In Filigrana

di Giuseppe G. Santorsola

INVESTIMENTI STRANIERI
Quello che il Copasir non ha capito

Il Copasir analizza nella sua Relazione la presenza di investitori stranieri nelle nostre banche e assicurazioni e ne valuta la rischiosità per gli interessi nazionali. Ma non fa i giusti distinguo e sottovaluta una serie di aspetti

Giuseppe G. Santorsola
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Il Comitato parlamentare dedicato alla tutela della Sicurezza della Repubblica ha pubblicato la relazione in merito agli “Asset strategici nazionali nei settori bancario e assicurativo”. Il suo compito istituzionale è finalizzato a rappresentare fattori potenzialmente rischiosi e minacce per gli interessi nazionali. Il contenuto approfondito in questo caso illustra ulteriori rischi in campo sociale, industriale ed occupazionale.

Il Comitato ribadisce comunque in premessa le competenze che le sono proprie, ma nel testo pubblicato, invero, sono presenti considerazioni che travalicano il perimetro, superando l’attenzione verso gli aspetti strategici generali interessando anche valutazioni economiche rispetto alle soluzioni offerte dal mercato nella sua complessità.

Infine, parti del rapporto esaminano eventi affini che riguardano i settori industriale e delle relative holding di controllo, fattore che va oltre il tema oggetto dell’obiettivo specifico riportato nel titolo.

Questa nota intende approfondire questi profili, nonché commentare alcune carenze del documento, soprattutto in termini propositivi e di lettura degli eventi che hanno condotto alla situazione sottoposta all’indagine. Resta indubbia la presenza di un rischio in materia di governance dei principali istituti bancari e compagnie di assicurazione. Ciò è peraltro da ricondurre a comportamenti “nazionali” del passato, alla carenza di offerta di capitale di rischio per i due settori e alla eccessiva frequenza (non quindi alla dimensione) della richiesta di dotazioni patrimoniali richieste nell’ultimo decennio da disequilibri di bilancio e requisiti di vigilanza. 

I punti più critici della relazione riguardano:

  • la visione complessivamente “interventista” dello Stato che costituisce il file rouge del rapporto;
  • la limitata considerazione del fattore “Unione Bancaria” quale discriminante nell’esame delle governance in essere, rispetto alle acquisizioni effettivamente straniere;
  • la mancata analisi del comportamento assunto negli ultimi anni dagli imprenditori e dai soci un tempo azionisti, spesso non disponibili a mantenere quote e posizioni;
  • la con-fusione (in senso tecnico) tra motivazioni di crescita della quota di mercato e di conquista di asset strategici, che ha mosso soggetti non italiani (comunitari e non) ad intervenire nei due settori di intermediazione.

 È invece pienamente condivisibile la lettura di uno scenario ancora più rischioso in prospettiva, dopo la crisi sanitaria che indebolisce il valore di mercato delle principali società bancarie ed assicurative sia quotate che non, rendendone più agevole l’assunzione del controllo da parte di nuovi soggetti considerando due fattori (citati, ma forse non adeguatamente approfonditi nel rapporto) e cioè:

  • l’incidenza dei requisiti patrimoniali imposti dal NAC III di Basilea e di Solvency 2 quale criterio discriminante per il perdurare dell’attività riservata a banche e assicurazioni;
  • l’impatto di una serie di risultati di bilancio non brillanti che hanno impedito l’accumulazione di capitale, sovrappesato l’onere degli accantonamenti per i crediti deteriorati e ridotto la possibile remunerazione del capitale (cui si aggiunge la richiesta sospensione relativa agli utili del 2019).

Un altro aspetto che non viene adeguatamente ricordato concerne la rilettura della situazione venutasi a realizzare dopo il 1990, e cioè da quando buona parte del sistema bancario ed una importante componente del settore assicurativo sono stati privatizzati. In quella occasione, una notevole quantità di risparmiatori individuali (qualche milione) aderì alle offerte pubbliche di vendita, generando un’importante diffusione dell’azionariato in precedenza inesistente.

Le delusioni successive – dopo un lungo periodo di illusioni di crescita del valore – hanno determinato sia vendite consistenti – laddove possibili in virtù della quotazione in Borsa dei titoli – sia irritazione nei casi di non quotazione sia – soprattutto – l’indisponibilità alla sottoscrizione degli aumenti di capitali necessari.

La condizione di necessità è riconducibile all’altro fattore che non appare adeguatamente descritto nel rapporto COPASIR: gli aumenti di capitale erano abitualmente letti come occasione di crescita e sviluppo; negli anni ’00 e successivamente si sono resi necessari per coprire perdite o per finanziare incorporazioni di aziende a loro volta in crisi. Si tratta di due motivazioni non incentivanti per azionisti che non sono in grado di esercitare anche un ruolo decisionale o gestionale. 

