Osservatorio Banche
Redditività in aumento, ma molte fragilità

Per le banche italiane non è arrivato ancora il momento della svolta favorevole. Il consuntivo 2019 si prospetta migliore di quelli del recente passato e superiore a quanto conseguito in numerosi altri paesi europei. Alcuni indicatori segnalano progressi ma importanti fragilità strutturali non possono considerarsi ancora risolte. Nel complesso resta forte la sensazione di una situazione vulnerabile, non sostenibile a medio termine

Silvano Carletti
Carletti

Per avere un’idea affidabile dei bilanci che le banche italiane presenteranno tra poche settimane  il riferimento più logico è quello del consuntivo relativo ai primi 9 mesi del 2019. Se si legge il bilancio aggregato dei principali operatori del credito si rileva che rispetto allo stesso periodo del 2018 il risultato netto è cresciuto di quasi il 40% (+ €2,4 miliardi). Questo incremento, però, si dimezza se si escludono i benefici contabili (€1,1 mld) delle operazioni straordinarie completate da UniCredit. 

Poche novità dalla lettura del conto economico. Diminuisce il flusso dei ricavi (- 2,2% per i 5 gruppi maggiori) per effetto della contrazione sia del margine d’interesse sia delle commissioni nette. L’intervento sui costi produce effetti (-3,1%) ma non compensa la flessione dei proventi. A consentire un progresso del risultato netto di gestione (+3%) è la riduzione delle rettifiche su crediti (-€0,5 miliardi).

Secondo i calcoli della Banca d’Italia (Rapporto sulla Stabilità Finanziaria 2/2019), nel primo semestre 2019 il RoE netto annualizzato (escludendo le operazioni straordinarie) sarebbe stato a livello sistema pari al 7,1%. Tenendo anche conto del consuntivo del terzo trimestre e delle informazioni disponibili per gli ultimi mesi del 2019, il RoE netto del sistema dovrebbe posizionarsi per l’intero anno intorno al 7%.

Seppure non particolarmente brillante, è un risultato comunque ben superiore a quanto conseguito nei due anni precedenti (sempre al netto dei proventi di natura straordinaria, 5,7% nel 2018 e 4,1% nel 2017).

Due ulteriori osservazioni su questa risalita del RoE: la prima è che questa volta un contributo apprezzabile è venuto anche dalle banche meno significative, il cui recupero è comunque ancora dietro quello delle banche maggiori; la seconda osservazione è che nel contesto europeo il risultato medio delle banche italiane significative è ora in posizione intermedia, al di sopra del dato medio continentale e ben prima delle banche francesi e ancor più di quelle tedesche (cfr. Eba).

Al miglioramento del risultato finale si è affiancato un limitato ma apprezzabile progresso dei coefficienti patrimoniali (a metà 2019, il CET1 ratio, Common Equity Tier 1 ratio, si posizionava in media al 13,5%).

In ulteriore miglioramento la qualità del portafoglio prestiti: al netto delle rettifiche l’ammontare dei finanziamenti deteriorati risultava a metà 2019 sceso in 12 mesi di quasi un quinto, da 103 a 84 miliardi. Sotto quest’ultimo profilo, tuttavia, lo spettro delle situazioni è piuttosto ampio con gli intermediari di minore dimensione che, rispetto ai gruppi significativi, presentano incidenze dei crediti deteriorati più elevate e tassi di copertura più contenuti.

Lo scenario si prospetta difficile

Allungando lo sguardo al futuro ravvicinato, numerose circostanze inducono a pensare che questo percorso di recupero possa indebolirsi sensibilmente, se non addirittura arrestarsi. Sono molti, in effetti, i documenti che si ritrovano a condividere l’espressione “a rather bleak outlook for bank profitability” (cfr. per esempio, Eba – Risk assessment of the European banking system). 

Tra i macrofattori sfavorevoli il primo è quello della congiuntura economica. Presentando lo scorso ottobre il periodico aggiornamento dello scenario globale, la nuova direttrice del Fmi ha evidenziato che il 90% dei paesi sta crescendo meno dell’anno precedente (stagnazione sincronizzata l’ha definita). Nel 2020 l’Europa dovrebbe fermarsi sotto l’1,5%, per l’Italia il mezzo punto percentuale potrebbe essere un miraggio. 

Ne dovrebbe derivare un impulso depressivo per la già debole dinamica del credito al settore privato non finanziario, dinamica già quest’anno posizionata al di sotto del +1% a/a, risentendo della contrazione dei prestiti alle imprese (-0,8% a fronte di un dato medio per l’eurozona prossimo al 4%, con Germania e Francia al 6-7%). La dinamica dei prestiti alle imprese risulta nel nostro Paese fortemente differenziata, in contrazione per quelle più rischiose e/o di minore dimensione, in crescita per le imprese finanziariamente più solide di maggiore dimensione. 

