibili sviluppi dell’integrazione tra automazione e finanza [Lerner T., Mobile Payment, 2013, p.3]. Ai commentatori del tempo la disintermediazione “umana” delle operazioni di prelievo contante avrà suscitato analoghi interrogativi a quelli che oggi pongono fenomeni quali le cripto-valute o il robo-advice. Perché allora solo negli ultimi anni si è manifestato cotanto clamore? Una chiave di lettura ci è stata offerta da Arner, Barberis e Buckley, che scorgono nel FinTech la risposta alla crisi finanziaria del 2008 [Arner, D.W., Barberis J.N. e Buckley R.P., «The Evolution of Fintech: A New Post-Crisis Paradigm? » Ottobre, 2015. University of Hong Kong Faculty of Law Research Paper No. 2015/047; UNSW Law Research Paper No. 2016-62].
Nel medesimo studio, gli autori propongono una ricostruzione del percorso evolutivo della tecnologia tout court applicata all’industria finanziaria, individuando tre macro-ere. La prima (1866 – 1967), caratterizzata da un approccio ancora di tipo analogico, in cui si intravedono in nuce gli effetti dell’utilizzo delle tecnologie di comunicazione quali il telegrafo o il telefono per la conclusione di rapporti di natura finanziaria. In tale periodo, si assiste inoltre all’emersione di nuove forme di pagamento rappresentate dalle carte di credito (Diners’ club nel 1950 e American Express nel 1958). La seconda (1967 – 2008), inauguratasi con il primo ATM del 1967, si è andata vieppiù caratterizzandosi per una sempre maggiore integrazione dei servizi bancari-finanziari con il mezzo informatico-telematico. Sebbene in tale era si siano forse verificati i cambiamenti maggiori, la prestazione di tali servizi è rimasta appannaggio dei soli soggetti tipicamente operanti nel settore, quali appunto banche, imprese di investimento et similia. Con la terza era (2008 – oggi) si è invece inaugurato un processo di “democratizzazione” dell’offerta delle attività finanziarie che, proprio grazie a nuovi paradigmi tecnologici, ha permesso l’ingresso nel mercato di soggetti un tempo estranei ad esso: si pensi ad esempio al ruolo svolto da società quali Google o Amazon o alle miriadi di start-ups finanziarie costituite negli ultimi dieci anni.
Sebbene tale ricostruzione abbia il notevole pregio di far comprendere come il problema delle declinazioni tecnologiche applicate alla finanza sia ben più risalente rispetto ai recenti interrogativi sull’universo del FinTech, la stessa finisce poi per sottovalutare le caratteristiche intrinseche del mezzo tecnologico per privilegiare una lettura più socio-economica del fenomeno in parola.
È parere di chi scrive che una corretta caratterizzazione giuridica di detti fenomeni passi in primo luogo dalla comprensione delle caratteristiche e delle modalità di funzionamento dei mezzi o delle tecnologie utilizzate. Solo così si potrà verificare se un determinato servizio o attività finanziaria, per le nuove modalità in cui si estrinseca, richieda una qualche forma di intervento nell’impianto regolamentare che lo disciplina.
Scopo del presente articolo è appunto quello di dimostrare come la tecnologia, recte, le modalità di sua applicazione, siano parimenti rilevanti rispetto al servizio o attività a cui la stessa accede. Per dimostrare ciò, si è preso a riferimento il servizio di FinTech che, per l’eterogeneità delle forme di interazione con il mezzo tecnologico, offre i maggiori spunti di riflessione: il robo-advice.
