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Ripensare Basilea IV

Le dimissioni del rappresentate Usa confermano la clamorosa battuta d’arresto su Basilea IV. La nuova proposta per la determinazione dei requisiti patrimoniali a fronte dei rischi di credito è un tentativo molto importante per omogeneizzare e rendere più trasparenti i sistemi di rating; tuttavia non è priva di rischi e controindicazioni e rischia di imporre requisiti patrimoniali non facilmente compatibili con gli obiettivi di ripresa economica e finanziamento delle imprese. Pur non negando l’assoluta importanza di misurare i rischi, le distorsioni che possono derivare da un ulteriore incremento dei requisiti patrimoniali attraverso le modifiche proposte al sistema dei rating interni potrebbero superare i vantaggi attesi.

Giovanni Parrillo
Parrillo

1. Introduzione

Oggi la credibilità dei sistemi di rating è sottoposta ad una vera sfida e Basilea IV è un tentativo molto importate per omogeneizzare e rendere trasparente questi strumenti. Si tratta tuttavia di una proposta non priva di rischi e controindicazioni.

La pubblicazione nei “Quaderni di Minerva Bancaria” del saggio di Simone Casellina e Giuseppe Pandolfo “La probabilità (di default) non esiste” e il dibattito che ne è seguito alla presentazione ha rappresentato un momento di riflessione importante (1). “La probabilità è guida nel pensare e nell’agire in condizioni di incertezza e negli ambienti bancari – con Basilea 2 – ha acquisito un rango istituzionale: la probabilità (di default) dimensiona il capitale della banca, pesa sulla redditività, determina la convenienza del business, incide sul posizionamento di mercato e sul credito all’economia. A una progressiva raffinatezza dell’armamentario analitico per la sua valutazione numerica non è però corrisposta un’eguale attenzione ai principî primi, alle questioni di fondamento della probabilità”. È dunque necessario alzare la testa dalle “regole e regolette”, riflettere meglio sul fondamento delle cose e sulle distorsioni create dall’assioma che, misurando meglio i rischi, i sistemi di rating siano la migliore misura del capitale regolamentare.

2. Requisiti patrimoniali e redditività delle banche

Il momento, notoriamente, non è favorevole per il settore bancario. Esso risente della modesta crescita economica; dei tassi di interesse negativi, che riducono il margine di interesse; di diffusi fenomeni di disintermediazione bancaria e di contemporanea crescita dello shadow banking. A questo scenario si aggiungono per l’Italia tre appuntamenti tuttora mancati: la soluzione del problema delle sofferenze; la ristrutturazione della rete di sportelli; la sfida del digitale.

Siamo in presenza di una crisi strutturale di redditività che va avanti da quasi 10 anni. Secondo la Financial Stability Review ECB (novembre 2016), a metà dello scorso anno il Cost of Equity era al 10% mentre il Return on Equity si collocava al 5% e l’inversione fra i due tassi va avanti dal 2008.

A questa situazione non è estranea la regolamentazione. Oliver & Wyman, considerando le prime 89 banche europee, che a loro volta rappresentano l’85% del totale degli attivi dell’area euro, ha stimato che la redditività fra il 2006 e il 2014 è calata dal 20 al 3 -5 per cento e che su questo calo l’effetto del “Regulatory Drag”, ovvero la riduzione di redditività indotta dal progressivo innalzamento dei requisiti patrimoniali, ha pesato e peserà per circa la meta.

I maggiori gruppi europei presentano agli investitori previsioni di ROE superiori al 10 % per i prossimi anni a fronte di una redditività attuale del 5%. La sfida sembra davvero ambiziosa e pone alcune domande:

  • come si conciliano queste previsioni di redditività con uno scenario complesso e che richiede alle banche sempre più capitale?
  • come si può affrontare una nuova riforma che – secondo stime, seppure di parte, della Federazione Bancaria Europea – potrebbe determinare un amento dei requisiti patrimoniali sui rischi di credito di oltre il 50%?
  • che ruolo giocano le misure di rischio nel recupero della redditività del capitale?

