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MERCATO AZIONARIO
Riforma del TuF? Fa una marcia indietro di 30 anni

intervista a Luca Enriques, ordinario di Diritto commerciale alla Bocconi

La parte più innovativa del decreto, quella sulle PMI e le quotande, è la più insidiosa dal punto di vista della tutela degli investitori: incide infatti proprio sulle norme che, con le riforme degli ultimi decenni, hanno introdotto maggiore trasparenza e limitato il potere dell’azionista di controllo. E può andare incontro all'accusa di incostituzionalità

Paola Pilati

«Per favorire lo sviluppo del mercato azionario è certamente utile togliere di mezzo la cattiva regolamentazione, quella che comporta più costi che benefici. Ma qui c’è il rischio che il decreto finisca per indebolire le tutele a favore degli investitori, depotenziando proprio gli istituti che hanno dimostrato di funzionare meglio a tutela delle minoranze. E poi la proposta del Governo introduce nuovi vincoli, privi di un chiaro fondamento di utilità e gravosi per gli emittenti e perde una rara occasione per semplificare la disciplina delle società di capitali non quotate al fine di favorire le start-up e il finanziamento mediante venture capital». Luca Enriques (nella foto), ordinario di Diritto commerciale alla Bocconi non ha peli sulla lingua: il decreto legislativo di modifica della disciplina societaria che il governo ha trasmesso alle Camere, in attuazione della delega della Legge Capitali, va nella direzione opposta di quella che dichiara.

In un suo articolo sul “Domani” lei e Renzo Costi avete descritto alcune norme di questa riforma come un piano “diabolico”. Sono quelle che riguardano le Pmi quotate e le società che vogliono quotarsi. Ci spiega perché?

«È la scelta potenzialmente più innovativa del decreto, ma anche la più insidiosa dal punto di vista della tutela degli investitori. Prevede che due categorie di società, le società di futura quotazione e le Pmi (che rappresentano il 90 percento del listino ma meno del 10 per cento della capitalizzazione di Borsa), possano scegliere, mediante modifica dello statuto, di non essere assoggettate ad alcune delle regole applicabili alle spa quotate – il cosidetto opt-out -. Le regole in questione sono quelle sulle liste del consiglio introdotte dalla Legge Capitali (accolte male dal mercato), e alcune regole che derivano dalle principali riforme introdotte negli ultimi 30 anni a tutela degli investitori: quelle che impongono di riservare un posto in cda ai soci eletti dalle minoranze, quelle sulle operazioni con il socio di controllo o gli amministratori, le regole sul recesso e infine il quorum di due terzi nelle assemblee straordinarie, che viene sostituto con la maggioranza semplice dei presenti».

Che cos’è che non la convince?

«Per le quotande si prevede che la società che vuole avvalersi dell’opt-out non sia legittimata a farlo, come sarebbe logico, soltanto prima della quotazione. Al contrario, se prima della quotazione ha scelto l’opt-out anche da una sola regola – magari quella dalla disciplina della lista del consiglio, che il mercato valuterebbe senz’altro con favore – potrà, per tutta la vita della società, effettuare ulteriori opt-out mediante modifica dello statuto. Quanto alle PMI, hanno due anni di tempo dall’entrata in vigore di questa nuova normativa per scegliere di derogare anche a una sola delle discipline indicate, così ottenendo la facoltà, successivamente, di effettuare ulteriori opt-out».

Qual è il danno per gli investitori?

«Nel caso delle quotande, se fosse previsto che puoi fare opt-out prima della quotazione, chi va a comprare è consapevole che quelle regole non si applicano e non ci rimette nessuno. Piena trasparenza. Ma la facoltà di poter fare opt out di una sola regola prima, per continuare a farlo per le altre dopo la quotazione, è contrario alla logica per cui “investo sapendo che cosa compro”, perché tra qualche tempo quella società potrà avere delle caratteristiche diverse. È vero che io posso scontare questo rischio applicando un ulteriore sconto. Ma già il mercato primario non è del tutto efficiente quando si tratta di valutare scelte statutarie che si discostano da quelle standard, come dimostrano vari studi empirici. Un regime che richiede anche di scontare la mera eventualità di future modifiche introduce variabili ancora più incerte, rendendo la valutazione dei titoli ancora più difficile per gli investitori, anche professionali.

Nel caso delle Pmi già quotate, chi ha comprato lo ha fatto in un contesto di tutele che viceversa potranno venir meno. Per di più, nel caso delle Pmi si prevede che solo per il primo opt-out devi ottenere il via libera della maggioranza della minoranza. Dopo, puoi farne senza. Altra stranezza sta nel fatto che questa nuova disciplina si applichi alle PMI che sono tali adesso e a condizione che facciano almeno un opt-out nei primi due anni dal decreto. Un vantaggio ingiustificato rispetto a chi diventa PMI dopo quel termine».

Questo vuol dire che la PMI che abbia fatto opt-out entro i due anni e la cui capitalizzazione salga successivamente oltre il miliardo di euro (perdendo dunque la classificazione di PMI), può continuare a giovarsi dell’opt-out anche successivamente. Chi diventerà PMI dopo i due anni dall’entrata in vigore, invece, non potrà approfittare di questa disciplina. Si prospetta un quadro di forti disparità…

«Diciamo pure che tutto ciò comporta una disparità di trattamento difficilmente giustificabile tra società, quelle di nuova quotazione e quelle già quotate, quelle che possono approfittare dei due anni di tempo e chi no, con il rischio che la disposizione venga giudicata incostituzionale».

