Ripensiamo ma non distruggiamo il "bail in"
Giuseppe G. Santorsola
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Una sentenza del Tribunale europeo ha riproposto attenzione verso i criteri che debbono regolare il governo delle crisi bancarie. In linea di diritto, in realtà, la sentenza dirime un caso specifico relativo alla qualificazione dell’”aiuto di Stato”. Ancor più limitatamente, si trattava di valutare se un Fondo Interbancario avesse configurazione riconducibile a tale fattispecie, quando lo stesso è di fatto finanziato dalle banche aderenti, rappresentando una formula assimilabile ad una polizza assicurativa. In altri casi, oggetto di valutazione giuridica a livello comunitario, si è discusso sul ruolo ponte (“bridge”) dello Stato (o di una sua entità quale la Cassa depositi e prestiti) quale finanziatore, con partecipazione diretta o mediante trasformazione in azioni di prestiti, nelle fasi di recupero dell’economicità di banche in difficoltà (Tremonti Bond, Monti Bond, oppure l’intervento nel capitale di Monte dei Paschi di Siena).

L’attenzione suscitata dal provvedimento è stata peraltro molto ampia e si spiega con le incertezze legate alle modalità più opportune utilizzabili in caso di crisi bancarie, fattispecie non più solo saltuaria negli ultimi anni. Nel titolo ho volutamente inserito un errore, utilizzando il termine bail-in in luogo dell’acronimo più corretto BRRD, la direttiva che contiene, nel suo articolato, anche la previsione di tale soluzione. Il cuore del problema risiede nelle due R (recovery e resolution) che disegnano il percorso della direttiva per delineare i nuovi poteri assegnato agli organi di controllo e vigilanza sul sistema. Recovery individua la nuova potestà di intervento presso intermediari percepiti in difficoltà anche se con coefficienti, parametri e requisiti ancora sopra le soglie, richiedendo ad amministratori, revisori e management l’assunzione di provvedimenti concordati/suggeriti dall’Autorità. L’assenza di tale potere nelle normative di crisis management precedenti consentì di rigettare ipotesi di modifica di strategie e piani ritenuti troppo rischiosi, in ossequio al principio civilistico per il quale gli organi rispondono agli azionisti fino a quando non intervengano fattispecie regolate espressamente dalla Legge.

La seconda R, resolution, delinea il potere (già presente nella normativa italiana antecedente) di sostituire gli organi, commissariare la banca e gestirla verso le possibili “soluzioni”, in caso di mancata esecuzione delle ipotesi di ricovero o di loro insufficiente esito rispetto alle condizioni patrimoniale, economica e finanziaria di stabilità. Nell’ambito di questa fase, fu introdotto il concetto di bail-in, un’operazione nautica (sgottare nel linguaggio marino anglosassone) con la quale si ripulisce un natante secondo una sequenza nelle scelte, che segue principi ritenuti prioritari. Nel caso bancario, si annullano progressivamente il patrimonio (che è puro rischio), le passività subordinate (che prevedono l’ipotesi del rischio di non rimborso) e, qualora ancora insufficiente, le obbligazioni dalle junior alle senior, e i depositi con saldo superiore a 100.000€. L’elencazione è necessariamente ampia e sequenziale, ma – risultando momento successivo a recovery e resolution ordinate – sarebbe testimonianza di errati o ritardati interventi di vigilanza, qualora si dovesse arrivare ad incidere su obbligazioni e depositi. Sottolineo la personale scelta di chiamare passività subordinate e non obbligazioni subordinate i valori mobiliari di quel tipo, nella convinzione che quest’ultima denominazione sia decettiva per il mercato, soprattutto nelle componenti meno educate all’investimento. 