Non c’è qui la pretesa di una risposta esaustiva. Tuttavia una breve riflessione su una misura cardine per la redditività delle banche – la perdita in caso di default, la Loss Given Default (LGD) di Basilea – potrà chiarire i diversi effetti che essa può avere su capitalizzazione e redditività.

La recente esperienza italiana ha visto le sofferenze delle “quattro banche” in crisi valutate poco sopra il 22% del valore lordo di libro(2). Volendo definire il fenomeno con le misure di rischio di Basilea, è stata realizzata una LGD del 78%. Ovviamente questa è frutto di valutazioni pragmatiche, applicate con l’accetta a stati di crisi profonda e in presenza di un mercato particolarmente sottile per i crediti non performing; ma sono pur sempre prezzi che sottintendono stime di recupero, anche se molto inferiori alle previsioni dei modelli di LGD. Modelli che influiscono sulle valutazioni di bilancio delle sofferenze, “coerenti e realistiche”, come ha mostrato un recente studio, pubblicato nelle Note di stabilità finanziaria e di vigilanza(3). In effetti, tali analisi rilevano che i recuperi conseguiti sulle posizioni chiuse in via ordinaria sono significativamente superiori a quelli registrati sulle posizioni cedute.

Come considerare allora le stime faticosamente calcolate con i modelli interni e soggette a loro volta a costose procedure di controllo interno? Meritoriamente la Banca d’Italia si è posta il problema e propone varie ipotesi di soluzione. L’idea di fondo è quella di trattare con specifiche cautele i risultati di queste cessioni che, se aggiunti sic et simpliciter ai calcoli dei modelli di LGD in uso, provocherebbero un ulteriore, marcato rialzo dei requisiti patrimoniali, non compatibile con la ricerca di soluzioni per l’uscita dalla crisi che proprio queste cessioni vogliono risolvere.

Ecco un esempio di come le migliori intenzioni (la migliore stima delle misure di rischio) possono produrre effetti indesiderati e negativi.

3. I modelli interni visti da vicino.

Ovviamente nessuno vuole buttare via il bambino con l’acqua sporca. I modelli interni sono uno strumento di misurazione e gestione dei rischi sempre più importante.

Tuttavia, se si va nella cucina dove si preparavano i modelli di rating e poi ai controlli “sanitari” sulla cucina e sul prodotto, cioè nella revisione interna dei sistemi di rating, c’è da stare in guardia contro un eccessivo utilizzo nella ricetta del rating della cosiddetta componente andamentale, cioè della storia creditizia del cliente.

In pratica, grazie alla eccezionale copertura informativa offerta dalla Centrale dei Rischi, la prima e la più completa fra quelle europee, le previsioni sul comportamento creditizio del cliente, nei modelli statistici, hanno un potere esplicativo sistematicamente più potente dei dati di bilancio e delle informazioni qualitative nel prevedere i default.

Ma bisogna chiedersi quante volte questi indicatori non siano stati la causa stessa dei default.

Un fido teso, uno sconfinamento, statisticamente, sono ottimi segnali premonitori di un default, molto più potenti di indicatori di bilancio, vecchi e “opachi” per definizione o di informazioni qualitative il cui trattamento rimane complesso.

Avviene allora che – con molto pepe andamentale – il sapore predominante della pietanza divenga il piccante, che copre quello del bilancio e delle valutazioni qualitative e settoriali. Alle prime tensioni finanziarie, il rating peggiora; le strategie prudenziali delle banche impongono, spesso in modo meccanicistico, di ridurre o frenare questi affidamenti; la riduzione dei fidi fa peggiorare ulteriormente gli indicatori creditizi andamentali; facilita l’ingresso in past due che dopo 90 giorni diviene un default.