La tassonomia ad oggi in uso rispetto ai servizi di consulenza automatizzata o robo-advice individua almeno tre tipologie di robo-advice; queste ultime variano in funzione del grado di automazione e della sua allocazione nel processo di offerta o di svolgimento del servizio stesso. Si ipotizza quindi un robo-advice puro in cui l’automazione caratterizza tutte le fasi del processo di fruizione del servizio: dalla prima profilatura del cliente sino alla costruzione del portafoglio di investimento oggetto della raccomandazione. Il cosiddetto modello ibrido, invece, combina e/o alterna l’elemento umano e quello digitale in una o più fasi della catena del valore. In entrambi i casi, il servizio è diretto all’investitore finale. Un terzo modello, infine, noto come robo4advisor, pone gli strumenti automatizzati a supporto del consulente, qualificandosi pertanto come B2B (business to business). Da questa prima suddivisione emerge con chiarezza come l’elemento tecnologico sia dirimente rispetto alla configurazione di questa o quella fattispecie giuridica.
Prendiamo ad esempio il caso del robo4advisor, in tale fattispecie il cliente finale si relaziona direttamente con il consulente finanziario persona fisica. Quali che siano le modalità attraverso cui il consulente finanziario individua le raccomandazioni di investimento da sottoporre al cliente non è dato sapere.
Ed infatti l’art. 24-bis TUF, novellato dalla MiFID II, richiede unicamente che, nella prestazione del servizio in materia di investimenti su base indipendente, il consulente valuti una gamma quanto più ampia di strumenti finanziari disponibili sul mercato. Nulla dispone circa le modalità di selezione degli strumenti finanziari consigliati: che questa venga effettuata da un’intelligenza umana o sia invece frutto di un algoritmo più o meno complesso, ai fini della tutela dell’investitore, non rileva.
Già da prima che si coniasse il termine “robo4advisor”, i consulenti finanziari erano soliti utilizzare strumenti, supporti o applicativi informatici, propri o di terzi, per rendere maggiormente efficiente la propria attività. Il risultato proposto da tali supporti poteva essere poi modificato, integrato, o completamente disatteso dal consulente stesso che doveva unicamente preoccuparsi di aver rispettato tutte le regole di condotta espressamente enunciate all’art. 21 TUF. Nulla cambia qualora la proposta di raccomandazione da sottoporre al cliente arrivi al consulente da un’intelligenza artificiale integrata capace di elaborare interamente il dato partendo dalla profilatura, piuttosto che da un modello matematico semplificato.
L’attuale impianto normativo è infatti chiaro e non dà adito a dubbi. La tutela va individuata: nell’informazione preventiva al cliente (si veda l’art. 24-bis TUF), nella comprensione da parte del consulente delle esigenze e delle competenze finanziarie di quest’ultimo, e infine nel rispetto delle regole di condotta a cui lo stesso deve attenersi.
Orbene, più di qualche autore si è invece interrogato circa la necessità di assegnare al regolatore o, del caso, alle autorità di vigilanza, un qualche potere di valutazione o controllo circa la correttezza e/o l’efficacia delle metodologie adottate nella costruzione degli algoritmi di produzione delle raccomandazioni.
Non si comprendono tuttavia le ragioni per cui se la raccomandazione è frutto di un’ intelligenza artificiale o di un complesso algoritmo, si richieda un vaglio sulla metodologia utilizzata, mentre qualora sia partorita da un’intelligenza umana, non necessiti di alcuna valutazione. Nella seconda ipotesi, giustamente, si sostiene essere il mercato a premiare i consulenti migliori e a deprimere i peggiori. Così dovrebbe essere anche nei confronti di modelli algoritmici o rappresentati da intelligenze artificiali, anzi, le attuali potenzialità di calcolo teoricamente permetterebbero ai robo-advisor una maggiore e più penetrante capacità di analisi, anche in ragione dell’utilizzo dei big data [P. Giudici e G. Polinesi, «Scoring models for robo-advisory platforms: a network approach», Submitted Technical Report, 2018].
Ecco quindi che, ad una più attenta analisi, qualche ulteriore elemento di criticità rispetto al mezzo tecnologico parrebbe scorgersi, non tanto nei rapporti tra cliente finale e robo-advisor (o robo4advisor, seppur non in maniera diretta), i quali ricevono tutela sufficiente dalle attuali disposizioni normative, quanto piuttosto nelle relazioni tra i processi di automazione offerti da algoritmi e/o intelligenze artificiali e il mercato tutto.
