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Qualche riflessione sul decreto legge 23 dicembre 2016, n. 237

L’intervento normativo d.l. 23 dicembre 2016, n. 237 rende cogenti le previsioni che le comunicazioni della Commissione hanno posto per ridurre l’impatto degli aiuti sulla concorrenza. Si attua il principio di condivisione delle perdite nella copertura degli oneri con azionisti e creditori, ma con diverso perimetro rispetto al bail-in. Viene introdotto un regime ordinario per le garanzie ma anche un percorso specifico per situazioni di maggiore impegno. Viene regolato un procedimento bifasico che coinvolge Autorità nazionale e Commissione e poi articolate le modalità di escussione. Con la ricapitalizzazione si vuole il burden sharing ma è inserita la possibile transazione. Questa è prefigurata nelle conseguenze e assistita dallo Stato che fornisce le risorse sostituite. Regole di tutela per gli investitori, che restano però soggetti ad una valutazione di accesso agli effetti dell’accordo, o piuttosto norma di pericolo, attenta alle conseguenze del rischio di contestazione e perciò alla stabilità dei mercati.

Filippo Fiordiponti
Fiordiponti

Il d.l. 237 del 23 dicembre scorso, convertito nella l. 15 del 17 febbraio 2017, è intonato ad una generale urgenza di sistema, individua le risorse necessarie per fornire sostegno finanziario pubblico a banche italiane e, com’è noto, si occupa della situazione del Monte dei Paschi di Siena, banca tra le maggiori del Paese, da alcuni anni la grande malata del sistema. Il compito di usare quelle risorse è affidato al MEF, affiancato dalla Banca d’Italia, ma in un breve arco temporale: al più entro il 31 dicembre 2017.

Il diverso perimetro di condivisione e le clausole contrattuali inefficaci

L’eventuale azione dello Stato viene subordinata all’approvazione della Commissione europea, in funzione di autorità antitrust, nel rispetto degli orientamenti, utili a valutare la compatibilità degli aiuti con il mercato interno, da ultimo declinati nella Comunicazione sul settore bancario del luglio 2013. Il decreto in commento ne fa espresso richiamo nelle sue premesse, per poi far proprie quelle indicazioni di soft law, che, pur prive di carattere cogente, definiscono i principi che presiedono alla valutazione di ammissibilità dell’intervento. È noto come la preoccupazione di evitare il ricorso reiterato e indiscriminato all’aiuto di Stato abbia spinto la Commissione UE, attraverso le sue Crisis commu­nications, già il 25 febbraio 2009 e quindi, con maggiore incisività, nella comunicazione adottata il 10 luglio 2013, ad affermare il principio di condivisione degli oneri tra pubblico e privato, ora trasfuso da un lato nelle regole di risoluzione e dall’altro nel nostro decreto, che disciplina l’aiuto di Stato diversamente consentito. L’ingerenza nel diritto di proprietà di azionisti e creditori si afferma così come situazione tipica di entrambe le procedure, varia invece in modo sensibile il perimetro dei soggetti coinvolti. Il modo per assicurare equa riparazione ai creditori sacrificati nella condivisione degli oneri si rifà ancora al principio del no creditor worse off, attraverso l’equiparazione di trattamento rispetto all’ipotesi liquidatoria.

