Osservatorio Banche
Qualche ombra sul futuro della rivoluzione digitale

Non è facile stabilire a che punto è la rivoluzione digitale nelle banche italiane. Per ora sembra poco ambiziosa e si intravedono alcune criticità, come rivela una indagine della Banca d'Italia 

Silvano Carletti
Carletti

 

Il procedere della pandemia e ora il divampare della guerra in Ucraina sono eventi dirompenti che mettono a dura prova la tenuta delle economie europee e di conseguenza dei circuiti bancari. È speranza generale che nelle prossime settimane si possa assistere a un significativo stemperamento di queste vicende e si apra la strada a un loro completo superamento. Invero, per quanto riguarda la pandemia, la crescente diffusione della copertura vaccinale e il progredire della conoscenza scientifica danno concretezza a questa speranza.

Se in relazione a questi eventi un’analista (anche non professionale) volesse fare “una conta dei danni” e/o formulare una ragionevole previsione sulle ricadute future per i sistemi bancari potrebbe facilmente trovare molti dei dati necessari per i suoi ragionamenti, attingendo a fonti aziendali o anche a fonti istituzionali (nazionali e continentali).  

Oltre che da questi eventi esterni, l’impegno delle banche è assorbito da altri processi di natura più interna, a partire da quella che viene chiamata rivoluzione digitale. Se si fa riferimento al passato più recente, è peraltro evidente che sul diffondersi dell’innovazione digitale nel contesto bancario hanno influito non poco le trasformazioni indotte dal Covid sui comportamenti sociali: nel 2021 i pagamenti elettronici hanno registrato in Italia un incremento quasi doppio rispetto al periodo precedente lo scoppio della pandemia.

Se un’analista (tanto più uno non professionale) volesse farsi un’opinione sul procedere di questa rivoluzione digitale (bilancio degli anni più recenti e ragionevole previsione sugli sviluppi futuri) dovrebbe sostenere una dura fatica per costruire una base informativa che comunque risulterebbe alla fine quasi certamente parziale e poco articolata. Questa considerazione è molto forte se si considerano le fonti aziendali. Neppure abbondante, però, è su questo terreno l’aggiornamento reso possibile dalle istituzioni ufficiali. 

L’innovazione digitale si concretizza in processi pluriennali che infiltrano ogni aspetto dell’operatività bancaria, articolandosi in una miriade di progetti di ogni dimensione, con un ridisegno dell’intero sistema e l’affacciarsi di nuovi protagonisti. Tutto questo rende certamente complessa la costruzione di una sintesi. Ma di fronte a processi di trasformazione così ampi e già avviati da alcuni anni ci si aspetterebbe un ampio flusso di micro informazioni, seppure caotico e quindi da sistematizzare per costruire le chiavi di lettura necessarie per interpretare l’evoluzione in corso. 

Non sembra essere così. Se si esamina l’informazione aziendale si trovano descrizioni (spesso anche molto sintetiche) di progetti futuri, molto raramente bilanci di quanto già fatto, neppure quelle con toni celebrativi e trionfalistici frequenti in questo tipo di comunicazione. Per verificarlo è sufficiente scorrere i comunicati stampa recentemente predisposti per la presentazione dei rispettivi piani triennali dai tre maggiori gruppi italiani (Intesa, UniCredit, BPM).

La metrica frequentemente (se non esclusivamente) proposta per descrivere l’impatto dell’evoluzione digitale è quella della riduzione del personale e degli sportelli, una lettura che sollecita due osservazioni. La prima è che si dà implicitamente per scontato che i due fenomeni non sarebbero avvenuti in assenza di una trasformazione digitale, conclusione azzardata soprattutto in una realtà come quella italiana, da un lato esposta come altrove ad una crescente compressione dei margini reddituali, dall’altro lato sbarcata in questo secolo con reti bancarie decisamente ipertrofiche.

La seconda osservazione è che risulta immediatamente percepibile come l’intero processo sia visto soprattutto (o comunque prima di tutto) come strumento di riduzione dei costi operativi attribuibili al retail mass market, non riconoscendo all’accresciuta adozione del digitale un forte ruolo propulsore di ricavi addizionali o anche di strumento per una governance aziendale più efficace o efficiente. 