In merito all’applicazione e alle polemiche connesse, è utile precisare che, nel novembre 2015, Governo suggerì e Parlamento approvò un’applicazione anticipata di una direttiva non ancora in vigore su banche già fortemente compromesse, commissariate secondo la normativa allora in vigore, e da tempo bloccate nella gestione non corrente, proprio in ragione della fase di transizione in essere. Non era possibile il recovery; la resolution era diversamente regolata e già da tempo in essere e fu scelta direttamente la soluzione del bail-in. Non valuto quanto successivamente accaduto con il subentro di altri intermediari nelle “nuove banche” perché fuori tema. Possiamo definirla una soluzione d’urgenza, non ottimale, per alcuni pasticciata e foriera di procedimenti civili e penali di lungo corso. Augurabilmente irripetibile!

Con l’introduzione della BRRD sono intervenute due ulteriori situazioni di crisi: quella delle due banche popolari venete e quella delle tre Casse di Risparmio tosco-emiliane-romagnole. La prima era peraltro manifesta in tempi antecedenti e la relativa fase di recovery – indipendentemente da ipotesi di presenza di reati – non è stata assecondata dal management e dagli organi sociali. La procedura di bail in si è comunque fermata al livello del debito subordinato, senza intaccare i diritti giuridici di altre passività della banca. La seconda fattispecie riproduce invece i criteri più prossimi allo spirito della BRRD, con un management disponibile alla ricerca di soluzioni e con una resolution che ha accompagnato le tre banche verso l’incorporazione nell’acquirente. La prima ha generato panico, la seconda lo ha evitato.

A titolo dimostrativo ricordo che i brand delle due banche venete non è più utilizzato sul mercato (salvo rare eccezioni locali), mentre quelli delle 3 Casse sono ancora parzialmente presenti, soprattutto nelle aree caratteristiche; una dimostrazione, non scientifica ma razionale, del diverso impatto del rischio reputazionale nell’applicazione della citata BRRD.  

Le situazioni di difficoltà di altre banche, attualmente in itinere, sono ancor più in linea con la BRRD e non impattano negativamente al momento sulla fiducia degli stakeholders. Gli aspetti negativi risalgono peraltro alla lentezza con la quali le soluzioni sono rinvenibili. I mercati penalizzano operatori che rimangono instabili per periodi lunghi e, di fatto, le statistiche dimostrano che quasi mai una banca in difficoltà è riuscita a tornare in condizioni di efficienza senza aiuti esterni, cambiamenti nella compagine azionaria ed inevitabili incorporazioni a termine.

È necessario anche rivedere a monte alcuni aspetti della BRRD: l’aiuto di Stato esiste anche (ed esplicito) nel testo attuale, quale ultima soluzione in assenza di alternative. Non è chiaro peraltro, negli ultimi 20 anni, che cosa sia un aiuto di Stato; ogni Paese lo ha gestito in modi e tempi diversi, rinnegando soluzioni proprie quando proposte da altri Paesi. La soluzione preeesistente (comunemente definita Decreto Sindona perché attivato il 26.9.73 in occasione della crisi della Banca Privata Italiana), da molti ritenuta ancora valida, si prospetta invero debole perché scarica sulle altre banche l’onere dei dissesti e non gode più del beneficio del sussidio della Banca d’Italia (che finanziava all’1%) in quanto quel tasso oggi è alto rispetto a quelli del mercato. Un onere improprio per le banche sane che le ha, di fatto, indebolite.

In realtà, dovremmo operare per evitare che situazioni di difficoltà si sviluppino, intercettandole appena possibile; una sorta di vigilanza “preventiva” più che “prudenziale”. L’area critica della BBRD, affinché abbia successo, è la fase di recovery, l’unica in grado di ottenere risultati win-win per la maggior parte dei soggetti coinvolti. I contenuti della vigilanza devono peraltro accantonare i profili più burocratico-formali ed accentuare (come in taluni profili già accade) i contenuti tecnico-finanziari funzionali alla solidità e alla liquidità più che alla solvibilità. Un tema quest’ultimo che – come antichi maestri ci insegnarono – non dovrebbe essere neanche preso in considerazione nella prassi operativa, perché un difetto nella sua manifestazione rappresenta uno stadio pressoché terminale del rapporto fiduciario. La banca è come un cavallo: se si azzoppa, viene abbattuto perché non può più stare in piedi!

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