Nel disciplinare la ricapitalizzazione cautelativa il legislatore nazionale detta le regole di un concorso nella copertura degli oneri, che è premessa necessaria all’intervento pubblico. All’art. 22 il decreto 237/2016 si rivolge ai detentori di strumenti di capitale ibrido ovvero di altre passività di carattere subordinato, replicando l’impostazione formulata dalla comunicazione ai punti 41 e 42, rispettivamente rivolti a chiamare alla condivisione, oltre agli azionisti, «I detentori di capitale ibrido e di debito subordinato» e ad escludere il contributo obbligatorio dei «detentori di titoli di debito di primo rango [in particolare da depositi assicurati e non assicurati, obbligazioni e tutti gli altri titoli di debito di primo rango (senior)]». Si può osservare come il punto 41 della comunicazione assuma una nozione di «capitale ibrido», che non distingue tra le sue possibili modalità di regolazione. Il legislatore interno all’art. 22, c. 4, si preoccupa invece di stabilire l’inefficacia di ogni clausola, inerente i diritti patrimoniali di azioni proprie e strumenti di capitale, che ne limiti «lapiena computabilità nel capitale primario di classe 1». La previsione è diretta a quegli strumenti di capitale ibrido, di cui il regolamento 575/2013/UE (CRR) non ammette la computabilità tra gli elementi di AdditionalTier 1, perché privi dei caratteri della stabilità e permanenza, perciò estranei all’eventuale write down, possibile quando sia necessario ripristinare la soglia di Common equity Tier 1. Dinanzi all’intervento di ricapitalizzazione, quegli strumenti, inidonei ai fini del calcolo dei requisiti richiesti dal CRR, perdono i caratteri – quali ad esempio la possibilità di anticipato rimborso – ad essi attribuiti dall’autonomia negoziale delle parti. Una duplice valenza per quegli strumenti, che non hanno rilievo a fini di vigilanza prudenziale, ma ne acquistano ex lege, quando si ricorra all’aiuto di Stato. Il nostro legislatore, con il decreto del dicembre scorso, ha ritenuto di precisare che l’autonomia delle parti non può essere di ostacolo all’apprensione di quegli strumenti, associando al provvedimento di ammissione all’aiuto la conseguenza di impedire che eventuali accordi contrattuali abbiano l’effetto di ridurre l’area di coinvolgimento e consentire un deflusso di liquidità. Ci si ispira con evidenza a quelle indicazioni di soft law che guardano a questo aspetto, preoccupandosi d’impedire un’emorragia di risorse che aggravi lo squilibrio della banca.

Il canone ordinario di garanzia ed i regimi individuali

Il decreto n. 237/2016, in apertura, si occupa dell’intervento di sostegno in forma di garanzia, dove l’esborso per le casse pubbliche è soltanto eventuale e conseguente all’escussione. La garanzia ha carattere solidale, a prima richiesta, e, a mente dell’art. 5, c. 4, non può riguardare «passività computabili nei fondi propri», coordinandosi così con le caratteristiche degli strumenti assistibili, declinate all’art. 2, che, a loro volta, escludono clausole di subordinazione nel rimborso. D’altronde una garanzia su passività, suscettibili d’implicazione nel burden sharing di un’eventuale ricapitalizzazione cautelativa, successiva o concorrente, sarebbe in aperto contrasto con gli obiettivi di condivisione degli oneri con il privato. È con l’art. 1, c. 3, che il decreto subordina la concessione della garanzia al positivo giudizio della Commissione sul regime adottato, riservato dal successivo art. 4, c. 1, ai soli enti, che rispettano i requisiti sui fondi propri e non hanno evidenziato carenza di capitale in dipendenza di prove di stress. La previsione si pone in linea con la menzionata disciplina sugli aiuti di Stato, che fa salva la possibilità di adottare misure di garanzia per assicurare liquidità alle banche, che mantengono adeguata solidità patrimoniale. Si delinea così un canone, che apre al sostegno di firma in via ordinaria, pur nei ridotti termini temporali previsti, a favore di soggetti per i quali le competenti Autorità abbiano accertato la sussistenza del necessario equilibrio patrimoniale, anche di prospettiva, e si trovano pertanto in situazione, che, di per sé, non sembra capace di alimentare fenomeni di asimmetria informativa con il mercato. In altre parole le eventuali difficoltà di raccogliere provvista non derivano da una percezione di rischio, che attiene ad un’attuale o prospettica fragilità di struttura patrimoniale, ma traggono origine da circostanze diverse, genericamente considerate. La valida solidità del soggetto interessato va a confortare il carattere temporaneo dell’intervento e sostenere le probabilità di superamento dei problemi di liquidità, d’altra parte però la soluzione descritta si espone agli atteggiamenti opportunistici del mercato, tentato di attendere la garanzia pubblica prima di assumere una decisione d’investimento. Conseguenza che appare inevitabile per una previsione che vuole rispondere anche all’emergenza causata da carenza sistemica di liquidità, cioè con un mercato già negativamente influenzato da fattori esogeni. In sostanza alla garanzia pubblica si chiede di fornire adeguata reazione ad un rischio di sistema, finendo però per riproporre, nel frangente, quel legame con il debito sovrano, che pure la Banking Union vuole superare.