Sul punto, come già anticipato in premessa, la tecnologia gioca un ruolo chiave. L’automazione unita all’infrastruttura telematica, grazie anche alle nuove capacità di gestione e analisi dei big data, potrebbe infatti dar luogo a scenari distorsivi per cui un solo robo-advisor o, alternativamente, plurime reti di consulenti finanziari supportati da un unico robo4advisor, assista/no una quantità di clienti potenzialmente infinita.
Tale ipotesi, sebbene meramente eventuale e volendo anche un po’ forzata, trova tuttavia dei precedenti da tenere in debito conto. Si pensi ad esempio al processo di concentrazione che si è verificato rispetto al servizio dei motori di ricerca ormai dominato da un solo e noto operatore ovvero, dall’universo dei social networks che ha consentito ad un unico soggetto di raggiungere e superare il ragguardevole numero del miliardo di iscritti. Parrebbe pertanto lecito porsi il seguente quesito: qualora dovesse verificarsi anche per la consulenza automatizzata un simile processo di concentrazione, quali conseguenze potrebbero derivare?
Quello delle possibili implicazioni dei big data (o dei data analitics) sul mercato della concorrenza è un tema che sta attirando sempre maggiore attenzione da parte dei commentatori [ A. Giannaccari, «La storia dei Big Data, tra riflessioni teoriche e primi casi applicativi», in Mercato Conc. Reg., 2017, p. 307]. Taluno individua la possibilità di riequilibrare tali effetti distorsivi attraverso una migliore integrazione tra diritto della concorrenza e la disciplina in materia di privacy e/o data protection.
Chi scrive, concordemente con le opinioni di altri autori, ritiene tale strada poco percorribile [L. Calzolari, «International and EU Antitrust Enforcement in the Age of Big Data», in Diritto Comm. Int., 4, 2017, p. 855]. Nel caso di specie poi l’informazione o il dato personale è di primaria importanza proprio al fine di permettere al robo-advisor il livello di personalizzazione richiesto dalla disciplina novellata dalla MiFID II.
Il principio della know your customer rule, su cui poggiano a loro volta i canoni di adeguatezza e appropriatezza, impone infatti al consulente finanziario una maggiore e più penetrante analisi circa le conoscenze finanziarie del cliente, la sua situazione patrimoniale, la propensione al rischio, il livello di istruzione, ecc [R. Lener e P.Lucantoni, «Regole di condotta nella negoziazione di strumenti finanziari complessi: Disclousure in merito agli elementi strutturali o sterilizzazione, sul piano funzionale, del rischio come elemento tipologico e/o normativo?», in Banca Borsa Tit. Cred., 4, 2012, p. 369]. In tale fattispecie, pertanto, il diritto alla privacy è assorbito o addirittura superato da un interesse superiore rappresentato dalla tutela del risparmio dell’investitore. Anzi i due diritti sembrano essere inversamente proporzionali: maggiore sarà la disclousure da parte del cliente, migliore (o quantomeno più adeguata) sarà la raccomandazione.
Criticità si potrebbero manifestare qualora l’automazione e la susseguente massificazione del servizio di consulenza finanziaria non riescano a garantire un’effettiva personalizzazione del servizio [Linciano N. e P. Soccorso, «La rilevazione della tolleranza al rischio degli investitori attraverso il questionario», Consob, Discussion paper n. 4, 2012]. Si pensi ad esempio al mass market il cui modello di business prevede un servizio di consulenza standardizzato e una gamma di prodotti offerti più ridotta, soprattutto in ragione delle disponibilità dei clienti in termini di fees e ai conseguenti minori ritorni attesi da parte del robo-advisor.
In tale ipotesi vi è il rischio che l’algoritmo, per ragioni di efficienza [economica] preferisca operare in contesti semplificati e per l’effetto definire un numero chiuso di classi di investitori-tipo a cui assegnare, in funzione del profilo di rischio, la medesima raccomandazione di investimento.
