Nessuno
Interesse aziendale e bene comune
Quant’è buono il profitto se è anche giusto
Valentino Spinaci

Ci vorrà lo psicologo per i mercati mondiali? La domanda è d’obbligo perché con l’inizio del Terzo millennio non è arrivata solo una crisi economica devastante ma ha preso progressivamente corpo anche una vera propria crisi d’identità tra le aziende. Banche, imprese, associazioni non profit e cooperative, persino organismi della pubblica amministrazione si interrogano sul modo di proporsi al mercato, sull’approccio con cui realizzare la loro mission nell’interesse generale.

Facciamo un esempio e prendiamo le banche, che negli ultimi tempi sono state messe sotto accusa dall’opinione pubblica. Orbene, per essere apprezzabili sotto il profilo della validità dell’impresa, devono proporre nuovi prodotti e assicurarsi che essi siano remunerativi, garantendo la prosperità dei loro conti economici, ovvero devono puntare sulla diffusione dei servizi, corrispondendo alle famiglie maggiori interessi sui depositi, magari a scapito degli utili?

E ancora, prendiamo un’impresa: per dare senso alla mobilitazione di uomini, risorse, progetti che mette in piedi per realizzare il suo business, deve avere come obiettivo principale il profitto e la creazione di valore per i propri azionisti, ossia deve essere shareholder oriented, oppure deve preoccuparsi della soddisfazione di tutti coloro che guardano con interesse alle sue scelte, dai lavoratori ai clienti, ai fornitori, in una parola ai suoi stakeholder?

Una risposta certa per ora non c’è ma l’occasione per iniziare a cercarla è venuta dalla presentazione del libro del prof. Emiliano Di Carlo “Interesse primario dell’azienda come principio-guida e bene comune” avvenuta nell’ambito del Master Anticorruzione dell’Università di Tor Vergata e moderata da Filippo Cucuccio, direttore generale dell’Associazione nazionale per lo studio dei problemi del credito.

A porre questioni intriganti ha iniziato il prof. Giovanni Tria, preside della Facoltà di Economia, nell’intervenuto in apertura. Il mercato non è sempre in grado di certificare in assoluto l’utilità sociale di un’impresa, per quanto funzioni bene. Lo stesso sostegno finanziario, che le banche hanno il compito di porre in atto, deve dipendere dalla prospettiva temporale del business, che magari a lungo termine può diventare controproducente o antieconomico.

Problemi che toccano ogni mercato. In quello profit un dubbio insorge a proposito dell’Ilva di Taranto, che sopravvivendo garantisce lavoro ma magari rovina ambiente e salute. Per la pubblica amministrazione ci si chiede: creare uffici oggi per evadere pratiche arretrate è corretto se domani, smaltiti i surplus, i nuovi assunti resteranno a scaldare sedie? E poi un paradosso: le imprese della droga sono floride e soddisfano i clienti tossici, ma si possono definire dire socialmente utili?

Uno studio realizzato nel 2011 nel tempio del capitalismo, l’università di Harvard,ha ricordato poi il prof. Francesco Ranalli, ordinario di Ragioneria nella facoltà ospite dell’incontro, ha di fatto condotto ad un’ipotesi di superamento del dilemma, con l’introduzione della formuladella creazione di valore condiviso, che significa cercare opportunità di business nel risolvere problemi sociali, perseguendo il successo finanziario in un modo che crei vantaggi per la società.

Ma come dice il proverbio, tra il dire e il fare… c’è l’esigenza di individuare i diversi casi in cui un’azienda persegue il bene comune. Intanto non sempre c’è chiarezza sul tema: in un questionario rivolto a 211 persone (30% del settore privato, 44% del settore pubblico, 26% del mondo studentesco), è venuto fuori che tutti sanno che la Fiat è un’azienda, ma vi sono forti dubbi se lo siano un Comune, una Provincia, l’università o una fondazione come Telethon.

Gli stessi giuristi si trovano di fronte ad una sfida, ha detto Renato Finocchi Ghersi, Avvocato Generale presso la Corte di Cassazione, quando sono chiamati a valutare se, e in che modo a seconda delle fattispecie, la collettività è al centro dell’interesse primario aziendale. C’è un polimorfismo, un policentrismo d’impresa, un diffondersi di gruppi, di aziende ex pubbliche ed ex private, di diverse realtà non profit, si pensi alle fondazioni bancarie, che complicano le valutazioni.

Entra bene in gioco qui la sistematizzazione messa in atto dal prof. Emiliano Di Carlo, anche nel suo intervento di sintesi del libro: distinguendo le aziende per il loro focus, sul profitto o sull’erogazione del servizio, per l’impegno o meno a creare valore sostenibile. L’importante è che non vi sia contrapposizione tra il fare del bene perché è giusto e il fare del bene perché conviene, ha aggiunto Di Carlo dopo aver descritto il percorso scientifico seguito nel suo lavoro.

Argomento che oggi chiama in causa le banche – ha detto un esponente del credito cooperativo, Paolo Grignaschi, direttore generale Federlus – e si risolve appunto riscoprendo la loro vocazione originaria: produrre servizi nell’interesse collettivo, secondo principi di mutualità e radicamento nel territorio. Stando attenti a guardar bene ai cambiamenti che nel tempo hanno interessato i mercati, le modalità di accesso al lavoro, l’influenza su di esso della tecnologia.

Della bontà dell’operare bancario ha parlato anche Augusto Aponte, Funzionario Generale per la Revisione Interna della Banca d’Italia, istituto nato a fine Ottocento per evitare la caduta di fiducia dei cittadini verso il mondo creditizio, messa a dura prova, come oggi, dopo lo scandalo della Banca Romana sotto il governo Giolitti. “Oggi come allora – ha detto Aponte – si può recuperare superando le asimmetrie informative, ritrovando competenza, riscoprendo l’educazione finanziaria”.

Ma anche lottando contro i comportamenti devianti. Tema questo trattato sia dal Generale B. Gaetano Scazzeri, Comandante del Nucleo Speciale Anticorruzione della Guardia di Finanza, che da Greta Shullazi portavoce di “Noi contro la corruzione”, un’associazione creata da un gruppo di studenti, docenti ed esperti dell’università di Tor Vergata che ha a cuore l’integrità dell’individuo e della società.

Gaetano Scazzeri ha messo al centro del suo intervento la questione dei conflitti d’interesse, che per il nostro Paese è particolarmente acuta, tanto che l’Europa continua ad invitarci a risolverla, anche perché contribuisce a favorire una manipolazione del mercato. Tema ben trattato oltre che nel Master, anche nel sito di Noi contro la corruzione – www.anticorruzione.eu – insieme ad altri dal lobbying, alla maladministration, alla compliance.

Al termine del dibattito è emerso un leit motiv: in un mercato che continua a crescere in complessità, globalizzato e intriso di tecnologia, la domanda espressa dal titolo del convegno “Quale finalismo aziendale per il bene comune?” non poteva che produrne altre. Una su tutte: le imprese monstre, tipo Google, tipo Amazon, fanno il loro interesse o quello collettivo? E in quest’ultimo caso sanno davvero come riuscirci? Conviene fare attenzione al riguardo.