Si sposta il tiro con i successivi commi 2 e 3 dell’art. 4, che richiedono la specifica approvazione sulla richiesta individuale di aiuto di Stato, l’uno per enti, che non rispettano i parametri sopra descritti, ma presentano comunque un netto patrimoniale positivo, l’altro per banche sottoposte a risoluzione ovvero per enti-ponte. In quest’ultimo caso si scivola nell’ambito dei meccanismi di gestione della crisi, perciò con dissesto accertato. Nel primo invece si guarda alla banca che, pur in difetto dei requisiti di solidità necessari per svolgere attività creditizia, si mantiene solvente. In entrambe le situazioni deve intervenire la positiva e specifica decisione della Commissione ed a questa, nella fattispecie estranea alla risoluzione, il legislatore interno dispone di sottoporre un piano di ristrutturazione, replicando la formula che si rinviene ai punti da 56 a 59 della comunicazione del luglio 2013. Di conseguenza è necessaria la presentazione del piano quando la banca interessata manifesti un’accertata carenza di capitale, a tenore del ricordato art. 4, c. 2. Ugualmente quando il valore dell’intervento ecceda i cinquecento milioni «e sia superiore al 5 per cento del totale passivo della banca richiedente», per soggetto che non manifesta carenze di capitale, nemmeno prospettiche. La prestazione della garanzia può avvenire prima che sia presentato il piano, per il quale c’è anzi un termine di due mesi dalla concessione, ma la positiva valutazione di compatibilità della Commissione deve sempre precederla, inevitabilmente indirizzando le successive indicazioni di piano. Si può comunque notare come la pianificazione descritta tenda a rafforzare, a posteriori, il controllo sulle prospettive andamentali della banca sostenuta, conducendo, ove necessario, a richiedere misure correttive sul piano gestorio.

Un piano di ristrutturazione è poi dovuto anche quando abbia luogo l’escussione. La natura transitoria dell’intervento non può essere compatibile con una pianificazione, che contempli l’escussione, mentre il suo eventuale avverarsi rende necessario un aggiornamento di piano, che tenga conto del fatto sopravvenuto e non previsto. L’eventuale immissione di risorse attinte dalle casse dello Stato fa sorgere un credito in favore dell’erario e pone a carico della banca l’obbligo di rimborso.

Il percorso di rafforzamento patrimoniale

Un programma di rafforzamento patrimoniale è richiesto alla banca che, in relazione all’esito di una prova di stress, intenda rivolgersi allo Stato, per ottenere la sottoscrizione o l’acquisto di azioni emesse direttamente ovvero dalla capogruppo. La programmazione è volta ad individuare il fabbisogno di capitale, oltre a tempi e modi per ottenere il necessario rafforzamento. È alla competente Autorità di vigilanza, che spetta di esaminare l’adeguatezza del programma e valutarne la capacità di cogliere l’obiettivo. Se poi, in fase di attuazione, quel programma non dovesse mantenere le attese, la banca può procedere con la richiesta d’intervento pubblico. In proposito l’art. 14, c. 5, d.l. 237/2016 si riferisce, in apertura, all’insufficienza accertata dal risultato ed in chiusura ad un’inidoneità del programma, che si manifesti nel durante, ma rinvia anche alla negativa valutazione svolta dall’Autorità, a tenore del precedente comma 3. È interessante osservare come la stima d’insufficienza, sancita in sede di vigilanza, sia ritenuta di per sé idonea a consentire la richiesta di sostegno pubblico. In questo caso non si arriva a testare la risposta del mercato, che pure è il concreto accadimento, che si connette al rischio di grave perturbazione per l’economia, segnalando che il giudizio espresso dalla funzione amministrativa è capace di leggere gli effetti attesi dal programma di rafforzamento. In altri termini alla circostanza, derivante dal difetto rilevato nella prospettiva degli stresstest, si lega una reazione del mercato, anch’essa ipotizzata, cui occorre prestare rimedio, anticipandone le conseguenze. Conclusione che può spingere la discrezionalità tecnica, usata per svolgere la valutazione di adeguatezza, verso l’applicazione di elevate dosi di prudenza, alla ricerca di una certezza di rafforzamento, che può trovare soluzione soltanto con l’intervento statale. Come dire che la risposta pubblica si può attivare anche a fronte di un atteggiamento negativo del mercato soltanto temuto, confermando che il rischio di grave turbamento dell’economia è considerato immanente alla rilevata carenza.