La realtà sembra tuttavia essere un’altra. Il sempre maggiore utilizzo di big data da parte di sistemi esperti, con o senza l’ausilio del machine learning, dovrebbe, in un prossimo futuro, consentire una profilatura e una conseguente personalizzazione della raccomandazione con tempi e gradi di dettaglio sino ad oggi inimmaginabili. La convinzione secondo cui il robo-advisor derivi obbligatoriamente ciascuna e tutte le informazioni dal questionario KYC francamente sembra appartenere a tempi passati. Oggigiorno, le API attraverso cui le informazioni, talvolta anche in maniera inconsapevole, vengono processate e/o veicolate, consentono un’integrazione tale per cui il dato, sempre nel rispetto della disciplina derivante dal GDPR (Regolamento Ue n. 2016/679), migri da un applicativo/sistema ad un altro.
Alcune ipotesi di integrazione o di trattamento di dati da cui ricavare una più corretta profilatura del cliente vengono persino suggerite dal legislatore comunitario. Emblematica è la novità introdotta dalla PSD2 (i.e Payment Service Directive 2 o Direttiva 2015/2366/UE) in funzione della quale si permette, per gli utenti che utilizzano un conto corrente online, la possibilità di effettuare pagamenti o accedere alla rendicontazione bancaria attraverso software realizzati da terze parti autorizzate (Third Party Provider o TPP). Tale apertura verso il mercato permetterà, sfruttando le interfacce di accesso ai conti correnti che le banche dovranno rendere disponibili, di sviluppare nuovi servizi ai clienti anche grazie all’integrazione e alla cooperazione con altri attori dell’ecosistema [ PWC Report, (2016), J. Sandrock e A. Firnges, «Catalyst or threat? The strategic implications of PSD2 for Europe’s banks»].
Non sembra pertanto peregrino immaginare un’integrazione tra servizi di robo-advisor e servizi di pagamento. Dalla tipologia delle spese effettuate da un cliente tramite servizi di pagamento o applicativi di TPP possono infatti derivarsi informazioni di immenso valore per il robo-advisor. Si potrebbero ad esempio comprendere le necessità di spesa mensile ovvero, analizzare su di un piano comportamentale altri dati più “intimi” quali ad esempio l’attitudine all’acquisto di beni o servizi.
Oggi può sembrare fantascienza ma non deve stupirsi se in futuro la valutazione circa la propensione al rischio di un investitore la si ricavi dalle preferenze dei film o degli altri contenuti multimediali scelti su piattaforme di entertainment quali Netflix. Alcuni autori, estremizzando tali possibilità, ritengono che una “gamification” (i.e. un approccio ludico di tipo esperienziale alla finanza) possa addirittura sostituire il predetto questionario KYC [P. Sironi, «FinTech Innovation. From Robo-Advisors to Goal Based Investing and Gamification», Chichester , 2016, p. 138].
Scopo del presente articolo non è quello di prevedere tutte le possibili future applicazioni delle nuove tecnologie al mondo della finanza; sarebbe francamente un’impresa improba e dai risultati assai incerti.
Quello che invece si vuole qui ribadire è che le nuove tecnologie non rispettano i perimetri dogmatici teorizzati su fattispecie giuridiche astratte più semplici e meno sfuggenti rispetto a quelle concrete in cui tali tecnologie si estrinsecano. Mi spiego meglio. Nella mente del legislatore della prima direttiva MiFID, e in parte anche nel legislatore della seconda, il servizio di consulenza finanziaria non palesava tutte le implicazioni che oggi pone il fenomeno tout court del robo-advicing.
In conclusione, una nuova ermeneutica giuridica dei servizi di robo-advice, e della fenomenologia del FinTech tutta, non può più prescindere dalle immediate possibili integrazioni o prevaricazioni normative a cui tali nuove modalità di prestazione del servizio possono dar luogo. Tale rinnovato approccio dovrebbe poter consentire di seguire l’evoluzione tecnologica ogni qualvolta sconfina in terreni giuridicamente ultronei rispetto a quelli da quale origina.