Osservatorio Banche
Rischio sovrano: problema superato o rimosso?

Ciclicamente le banche italiane sono al centro dei riflettori per l’ampiezza del loro portafoglio in titoli di Stato domestici. Un portafoglio che, di fatto, costituisce un'alternativa all'attività di finanziamento. Ecco le cifre e il confronto con gli altri paesi

 

Silvano Carletti
Carletti

I consuntivi annuali sono sempre occasione per analizzare in profondità  le scelte gestionali e il profilo strutturale delle banche. Tra i numerosi argomenti meritevoli di approfondimento figura certamente l’esposizione al rischio sovrano. Per più ragioni: perché il cambio di passo della politica monetaria attuato dalla Bce nell’ultimo biennio ha importanti ripercussioni sul mercato dei titoli pubblici, sia sul lato dell’offerta che su quello della domanda; perché si tratta di una posta di bilancio quantitativamente importante; perché questo investimento assume nel nostro Paese rilievi peculiari. Nell’insieme, combinando indicazioni positive e negative, non si ha la percezione di forti tensioni ma la questione sotto più profili avrebbe bisogno di riconsiderazione.

Secondo le statistiche della Banca d’Italia, a novembre 2023 le banche italiane (compresa Cassa Depositi e Prestiti) avevano in portafoglio 353 mld di titoli pubblici italiani, il 10% (36 mld) e il 15% (61 mld) in meno rispetto a un anno e a due anni prima; per il 70% titoli a tasso fisso (BTP) e per il resto a breve termine o a tasso variabile (CCT).

Per avere una visione completa dell’esposizione al rischio sovrano bisogna considerare anche l’investimento in titoli pubblici emessi da altri paesi. L’accesso ai dati raccolti dall’Eba fornisce dettagli su questa esposizione per ciascuno dei paesi Ue, consentendo confronti sotto numerose prospettive. I dati comunicati dall’Eba fanno riferimento alle sole banche significative (quelle cioè vigilate direttamente dalla Bce), un insieme che in termini di attivo pesa per circa l’80% del circuito bancario europeo, quota cui è relativamente vicina l’Italia ma da cui si discostano Francia (molto più alta) e Germania (significativamente inferiore).

La prima indicazione che si ricava dai dati Eba è che per le banche italiane il portafoglio di titoli governativi ha un rilievo decisamente maggiore rispetto al resto dei paesi Ue. A giugno 2023, infatti, questo portafoglio era superiore al 18% dell’attivo totale a fronte del 12% per l’intera Ue, del solo 10% di Germania e Paesi Bassi, del 12% della Francia e del 14% della Spagna.

Dai consuntivi 2023 dei maggiori gruppi italiani si rileva un dato relativamente vicino al dato medio europeo per UniCredit (13,3%) o significativamente al di sotto per Intesa (9,2%); il dato proposto da Bpm (15%) e Bper (19%) è invece decisamente più alto. Per Intesa, molto impegnata sul versante assicurativo, è però necessaria una precisazione: se al portafoglio riferibile alla gestione bancaria (quello qui considerato) si aggiunge quello relativo all’attività assicurativa, l’investimento in titoli di stato sale da 89 a 145 mld (15% dell’attivo totale). Si tratta però di due portafogli ben distinti, come evidenziato anche dal fatto che la quota di titoli italiani è 25% nel primo caso, 86% nel secondo.

Per quanto riguarda la diversificazione geografica, l’Eba propone questa tripartizione: paese di residenza, altri paesi Ue, Resto del Mondo. Per l’insieme della Ue la prima opzione assorbe metà del portafoglio, le altre due 27% e 24%, rispettivamente. Una seconda indicazione di cui prendere atto è quindi che, valutata in modo non nominale, la diversificazione geografica di questo portafoglio è complessivamente modesta.

Sulle quote sopra indicate pesano fattori congiunturali e strutturali. Tra i primi, ovviamente, il rendimento che il mercato richiede per i titoli governativi di ogni paese. Non stupisce quindi che la quota investita in titoli nazionali da parte delle banche tedesche o olandesi si fermi al 40% mentre salga al 50-57% nella parallela situazione delle banche spagnole, francesi e italiane (57%). A giugno 2023 i titoli italiani rappresentavano in media un quinto del totale dei titoli di altri paesi Ue nei portafogli delle banche tedesche, francesi e spagnole.

Anche altri fattori, tuttavia, giocano un ruolo importante, a cominciare dalla struttura dimensionale del sistema bancario. Infatti, è evidente che il perseguimento di una strategia di diversificazione richiede strutture che al di sotto di una certa dimensione del portafoglio è difficile giustificare, con la conseguenza che ci si concentra sui titoli governativi domestici. C’è poi da considerare il profilo complessivo di alcuni grandi gruppi: ad esempio, elemento distintivo dei due maggiori gruppi spagnoli è la consolidata proiezione verso i paesi dell’America Latina e dei Caraibi, fattore che influenza anche l’investimento in titoli governativi.