Se il rafforzamento non viene raggiunto o, come si è detto, l’Autorità non creda che il programma possa farlo, la banca interessata può avanzare la richiesta d’intervento, corredata, tra l’altro, dalle stime sul valore di strumenti e prestiti, suscettibili di concorrere alla copertura degli oneri, e sul valore di attività e passività, considerato allo scopo di effettuare la comparazione di trattamento di azionisti e creditori in ipotesi di liquidazione, senza sostegno pubblico. Parte integrante della richiesta è il piano di ristrutturazione, conforme alla disciplina sugli aiuti di Stato. La procedura riprende gli argomenti della ripetuta comunicazione e costruisce un percorso, che può definirsi bifasico, secondo la nota definizione coniata da attenta dottrina, ma dove la necessità di rispettare la regolazione in chiave antitrust detta le precedenze. La richiesta, in fase di esame, passa infatti dal tavolo dell’Autorità competente, che ha svolto le proprie verifiche, a quello della Commissione, ma fin dal momento in cui è accertata la carenza di capitale, le indicazioni di soft law non mancano di introdurre all’esame congiunto delle contromisure da adottare, prima di arrivare alla notifica di un piano di ristrutturazione. Beninteso, i contatti sono definiti come volontari, ma non c’è dubbio che la condivisione delle azioni da svolgere sia utile premessa all’approvazione del piano. Quest’ultima consegue al provvedimento amministrativo di ammissione all’aiuto, di emanazione ministeriale, che, a tenore dell’art. 18, c. 2 del decreto, è subordinato alla positiva decisione della Commissione europea sulla sua compatibilità. Il ricorso alla condivisione degli oneri con azionisti ed alcune categorie di creditori è antefatto necessario per l’erogazione del sostegno finanziario pubblico e se la scelta di ricorrere alla domanda di aiuto compete agli organi sociali del soggetto interessato, l’esame di compatibilità con la disciplina sugli aiuti non permette di sfuggire al burden sharing, salva la deroga assicurata dall’art. 22, c. 7, che assorbe la previsione del punto 45 della comunicazione.

La natura della transazione assistita, ponte tra esigenze di tutela e obiettivi di stabilità