A quanto si rinuncia, in questo modo, del vantaggio sulle asimmetrie informative proprio delle banche?

Come si risolve il problema della prociclicità? I tentativi per evitarne gli eccessi nell’utilizzo delle misure di rischio sono stati numerosi, così come i richiami alla necessità di calibrazioni di lungo periodo. Ma, alla luce dei fatti, molti dei rimedi si sono rivelati ottimistici.

4. Quale futuro per i modelli interni ?

Con Basilea IV le autorità di vigilanza hanno preso atto di alcune difficoltà, ambiguità e criticità determinate dall’utilizzo dei modelli interni; soprattutto dei problemi di comparabilità del rating fra banche diverse. Potremmo anche definirli problemi di “soggettività”, come quelli spiegati con grande semplicità e competenza nel Quaderno “La probabilità (di default) non esiste”.

La proposta di Basilea IV è stata a lungo dibattuta. La prevista introduzione di due pavimenti (input e output floors) basati sui metodi standardizzati limiterebbe fortemente i benefici dei rating interniper calcolare l’assorbimento patrimoniale dei crediti alle imprese. La proposta è animata dalla migliori intenzioni poiché mira a superare decisamente il problema della comparabilità dei rating e a intervenire sugli effetti negativi del circolo fra rischiosità e fabbisogno patrimoniale, Un circolo che si sperava virtuoso, ma che si è ritorto invece contro le buone intenzioni dei suoi ideatori.

Oggi la proposta di Basilea IV sembra in fase di stallo poiché si è capito che impone oneri patrimoniali aggiuntivi molto rilevanti e soprattutto perché rischia di allargare ulteriormente le differenze di trattamento prudenziale fra le banche europee e quelle USA.

Abbiamo dunque una iper-regolamentazione, ovvero una regolamentazione che scende sempre più nel dettaglio. Si tratta forse di un formalismo eccessivo, che a sua volta funge da alibi alle responsabilità di tutti: di chi concede il credito, di chi controlla all’interno della banca, delle stesse autorità di vigilanza. D’altra parte bisogna riconoscere che tale formalismo è anche l’inevitabile conseguenza di quell’attività di ricerca “del buco nella rete” normativa che ha caratterizzato e continua caratterizzare gran parte del circuito bancario-finanziario. Si pensi solo alle cosiddette attività di ottimizzazione degli RWA.

Non si può sottacere poi una certa contraddizione nei comportamenti delle autorità monetarie e di vigilanza. Dal un lato abbiamo infatti la BCE e ancora prima la Fed che hanno adottato una politica monetaria espansiva, per evitare, giustamente, di ripetere gli errori della crisi del’29. Dall’altro le autorità di vigilanza internazionali impongono alle banche regole di capitalizzazione che divengono pro-cicliche e che ostacolano la crescita delle impresa e, in definitiva, l’uscita dalla crisi economica.

La regolamentazione USA seguita alle due crisi: quella degli anni trenta con il Glass Steagall Act, quella della prima decade di questo millennio, con il Dodd Frank Act – ha invece perseguito la realizzazioni di condizioni morfologiche del sistema bancario atte ad evitare o a limitare sul nascere conflitti di interesse e l’esplosione del rischio, in sintesi separando le attività di banca d’investimento da quelle di banca commerciale. È da sperare che il Dodd Franck Act non venga smantellato dalla nuova Amministrazione statunitense e che l’Unione Europea si dedichi a completare le proposte di riforma avanzate, piuttosto che a mettere nuovi requisiti patrimoniali sul credito ordinario.

La stabilità dovrebbe essere una conseguenza della crescita, non del patrimonio della banca. Nessuno disconosce l’importanza del capitale proprio, ma non è questo che garantisce la stabilità di fondo, occorre anche valutare i criteri di sana e prudente gestione, individuare i rischi strategici; serve una vigilanza che sia coraggiosamente anche micro-prudenziale. Nel rapporto con l’impresa, “è fondamentale poi che le banche non si limitino all’analisi quantitativa e andamentale nell’istruttoria di fido ma investano nell’analisi qualitativa delle imprese, poiché questo è il reale strumento anticiclico nelle mani delle banche(4).