A quel punto non si tratta più di un provvedimento per rendere la vita più facile a imprese meno attrezzate e dare maggiore libertà a chi le gestisce, ma un selvaggio west?

«Diciamo piuttosto che è un ritorno al 1997. Le riforme delle società quotate sono partite all’inizio degli anni Novanta, con la legge sulle Opa, poi è venuta la legge sulle società da privatizzare, infine nel 1998 la legge Draghi, che è stata la vera riforma organica. Questa introdusse una regola che si è rivelata molto efficace: quella della  maggioranza dei due terzi nelle assemblee straordinarie. Poi ci sono stati gli scandali Parmalat e Cirio, che hanno fatto capire che anche la legge Draghi non era risolutiva. Da lì sono nate le regole sul voto di lista, dove la rappresentanza della minoranza nei consigli d’amministrazione, che prima era solo per le privatizzate, è stata estesa a tutte le società quotate, ed è stata data dalla Consob la delega per fare la disciplina delle operazioni con parti correlate, emanate nel 2010. Queste, a mio avviso, sono le altre due riforme che hanno avuto un effetto reale: quelle sul voto di lista, per quanto non manchino ombre nelle prassi attuative, hanno portato in almeno alcune delle principali società quotate amministratori più attenti agli interessi degli azionisti e particolarmente motivati a difenderli. Le norme sulle operazioni con parti correlate prevedono che i consigli d’amministrazione chiedano su questi temi il parere di un comitato di amministratori indipendenti. Sono norme che introducono anche maggiore trasparenza e limitano il potere dell’azionista di controllo nell’ottenere condizioni di favore. Sarà un caso che proprio su queste tre regole incide la nuova disciplina per le neoquotate e le PMI? ».

Di fronte a uno scenario di incostituzionalità il governo non potrà restare indifferente. Che soluzione si può immaginare?

«Si può immaginare che, di fronte alle censure di incostituzionalità che sorgeranno dal fronte delle imprese quotate che non sono PMI, il Governo scelga di risolvere il problema con un decreto correttivo che estenda la relativa disciplina a tutte le società quotate, a prescindere dalla dimensione. È prevedibile che una pressione in questo senso sarà esercitata dalle società escluse da quest’opzione».

Insomma, sembra quasi che l’attuale riforma sia un grimaldello per consentire, alla fine, a tutte le società quotate di evitare i vincoli che oggi tutelano il mercato. Un piano appunto diabolico.

«Questa espressione, nell’articolo che abbiamo scritto, è stata molto criticata da alcuni nostri colleghi che hanno partecipato ai lavori di preparazione dei decreti in seno al MEF. La verità è che siamo arrivati a ricostruire il quadro di cui ho dato conto fin qui, solo dopo numerose letture del testo e grazie a varie conversazioni chiarificatrici con diversi colleghi, alcuni dei quali avevano subito notato i profili di incostituzionalità di queste disposizioni.

Quando ci siamo accorti che il testo della disposizione che delega il Governo a emanare decreti correttivi e integrativi non prevede il previo invio di uno schema di decreto alle competenti commissioni parlamentari, abbiamo messo in fila tutti gli elementi. Riferendone separatamente a un paio di addetti ai lavori, la reazione di entrambi è stata: “Un piano diabolico!” Da qui l’ispirazione per l’articolo di giornale che abbiamo pubblicato. Aggiungo per inciso che la totale opacità che ha caratterizzato la fase di preparazione dei decreti non aiuta a dissipare le ombre che abbiamo colto in questo strano insieme di scelte. È ben possibile che noi si sia stati vittima della tendenza molto italiana a far peccato pensando male e che, però, in questo caso, non ci abbiamo preso. Ma resta il fatto che alcune delle scelte effettuate sono davvero difficili da giustificare in base al principio costituzionale di ragionevolezza. E se questo nostro mal penser darà anche una piccolissima spinta verso una scelta di non minore e, magari anche maggiore, trasparenza nel processo di emanazione dei decreti modificativi e correttivi rispetto a quella che ha caratterizzato la prima fase dell’esercizio della delega, non sarà stato inutile aver commesso peccato».

Nel merito, quale soluzione sarebbe preferibile, secondo lei?

«Ritengo che la soluzione migliore sarebbe quella di non prevedere una disciplina speciale per le quotande, sostituendola invece con una disciplina per le sole PMI, che siano già tali o meno al tempo dell’entrata in vigore del decreto legislativo. Si potrebbe prevedere la facoltà di opt-out per tutte le PMI e senza il limite temporale dei due anni dall’entrata in vigore, ma a condizione che l’opt-out sia di volta in volta oggetto di voto da parte della maggioranza della minoranza. Gli opt-out, in coerenza con la ratio di non assoggettare le società medio-piccole a oneri ingiustificati, dovrebbero poi perdere efficacia nel caso in cui la società non soddisfi più il requisito dimensionale richiesto per essere qualificata come PMI. E le future società quotate dovrebbero poter scegliere gli opt-out che riterranno opportuni con una semplice modifica dello statuto prima della quotazione; la sua efficacia sarebbe subordinata al fatto che esse si qualifichino come PMI ai sensi della disciplina Consob».

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