Osservatorio Banche
Quel record di Btp nei bilanci bancari che nessuno vuole toccare

L’11% circa dell’attivo totale delle banche italiane è costituito da titoli di stato nazionali. Per le banche minori si sfiora il 22%. In poco più di due anni questo portafoglio è cresciuto di quasi 120 mld. Che sia opportuno ridurre questo investimento è condiviso. Ma due circostanze stanno spingendo questo tema fuori dalla luce dei riflettori.

Silvano Carletti
Carletti

Alcune settimane fa il Fondo Monetario Internazionale ha pubblicato il suo periodico rapporto sul circuito finanziario italiano (Financial Sector Assessment Program), indagine svolta approfondendo i dati disponibili a inizio 2019. Nel complesso, si prende atto dei significativi progressi ma si evidenzia anche che resta molto da fare. Tra le raccomandazioni quella di un più deciso intervento per attenuare l’interconnessione tra i rischi bancari e il rischio sovrano. 

Se è probabilmente vero quello che scrive la nostra Banca Centrale (gli esperti del Fmi affrontano il tema con “una visione troppo semplicistica del rapporto tra questi rischi”), sono pochi quelli che non ritengono anomala la dimensione dell’investimento in titoli pubblici che si rileva da tempo nei bilanci delle banche italiane.

Come si legge anche nella relazione annuale della Banca d’Italia alla fine del 2019 il loro portafoglio titoli risultava pari a poco meno di 550 mld, per  l’80% circa (440 mld) costituito da titoli governativi dei paesi dell’eurozona. La parte predominante (87%) di questa sezione del portafoglio era rappresentata da titoli pubblici nazionali (383 mld), quota simile a quella dell’anno precedente, più elevata rispetto al corrispondente dato francese e spagnolo (79% in entrambi i casi) e molto superiore a quello tedesco (63%).

L’importante flusso di acquisti netti di titoli pubblici italiani registrato nel marzo scorso (20 mld) ha incrementato ulteriormente lo stock di questi titoli detenuti dalle banche italiane. Alla fine del 2017 l’ammontare di titoli pubblici italiani detenuti dalle banche italiane si posizionava poco sopra i 280 mld.

L’ultima relazione annuale della Banca d’Italia evidenzia che anche nel portafoglio finanziario degli investitori istituzionali italiani (assicurazioni, fondi comuni, fondi pensione) i titoli di stato nazionali hanno (fine 2019) un peso di gran lunga superiore a quanto rilevato in media nel resto dell’area euro (34,4% vs 5,1%)

La rilevanza di questa posta dell’attivo e la sua piena esposizione alle alterne vicende della congiuntura finanziaria nazionale hanno indotto le banche a valorizzare al costo ammortizzato un rilevante ammontare di questi titoli pubblici, una scelta che da un lato “congela” una parte non trascurabile dell’attivo, dall’altro lato limita le ricadute sul conto  economico  e  sul  patrimonio determinate dalle variazioni di valore di questi titoli, eventualità di rilievo considerato che i titoli in questione hanno una vita residua superiore ai 5 anni.

I dati appena citati sono riferiti all’intero sistema bancario italiano. In più di un caso si tratta di dati medi poco rappresentativi perché sintesi di situazioni troppo diverse. Ad esempio, riferita al totale attivo a fine 2019 l’incidenza del portafoglio di titoli pubblici domestici per l’insieme delle banche del nostro Paese supera l’11%. In realtà è all’8,2% per le banche significative mentre sfiora il 22% per le banche restanti (un quinto circa del sistema). Molto diversa anche la situazione dei due gruppi maggiori: Intesa è al 10,5% (86 mld) di cui 6,3% attribuibile alla componente assicurativa del gruppo; UniCredit invece è poco sopra il 5,5% (47 mld). Per confronto, il dato medio per le banche dell’eurozona è intorno al 3%. 

In parte riflesso di quanto appena indicato, la quota dei titoli pubblici nazionali esposti in bilancio al costo ammortizzato è molto più elevata per le banche di minore dimensione. 

Pur se limitatamente alle sole banche significative, anche l’EBA (European Banking Authority) fornisce importanti indicazioni (medie nazionali) sull’esposizione al rischio sovrano: dal rilievo delle diverse sezioni del portafoglio (Held For Trading, costo ammortizzato, etc) alla distribuzione dei titoli per durata. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, nella media della Ue a fine 2019 la quota dei titoli fino a 1 anno era pari al 25%, quella tra 1 e 5 anni al 32%, quella tra 5 e 10 anni al 21%; al 22% è la quota di quelli oltre i 10 anni, un dato quest’ultimo su cui pesa molto il 38% delle banche tedesche. Le corrispondenti quote dell’Italia si discostano dalla media Ue nel primo e nell’ultimo tratto della curva (15% e 27%, rispettivamente).

