Consob
Risparmio e investimenti: come si comportano gli italiani
Paola Pilati

Cultura finanziaria? No grazie. A un anno di distanza dal Rapporto Consob che aveva messo il dito sulla piaga della profonda ignoranza degli italiani nel maneggiare i propri risparmi, ecco che nel Rapporto 2018 sugli investimenti finanziari delle famiglie italiane redatto dalla Commissione che vigila sui mercati (http://www.consob.it) compare un aspetto ancora più preoccupante: sono i costrutti psicologici degli italiani a giocare contro la possibilità di un miglioramento. Scavando nella relazione tra comportamenti e intenzioni, il Rapporto indaga per la prima volta su cosa muove i risparmiatori in relazione a due comportamenti, e cioè l’approfondimento delle proprie conoscenze in materia, e il controllo delle spese familiari. Nel primo caso solo il 20 per cento, cioè uno su cinque, pensa che sapere di più possa aiutare, e solo il 25 per cento manifesta una disponibilità a studiare ed apprendere (la maggior parte sono donne, meno disposti gli overconfident e gli ansiosi); sul secondo fronte, quello del monitoraggio del bilancio familiare, l’atteggiamento comportamentale è quello di dare scarsa importanza alla cosa nel 40 per cento dei casi.

 

Se si dovesse stimare il successo della campagna nazionale per l’educazione finanziaria partita proprio un anno fa sulla base di questi risultati, sarebbero legittime alcune perplessità. Ma probabilmente il gap da colmare è talmente ampio che non si può fare altro che fotografare la situazione via via che le iniziative dispiegate abbiano effetto.

 

Cosa che fa appunto il Rapporto curato da Nadia Linciano e il suo team, attraverso un survey su un campione di 1.601 individui rappresentativi di quella parte di popolazione italiana che prende decisioni finanziarie. La novità di quest’anno, oltre all’approfondimento basato sulla Theory of planned behavior di cui si è detto, c’è una cura maggiore nel segmentare il campione in relazione alle risposte date, che mette in evidenza come i diversi gruppi sociali (singoli, famiglie con figli o senza, pensionati, residenti al Nord o al Sud, con educazione modesta o superiore) si muovano su investimenti e risparmi su fronti differenti.

 

Ma partiamo delle note positive. Il gap che vedeva l’Italia molto indietro rispetto al resto d’Europa quanto a inclusione finanziaria si è molto colmato: dal 2011 al 2017 è passata dal 70 al 90 per cento la quota di quelli che hanno un conto corrente, e si sono attenuate le differenze di genere, età, e occupazione (ma non quella dell’educazione). Molto ampio resta, invece, il gap tra noi e il resto d’Europa quanto a uso dell’Internet per i servizi bancari e di pagamento. Le famiglie rappresentate nei loro atteggiamenti di fondo si dipingono ottimiste, abbastanza fiduciose del prossimo, capaci di superare le difficoltà e persino disponibili ad affrontare temi sfidanti come quelli delle conoscneze finanziarie.

 

Eppure in pochi potrebbero dire, come Socrate, “so di non sapere”. Il 50 per cento degli intervistati si mostra assai confuso su concetti base come rischio /rendimento o interesse composto, e quel che è peggio spesso si tratta di persone che ritenevano di esserne perfettamente al corrente. Insomma, il disallineamento tra pensare di sapere e sapere davvero è molto ampio. Un atteggiamento che espone al rischio di non valutare correttamente dove si mette il proprio denaro, come dimostra il fatto che il 50 per cento non stima correttamente il livello di rischio dei prodotti finanziari più semplici, tanto che la forma più diffusa di investimento è il conto in banca o alla posta.

 

D’altra parte la percezione soggettiva di self control delle proprie finanze si sgretola di fronte alla domanda: “hai mai fatto una pianificazione finanziaria?”, dove oltre il 60 per cento risponde “mai”, perché la maggioranza non sa a che cosa serve, e riesce a riparmiare regolarmente solo il 39 per cento.

 

L’aspetto più preoccupante è che questo popolo di risparmiatori è completamente nelle mani delle banche: il 70 per cento degli investitori pensano che chi li consiglia lo faccia nel loro interesse, il 40 non monitora l’andamento dei propri risparmi, il 60 non sa come sono andati l’anno precedente, solo il 20 per cento viene contattato dal suo consulente se il mercato ha un rovescio, e il 30 per cento non ha mai avuto contatti con la banca da almeno un anno. Insomma, una volta messo il tesoretto, grande o piccolo che sia, nel circuito del credito, il risparmitore che non si fa avanti ed è proattivo ne viene di fatto espropriato. Situazione che combacia perfettamente con l’idea, espressa dal 50 per cento degli intervistati, che il consulente della banca non debba essere pagato. In questo caso, perché aspettarsi che ti chiami? Peccato che invece il consulente viene pagato, eccome.

 

Finanza, non è un paese di esperti