Anche per l’intervento di ricapitalizzazione viene dettata una disciplina procedimentale, di motivazione, di programmazione, di responsabilità. Nel suo percorso s’inserisce però, attraverso il dettato dell’art. 19, c. 2 del decreto, la possibilità di una «transazione tra l’emittente […] e gli azionisti», che hanno assunto tale qualità, come conseguenza della conversione ovvero dell’azzeramento del valore nominale degli strumenti e prestiti coinvolti nella ripartizione degli oneri. L’accordo contrattuale di natura transattiva diviene il presupposto per consentire allo Stato di procedere all’acquisto di azioni della banca richiedente, in luogo od in concorso con la sottoscrizione attraverso emissione dedicata. La previsione costituisce l’innesto nel procedimento di regole che sembrano rispondere ad un’istanza di tutela, direttamente rivolta alla platea degli investitori, coinvolti nella condivisione degli oneri ai fini del rafforzamento patrimoniale. Vengono prefigurate le conseguenze della definizione pattizia di eventuali controversie, nascenti dalle modalità di «commercializzazione» degli strumenti, che ricadono all’interno del perimetro di condivisione degli oneri. Attraverso l’acquisto di azioni, così disciplinato, si realizza la sostituzione dello Stato nella partecipazione al capitale, mentre l’azionista sostituito riceve titoli obbligazionari – privi di subordinazione – che saranno rimborsati dall’emittente, sollevandolo dagli effetti del burden sharing. È possibile considerare che per questa via si ottiene anche una migliore definizione dell’area di responsabilità patrimoniale, contenendo eventuali incertezze in ordine alla corretta individuazione del perimetro di coinvolgimento. D’altra parte è indubbio che l’aiuto di Stato viene utilizzato per ristorare un danno individuale, accertato nell’autonomia delle parti. Si ha quindi una transazione, definita secondo le note regole civilistiche, ma assistita dallo Stato, che interviene per fornire le risorse necessarie all’attuazione dell’accordo. L’autonomia contrattuale si esaurisce nella decisione di accedere o meno alla transazione. Per il resto è la legge a stabilire cosa riconoscere all’azionista, mediante predefiniti criteri di calcolo del valore della pretesa e con l’emissione di «obbligazioni non subordinate emesse alla pari», aventi «durata comparabile alla vita residua degli strumenti e prestiti oggetto di conversione», e cosa ottenere: la rinuncia a far valere ogni altra pretesa, nascente dalla «commercializzazione» di quegli stessi strumenti. Si delinea un percorso alternativo alle ordinarie modalità di tutela giurisdizionale, che, nell’affidare la scelta alla disponibilità della parti, offre il vantaggio di avere tempi ed effetti certi. La reciproca utilità per l’uno è sfuggire al burden sharing, seppure in misura ridotta, per l’altro definire in termini preordinati il costo delle possibili liti, ma grazie alla presenza dello Stato, ottenere comunque l’iniezione di fondi necessari al rafforzamento. Non sembra dubbio che la composizione degli interessi in gioco, trova incentivo in una forma di accordo transattivo, che si giova della decisiva assistenza pubblica. Sotto questo profilo si può osservare come l’acquisto delle azioni da parte del Ministero, a suggello della transazione, svolga funzione di contrasto degli effetti destabilizzanti, che possono derivare dall’instaurarsi di un vasto contenzioso. Sembra allora prevalere una lettura della norma, quale mezzo, che concorre a precisare l’ampiezza dell’intervento pubblico, attraverso la definizione accelerata, con modalità preordinate, delle possibili controversie. Perciò prescrizione regolatoria di pericolo, intesa a controllare e contenere gli effetti di una contestazione diffusa. In questo senso coerente con un regime degli aiuti di Stato, che, appunto, ha dichiarati scopi di stabilizzazione dei mercati e limitati spazi di agibilità, che però paiono compatibili con l’obiettivo di anticipare e neutralizzare le ripercussioni di liti che attengono alla commercializzazione dello strumento. Del resto la decisione di acquisto delle azioni è esercizio di un potere, non automatica conseguenza dell’avverarsi delle condizioni individuate dalla norma. Il ricorso all’espressione “ il Ministero … può acquistare le azioni rivenienti …” rinvia all’applicazione di adeguate dosi di discrezionalità tecnica: non possono spingersi nel merito delle scelte, pena l’obliterazione dell’affermata autonomia contrattuale, ma misurarne il risultato sì, anche in termini di dilatazione del fabbisogno d’integrazione patrimoniale. Per altro verso la possibilità di un diniego all’acquisto pone in discussione l’efficacia stessa della transazione, rendendone incerta l’attuazione. Se si guardasse alla previsione in discorso, soltanto come mezzo di tutela dell’investitore, quel margine di discrezionalità lascerebbe perplessi per l’alea, che ne deriva in ordine alla sostituzione degli azionisti interessati ed alla possibile diversità di trattamento, che potrebbe conseguire tra investitori che presentano medesime caratteristiche rispetto ad emittenti diversi.