I consuntivi 2023 indicano per le 4 maggiori banche italiane una quota investita in titoli domestici (33%) ben inferiore al dato segnalato dalle statistiche Eba e parallelamente un investimento in titoli governativi emessi da altri paesi Ue ampiamente maggiore (51%), con il resto assorbito soprattutto dagli Stati Uniti (8%).

Trattandosi di titoli di stato, l’investimento non comporta per le banche assorbimento di capitale. Come ogni altro investitore, la banca lo può intraprendere per il rendimento e/o per conseguire un guadagno in conto capitale attraverso attività di trading.

Se l’obiettivo è solo il flusso cedolare, allora l’investimento sarà contabilmente indicato al costo ammortizzato, nell’altro caso invece al valore di mercato (fair value). Le variazioni di valore dei titoli di debito valutati al costo ammortizzato non determinano un effetto diretto sulla redditività o sul patrimonio delle banche. Le eventuali minusvalenze (unrealized losses) si materializzano solo nell’ipotesi in cui l’intermediario si trovi nella condizione di dover vendere lo strumento prima della sua naturale scadenza, ad esempio per soddisfare improvvise esigenze di liquidità.

La Banca d’Italia segnala che, ad una recente verifica, le minusvalenze sul portafoglio ammortizzato di titoli italiani ammontavano a circa il 2% per cento delle attività ponderate per il rischio e facevano capo a banche con livelli di liquidità ampiamente superiori ai minimi regolamentari e quindi con contenute probabilità di trovarsi nella condizione di dover liquidare l’investimento.

Considerando i soli titoli pubblici italiani, a settembre 2023 quelli valutati al costo ammortizzato erano pari al 71% circa, con una limitata differenza tra banche significative (70,6%) e non significative (73,3%). Come spesso accade, le medie di sistema sintetizzano situazioni molto diverse: Intesa è al 72%, Bpm e Bper all’80%, UniCredit solo al 50%.

Le statistiche dell’Eba indicano per l’Italia il 67% non solo perché considerano le sole banche significative ma anche perché fanno riferimento all’intero portafoglio (per i titoli non domestici la quota al costo ammortizzato è generalmente più bassa). Il dato dell’Italia è allineato a quello della Spagna e significativamente superiore a quello medio della Ue (60% a giugno 2023), ma anche di Francia (63%), Germania (41%) e Paesi Bassi (40%).

Un ultimo dato dalle statistiche Eba: la quota dei titoli a più lunga scadenza (10 o più anni) è pari al 32% per le banche tedesche, al 31% per quelle olandesi, al 26% per le francesi, solo al 16% per le italiane e al 13% per le spagnole, una differenziazione su cui pesa molto la struttura dei rendimenti.

Dopo questa (non esaustiva) esposizione di dati, sorge spontanea una osservazione. È ragionevole che una banca detenga una parte del suo attivo in attività risk free. È altrettanto evidente che, essendo circa 2/3 di questo investimento contabilizzato al costo ammortizzato, esso non è la soluzione per improvvise esigenze di liquidità. D’altra parte, la scelta di questa modalità di contabilizzazione consente di isolare una parte significativa di questo portafoglio dalle alterne vicende del mercato internazionale dei titoli di stato.

Di fatto questo portafoglio costituisce per le banche un’alternativa all’attività di finanziamento (18% dell’attivo nel caso italiano).

Dalla crisi finanziaria del 2010-12 in poi, l’esposizione al rischio sovrano è argomento periodicamente al centro dell’attenzione delle autorità, degli investitori e dell’accademia. Argomento decisamente intricato che si presta a letture molto diverse con divergenze più ampie quando ci si concentra sull’home bias, cioè sul peso dei titoli pubblici domestici. Le divergenze cominciano su come l’home bias debba essere misurata, essendo numerosi i criteri possibili e diversi gli esiti della valutazione.

Secondo una parte degli osservatori, si dovrebbe scoraggiare un rilevante investimento delle banche in titoli pubblici nazionali perché durante le fasi di instabilità finanziaria si può determinare un’interazione perversa (doom loop) tra rischio bancario e rischio sovrano, con ricadute sfavorevoli sulla stabilità finanziaria del paese coinvolto.

Se sull’esistenza di questo legame ci sono poche obiezioni, c’è però chi fa rilevare che una significativa presenza di banche tra gli investitori in titoli di stato domestici svolge un ruolo stabilizzante, contrastando possibili dinamiche speculative e rischi di panic selling. Inoltre, come osservato, la contabilizzazione al costo ammortizzato consente di isolare le banche dal rischio sovrano.

Alcuni anni fa, alcuni paesi sollecitarono una revisione del trattamento prudenziale delle esposizioni delle banche verso i debitori sovrani. Dopo aver esaminato a lungo il problema, il Comitato di Basilea decise (fine 2017) di respingere gli interventi di riforma ipotizzati, che in particolare puntavano all’eliminazione della ponderazione zero e/o ad una limitazione di queste esposizioni. Intervenire sulle regole che governano un settore la cui dimensione si misura in trilioni è operazione sempre molto delicata e rischiosa. Le vicende successive (soprattutto la forte e diffusa crescita dell’indebitamento pubblico conseguenza della pandemia) hanno lasciato poco spazio ad una ripresa di questo dibattito.