Per quanto riguarda il Paese emittente la diversificazione delle banche significative italiane e di alcune banche francesi si ferma sostanzialmente ai paesi Ue; per due dei tre maggiori gruppi francesi e per la Deutsche Bank è evidente l’impegno sui titoli statunitensi; il significativo  peso dei titoli governativi dei paesi dell’America Latina e dei Caraibi è elemento distintivo dei due maggiori gruppi spagnoli.

L’esposizione delle banche verso i debitori sovrani è argomento decisamente intricato che si presta a letture molto diverse con divergenze più accese quando ci si concentra sull’home bias, cioè sul peso dei titoli pubblici domestici.

Le divergenze cominciano su come l’home bias debba essere misurata, essendo numerosi i criteri possibili e diversi gli esiti della valutazione. È poi appena il caso di segnalare che un problema di home bias di fatto non si pone per una grande banca con sede in un paese medio-piccolo. Altra considerazione largamente condivisa è che l’home bias è fortemente condizionata dalla curva dei rendimenti dei titoli pubblici nazionali (un anno fa in Germania bisognava posizionarsi su scadenze non inferiori a 20 anni per trovare rendimenti positivi).

Infine, nel caso dell’Italia causa non ultima della forte propensione delle banche all’investimento in titoli pubblici è l’interazione in atto da tempo tra debole dinamica economica e ampia disponibilità di raccolta a costo molto modesto (nel 2019 allo 0,16%, un nuovo minimo storico), situazione che l’investimento in titoli pubblici traduce in un significativo beneficio per il conto economico. 

Secondo una parte degli osservatori si dovrebbe scoraggiare un rilevante investimento delle banche in titoli pubblici nazionali perché durante le fasi di instabilità finanziaria si può determinare un’interazione perversa (doom loop) tra rischio rischio bancario e rischio sovrano con ricadute sfavorevoli sulla stabilità finanziaria del paese coinvolto.

Se sull’esistenza di questo legame ci sono poche obiezioni, c’è però chi fa rilevare che una significativa presenza di banche nella platea di investitori in titoli domestici svolge un ruolo stabilizzante, contrastando possibili dinamiche speculative e rischi di panic selling. Si fa anche notare che il rafforzamento dell’home bias è spesso conseguenza di situazioni di instabilità finanziaria e non viceversa. 

Prima di chiudere questa rapida analisi dell’investimento in titoli pubblici delle banche è opportuno evidenziare due circostanze che stanno spingendo questo tema fuori dalla luce dei riflettori. La prima circostanza chiama in causa il Comitato di Basilea.

Alcuni anni fa alcuni paesi sollecitarono una revisione del trattamento prudenziale delle esposizioni delle banche verso i debitori sovrani. Dopo aver esaminato a lungo il problema, alla fine del 2017 il Comitato di Basilea decise di respingere gli interventi di riforma ipotizzati, che in particolare puntavano all’eliminazione della ponderazione zero e/o ad una limitazione di queste esposizioni. Intervenire sulle regole che governano un settore la cui dimensione si misura in trilioni è operazione sempre molto delicata.

La seconda circostanza si ricollega all’attuale congiuntura. La difficile situazione causata dal Covid-19 sta determinando in tutti i paesi un forte incremento del debito pubblico. Il problema di uno stabile assorbimento di questo nuovo debito è (per ora) energicamente mitigato dalla Bce che non solo ha ampliato la dimensione dei suoi programmi di acquisto ma è stata anche autorizzata a derogare se necessario dal rispetto della regola del capital key (acquisto dei titoli in proporzione alla partecipazione di ciascun Paese al capitale della Bce, quota stabilita assumendo come riferimento popolazione e prodotto interno lordo).

I dati di fine maggio, ad esempio, mostrano che nell’ambito del PEPP (Pandemic Emergency Purchase Programme, 1.350 mld) la BCE ha acquistato obbligazioni italiane e spagnole in misura maggiore rispetto a quanto previsto dalla regola del capital key (nel caso dell’Italia, 37 mld invece di 29 mld).

Quando la Bce comincerà a ridurre i suoi interventi la stabilità di molti mercati finanziari dipenderà in misura crescente dall’azione di investitori non guidati dalla pura speculazione di breve periodo. In quel contesto, con un rapporto debito/Pil per l’Italia quasi certamente intorno al 160%, i rilievi contro la home bias troveranno probabilmente pochi sostenitori. Poter rinviare la gestione di un problema (ridimensionamento di questo portafoglio con una ragionevole diminuzione della home bias) è sempre però solo una “mezza buona notizia”.

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