È la documentazione accompagnatoria al ddl di conversione del decreto che afferma come la base della transazione trovi ragione nel misselling, ad offrire altro metro di lettura.Gli obiettivi del legislatore vengono meglio chiariti in sede di conversione del decreto, attraverso l’inserimento della lett. a-bis) all’art. 19, c. 2, che limita la possibilità di acquisto delle azioni, rivenienti da strumenti sottoscritti o acquistati entro il termine del 31 dicembre 2016. La data coincide con l’entrata in vigore della disciplina del bail in, utilizzata a mo’ di spartiacque, per considerare nota la rischiosità dello strumento. L’attenzione si rivolge all’efficacia retroattiva delle norme in materia di crisi bancarie e introduce un criterio di selezione, fondato sulla mutata natura del rischio, insito negli strumenti finanziari in discorso. La regolazione interna interviene per rimediare agli effetti, conseguenti all’applicazione del bail in, e considerati non prevedibili prima della sua adozione, né per l’investitore né per l’emittente. È uno degli aspetti di criticità che fin dalla genesi della disciplina di risanamento e risoluzione ha suscitato ampio dibattito. L’opportunità dell’accordo transattivo assume così la funzione di aprire ad una riclassificazione di rischio, che porta l’investitore fuori dal perimetro di condivisione degli oneri. D’altronde se il difetto nella consapevolezza di acquisto dello strumento finanziario è rilevato in rapporto ad una produzione normativa sopravvenuta, è conseguente ritenere che la situazione riguardi ogni soggetto che ha effettuato l’investimento prima di allora. Come dire che si appresta tutela verso un rischio non prevedibile e di rilievo sistemico, dove l’avverarsi di condizioni di carenza patrimoniale, rivenienti dalle prove di stress, nel momento in cui provocano la richiesta di sostegno pubblico, introducono anche alla possibilità transattiva. Un rimedio rivolto non solo a favorire la composizione delle liti nel modo descritto, in chiave di certezza del fabbisogno e di stabilizzazione, ma che si spinge ad offrire una alternativa all’investitore, inciso dal burden sharing retrospettivo. In sostanza s’individua una fonte di rischio per la stabilità dei mercati nell’efficacia retroattiva delle misure di condivisione degli oneri. Sembra così affermarsi una presunzione di inconsapevolezza d’acquisto in capo all’investitore che ha perfezionato l’operazione prima della data stabilita, ed è la premessa ad un accordo transattivo, che si può immaginare di larga diffusione. Il suo raggio d’azione è poi circoscritto da un termine di sessanta giorni dalla data di pubblicazione del decreto, che dispone l’applicazione del burden sharing perché il Ministero proceda all’acquisto; dalla selezione soggettiva, che si restringe alla sola clientela retail, ed ancora con la limitazione ai soli strumenti, per i quali è prescritto l’obbligo di prospetto.

Nondimeno il passaggio regolatorio è rivolto ad una species di investitori, accomunata da un consenso all’acquisto, prestato in presenza di un quadro normativo, oggi mutato. Se però la retroattività delle regole in questione suscita le descritte e condivisibili preoccupazioni, la risposta affidata ad un regime di sostegno pubblico, che ha carattere temporaneo e, soprattutto, un ambito applicativo ben delimitato, sembra piuttosto guardare al caso di specie, oggi all’attenzione, che non a delineare un percorso certo e prevedibile di tutela, oltretutto mancando di coordinamento con la disciplina delle crisi bancarie. In questo senso si può notare come la soluzione transattiva porti a cambiare la posizione dell’investitore, sì che anche il principio di equa comparazione di trattamento, rispetto agli effetti di un procedura liquidatoria, ne risulta anticipato in modo sostanziale.

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