Da molto tempo le statistiche della Bce evidenziano per i prestiti all’imprese un forte differenziale di crescita tra Italia e resto dell’eurozona. Sarebbe un errore inquadrare queste differenze in un’ottica esclusivamente o anche prevalentemente congiunturale. Si tratta, invece, di un’evidenza destinata a durare a lungo: le imprese che sono sopravvisute alla selezione indotta dalla lunga crisi economica tendono (o sono costrette) ad avere un’esposizione debitoria non solo più contenuta, ma anche articolata in modo diverso rispetto al passato (meno prestiti, più titoli di debito). In definitiva, complice anche la congiuntura economica, le prospettive di crescita del principale aggregato creditizio appaiono piuttosto depresse.  

A questo si deve aggiungere che il rientro del tasso di derioramento dei prestiti dovrebbe subire nei prossimi trimestri un completo arresto o quasi. Rispetto al recente passato, tuttavia, la stagnazione economica dovrebbe avere più limitati effetti sulla qualità del portafoglio prestiti delle banche, per il ridotto spazio delle famiglie vulnerabili e per la più sostenibile posizione finanziaria acquisita da una parte importante delle imprese. Il modesto livello dei tassi d’interesse contribuisce non poco a sostenere la capacità di rimborso di queste ultime. Tuttavia, sull’ammontare delle rettifiche di valore del portafoglio prestiti peseranno nei prossimi anni gli effetti del calendar provisioning predisposto dalla Bce che impone una più attenta considerazione delle perdite attese.

Tassi negativi e margini reddituali

La modesta (nel migliore dei casi) dinamica dei volumi di finanziamenti si accompagnerà ad un ulteriore indebolimento dei margini reddituali. Negli ultimi anni la discesa dei tassi attivi applicati sui prestiti a famiglie e imprese è stata accompagnata da un’analoga discesa dei costi della raccolta bancaria. Secondo le più recenti rilevazioni il costo della raccolta è ora quasi nullo, circostanza che impedisce di compensare le pressioni al ribasso dei tassi attivi. L’ipotesi di applicare tassi negativi sui depositi, anche solo su quelli delle imprese eccedenti una certa soglia, è un’opzione per ora giudicata di fatto non praticabile. 

Le banche italiane (non diversamente da quelle del resto dell’Europa) registrano un eccesso di raccolta, fenomeno che per molte circostanze non è facile contenere. Sotto questo profilo, qualche novità è venuta dalla riforma del sistema di remunerazione delle riserve in eccesso decisa dalla Bce nelle settimane scorse.

Ne è derivato per le banche italiane un duplice beneficio: il primo (complessivamente contenuto e concentrato su pochi gruppi) è individuabile nella riduzione di un onere (al di sotto di una soglia per ora fissata a sei volte l’ammontare della riserva obbligatoria il deposito della liquidità in eccesso presso la Bce non è più sottoposto alla penalizzazione del tasso negativo); il secondo beneficio (in questa fase forse più importante) è rappresentato dal realizzarsi di una diversa opportunità di allocare la liquidità in eccesso (nel Rapporto sulla Stabilità Finanziaria si segnala, in effetti, che gli intermediari italiani hanno aumentato i loro depositi presso la Banca Centrale Europea da 70 a 120 miliardi).

Un portafoglio titoli di stato di dimensione anomala 

A rendere fragile la prospettiva delle banche italiane è anche l’anomala dimensione del portafoglio di titoli pubblici domestici che a fine settembre rappresentavano il 9,7% dell’attivo (3,2% in media per l’area dell’euro). Negli ultimi mesi sono state effettuate cessioni nette per 20 miliardi, ricavato in parte investito nell’acquisto di titoli pubblici di altri paesi dell’eurozona. Il 62% dei titoli di stato italiani detenuti risulta valutato al costo ammortizzato, modalità che annulla gli effetti indesiderati sul patrimonio di vigilanza di loro variazioni di valore.  Oltre ad essere esclusa la possibilità di guadagni in conto capitale, però, in questo modo risulta congelata una parte significativa dell’attivo.

È ampia la riflessione sulle ricadute che un ampio portafoglio di titoli pubblici domestici può avere sulla stabilità finanziaria di un paese, con argomentazioni favorevoli e rilievi di segno opposto. Il governatore Ignazio Visco, intervenendo sull’argomento (The Economic and Monetary Union: Time to Break the Deadlock, 15 novembre 2019) ha evidenziato da un lato la necessità di creare una safe asset europea, dall’altro l’opportunità di monitorare l’intero spettro dei rischi.

Resta però da sottolineare che da tempo questo investimento finanziario è per le banche italiane su livelli decisamente elevati, tali da rappresentare, in un futuro contesto di migliore congiuntura, un freno alla crescita dell’offerta di credito.