È pur vero che nella tipica banca italiana l’attività del retail mass market alimenta una frazione di costi ben più ampia del corrispondente flusso dei ricavi (nel caso di Intesa, ad esempio, 62% rispetto a 44%). E si può anche ipotizzare che la definizione di più ambiziosi obiettivi di intervento possa avvenire in un momento successivo. Nondimeno, nell’attuale comunicazione aziendale l’approccio scelto è prevalentemente confinato al contenimento dei costi.

L’informazione offerta dalle autorità è certamente più ricca ma non sufficiente a illuminare adeguatamente l’intero processo e spesso concentrata sul fenomeno FinTech. Un primo dato che si coglie nella documentazione e negli interventi dei vertici della Banca d’Italia è che la sensibilità delle banche italiane nei confronti dell’innovazione digitale è in crescita, ma con intensità fortemente differenziata, con investimenti relativamente contenuti e concentrati in un numero molto ristretto di intermediari.

Nella terza indagine “FinTech nel sistema finanziario italiano” (novembre 2021) viene evidenziato come la spesa sia distribuita su un limitato numero di intermediari: la quota dei primi 10 investitori è pari all’85%, quella dei primi 5 al 72%, con l’importante precisazione che tra i primi dieci investitori figurano banche di piccole e medie dimensioni e intermediari creditizi non bancari.

I progetti per innovare l’erogazione del credito e i pagamenti digitali (in particolare, quelli per il mobile banking, il digital lending e i servizi connessi con l’open banking) si distinguono per numerosità e risorse assorbite. I beneficiari di questo processo di innovazione sono nel 56% dei casi le famiglie consumatrici e in un quarto dei casi le imprese (14% quelle di significativa dimensione, 10% le PMI). L’importo medio dei progetti è di circa 4,5 milioni di euro, ma oltre metà dei progetti non raggiunge i 300mila euro.

L’informativa della Banca d’Italia è soprattutto interessante perché lascia intravedere alcune delle zone critiche del processo. La prima è che un decimo circa dei progetti viene abbandonato senza essere completato. Di non trascurabile importanza è poi il fatto che, soprattutto nelle banche  di minori dimensioni, si rilevano nei vertici aziendali carenze di competenze su tematiche di natura tecnologica, con inevitabili riflessi in fase di definizione delle linee di indirizzo  strategico. Inoltre, la  funzione di business risulta significativamente coinvolta come responsabile del processo prevalentemente nelle banche di maggiori dimensioni, meno nelle banche più piccole e ancor meno presso gli intermediari non bancari. 

Di segno potenzialmente sfavorevole è anche la constatazione che lo sviluppo di quattro quinti dei progetti vede l’intervento di società e istituzioni terze, molto spesso con l’incarico di realizzare l’intero progetto. In tre quarti dei casi questi operatori esterni hanno un rapporto con un solo intermediario finanziario.

C’è, infine, larga consapevolezza che la digitalizzazione abbia aumentato l’esposizione ad attacchi informatici, frodi e uso improprio dei dati personali. Le banche italiane hanno segnalato 14 incidenti gravi nel 2021, a fronte di 4 nel 2018. La dimensione relativamente contenuta di questi numeri non deve ingannare, perché a fianco di questi eventi maggiori ogni anno si registrano decine (forse centinaia) di episodi di minore importanza. Su questo terreno le banche preferiscono mantenere la massima discrezione, sia per evitare negativi riflessi reputazionali, sia perché l’adozione dei presidi richiesti dalla regolamentazione e dalla supervisione a fronte dei rischi tecnologici consente di limitare i danni.

Questo degli attacchi informatici comunque è un terreno problematico nel rapporto con le autorità di vigilanza. Da un lato le iniziative FinTech hanno spesso un carattere fortemente innovativo e non sono quindi facilmente/immediatamente inquadrabili sotto il profilo della generazione di rischi; dall’altro lato, proprio questa difficoltà di valutazione rafforza l’inclinazione conservatrice e prudenziale del supervisore, con il rischio di un rallentamento dell’intero processo di evoluzione digitale.