In definitiva, “Non solo capitali e limiti, ma anche divieti operativi che non consentano l’assunzione di rischi oltre livelli che non siano ragionevolmente sostenibili per le singole banche, per il sistema finanziario e per il sistema economico(5).

Nel ripensare il sistema di regolazione delle banche, la mente corre poi ai derivati, “agli asset di livello 3”, e alla insufficiente valutazione che se ne fa oggi. L’Unione Europea è stata richiamata di recente ad una più incisiva azione anche dal Parlamento Europeo, ma questo sarebbe un altro discorso.

Va infine ricordato che in questo momento i lavori del Comitato di Basilea sono sottoposti a pressioni da due lati: c’è chi alza le barricate contro nuovi incrementi dei requisiti di capitale e chi contesta l’introduzione dei floors nelle misure di rischio, perché depotenzierebbero gli sforzi fatti negli anni dall’industria e dal regolatore per rendere i modelli più raffinati e più omogeneo il loro utilizzo(6).

Conclusivamente, pur non negando l’assoluta importanza di misurare i rischi, dobbiamo prendere atto che le distorsioni che possono derivare da un ulteriore incremento dei requisiti patrimoniali attraverso le modifiche proposte al sistema dei rating interni potrebbero superare i vantaggi. Sarebbe invece auspicabile una semplificazione più decisa delle regole di Basilea ai fini del calcolo dei requisiti patrimoniali. La vigilanza micro-prudenziale andrebbe ulteriormente rivalutata: essa dovrebbe continuare a incoraggiare l’utilizzo dei modelli interni ai fini di una sana e prudente gestione, ma dovrebbe evitare, per dirla con Dante, di trarre, come l’imperatore Giustiniano, “dalle leggi il troppo e il vano”.

(1)  Valutazione della probabilità di default e Arte del banchiere. Presentazione del Quaderno di Minerva Bancaria, La probabilità (di default) non esiste di Simone Casellina e Giuseppe Pandolfo. BANCO BPM, Roma, 28 marzo 2017. Sono intervenuti nell’ordine: Sergio Marullo di Condojanni, Giovanni Parrillo, Fulvia de Finetti, Simone Casellina, Giuseppe Pandolfo, Rainer S. Masera, Alessandro Carretta, Antonio Forte, Giuseppe Zito.

(2) Le ultime valutazioni del valore di cessione condotte da esperti indipendenti hanno indicato una valutazione pari al 22,3% del GBV. Cfr. F. Ciocchetta, F. M. Conti, R. De Luca, I. Guida, A. Rendina, G. Santini, I tassi di recupero delle sofferenze, in Note di stabilità finanziaria e vigilanza, n. 7, 2017.

(3) F. Ciocchetta, F. M. Conti, R. De Luca, I. Guida, A. Rendina, G. Santini, ibidem, Nella nota, utilizzando i dati della Centrale dei rischi, si dimostra che i recuperi conseguiti sulle posizioni chiuse in via ordinaria sono significativamente superiori a quelli registrati sulle posizioni cedute.

(4)  V. Pacelli, Banche e imprese: dove siamo e dove stiamo andando?, Rivista Bancaria – Minerva Bancaria, n. 1, 2017.

(5)  F. Tutino, Fiducia nelle banche, bail-in, tutela del risparmio: un approccio sistemico di lungo periodo, Rivista Bancaria – Minerva Bancaria, n. 4-5, 2016.

(6)  A. Resti, Bank internal ratings: are capital floors a suitable tool to restore their credibility?, Journal of Financial Management, Markets and Institutions, Fascicolo 2, luglio-dicembre 2016.