Ulteriore aspetto non adeguatamente chiarito concerne la distribuzione geografica degli investitori istituzionali sia per localizzazione che per diversificazione di portafoglio. La delocalizzazione delle SGR data dal 2009 ed ha comportato la cessione a molti soggetti esteri, prima degli interventi diretti sulle banche e sulle compagnie. Nel contempo, queste ultime hanno da tempo duplicato la loro presenza nel segmento del risparmio gestito costituendo case di investimento in Lussemburgo e in Eire per motivi tributari e per offrire strumenti finanziari più diversificati e quindi internazionalizzati. La conseguenza naturale è stata la crescita della quota di investitori esteri ed estero-vestiti nei libri soci. 

Il rapporto non esamina nemmeno un aspetto tecnico relativo alla funzione e al ruolo degli indici di Borsa. Questi ultimi sono benchmark di numerosi strumenti diffusi in modo crescente sul mercato (ETF, fondi e certificates). Buona parte di costoro sono offerti da case di investimento estere. La raccolta di questi soggetti “deve” essere investita nelle azioni ricomprese negli indici e, nel caso italiano, una quota consistente (soprattutto fino a qualche anno fa) era costituita da azioni bancarie e delle due principali compagnie. È evidente che una quota non marginale del capitale di queste ultime sia transitato nella proprietà di quei soggetti alimentando la presenza estera. 

Poiché gli azionisti di controllo delle case di investimento erano in prevalenza banche estere, ciò ha costituito la base o il complemento per successive operazioni di acquisizione, collaborando di fatto alla conclusione di alcune operazioni oggetto dell’attenzione del Comitato.

Altro aspetto sottovalutato è quello relativo al ruolo delle Fondazioni Bancarie, originariamente componente dominante o rilevante nell’azionariato di molte banche. Le citate esigenze di ricapitalizzazione e gli obblighi normativi in merito alla diversificazione dei loro portafogli hanno determinato la progressiva riduzione del peso del loro azionariato. Sotto un altro profilo, si percepisce anche una perdita di interesse ed attenzione verso la presenza nelle banche.

Alcune Fondazioni, infine, non hanno capacità di partecipare agli aumenti di capitale e ciò è stata la ragione degli interventi di altri soggetti, non italiani, che oggi controllano ex-Casse di Risparmio. La particolare natura di questi organismi (pubblici e privati nello stesso tempo) evidenzia un contenuto ricorrente nel testo del rapporto e ciò il potenziale ruolo dell’intervento pubblico nell’azione di contrasto agli acquisti esteri.

Infine, ritengo necessario distinguere anche la tipologia degli investimenti esteri che mostrano obiettivi, strategie e pesi tra loro differenti:

  • il comportamento degli investitori istituzionali del risparmio gestito le cui scelte sono legate a obiettivi di rendimento e sono agevolati dalla accentuata volatilità dei titoli bancari;
  • l’azione delle investment banks interessate ad acquisire quote significative, ma non dominanti, in più banche, con orizzonti di medio periodo e talvolta di lungo, giocando un ruolo spesso importante di indirizzo nelle gestioni;
  • l’azione dei fondi sovrani, in diminuzione ultimamente per loro problemi interni, ma comunque capace di muovere quantità che altri shareholders non sono in grado di sostenere;
  • il comportamento delle banche – comunitarie e non – concorrenti la cui finalità è sistematicamente quella del controllo nel tempo della banca target, confidando anche nell’utilità, per molti soci preesistenti e “insoddisfatti”, di uscire dall’azionariato;

Riunire in un unico commento e nella relativa valutazione gli interventi esteri non è quindi utile né per comprenderne i meccanismi né per valutarne l’impatto sull’autonomia di gestione di intermediari comunque meritevoli dell’attenzione del COPASIR per la sua funzione istituzionale.

Ultimo rilievo concerne il ruolo delle banche nella sottoscrizione e gestione dei Titoli di Stato in portafoglio. Occorre ricordare il ruolo istituzionale della Banca d’Italia nell’emissione dei titoli e nel loro utilizzo in quanto eligible nelle operazioni di rifinanziamento.

In quanto banche italiane, tutte sono soggette a dotarsi di quote adeguate delle diverse emissioni. I soggetti esteri, invece, rinvengono convenienza nel permanere di uno spread interessante rispetto a tutti gli altri principali Titoli di Stato in circolazione. Le circostanze macroeconomiche attuali e il costante intervento della BCE rendono meno probabile sia la maggiore volatilità (ridotta nell’ultimo semestre) sia l’influenza della rilevante dimensione complessiva dello stock del debito (ormai al 160% del PIL). 

Tutto quanto esposto non esclude la significatività dei rilievi esposti dal COPASIR, ma ne rendono la lettura più utile tenendo presente fattori più tecnici che giocano comunque il loro peso. Forse, qualche ulteriore audizione e una diversa composizione del Comitato (che comunque può coinvolgere consulenti esterni) avrebbe consentito uno spettro di conoscenze più ampio.