Gli Usa hanno già fatto grandi shopping di territori nella loro storia. Andrew Johnson ha comprato l’Alaska dalla Russia, Thomas Jefferson la Louisiana dai francesi, Woodrow Wilson le Indie occidentali danesi. Perciò l'idea di Trump di acquistare la Groenlandia non sembra bizzarra. E si ragiona sul prezzo
La campagna espansionista dichiarata da Trump è un ballon d’essai oppure no? Certamente non lo è il caso della Groenlandia. Prima di Trump, gli Usa avevano già fatto un tentativo di comprare l’isola: era il 1946, e nell’assetto della sicurezza postbellica ritenevano quel territorio strategico. Non era la prima volta, visto che già nel 1867 il segretario di Stato di allora, William H. Seward, aveva manovrato senza successo con il Congresso per lo stesso obiettivo. Quanto a Trump, è dal suo primo mandato che ha questa idea in testa.
L’operazione questa volta potrebbe riuscirgli?
Sorprendentemente, quella che sembrava una sparata viene oggi accreditata con un certo margine di possibilità.
Gli Usa hanno già fatto grandi shopping di territori nella loro storia. Andrew Johnson ha comprato l’Alaska dalla Russia nel 1867 per 7,2 milioni di dollari; Thomas Jefferson la Louisiana dai francesi nel 1803 per 15 milioni di dollari; Woodrow Wilson le Indie occidentali danesi, le Virgin Islands, nel 1917 per 25 milioni di dollari in monete d’oro.
Ma se l’offerta di Harry Truman rifiutata nel 1946 era di 100 milioni di dollari, quanto potrebbe valere oggi la Groenlandia, e su quali criteri si potrebbe intavolare la trattativa con la Danimarca, a cui appartiene pur essendo un territorio con una sua notevole autonomia amministrativa?
Oggi lo scenario è molto diverso da quello del 1946. Le terre rare di cui l’isola – la più grande del mondo – è ricca, i minerali preziosi del suo sottosuolo, sono diventati strategici: a titolo di esempio, basti considerare che possiede 43 delle 50 terre rare diventate indispensabili per i veicoli elettrici e altre tecnologie sostenibili.
Come strategica è la necessità di contrastare l’espansionismo cinese nell’area. Lo scioglimento dei ghiacci ne fa inoltre un territorio di rotte artiche concupite sia dalla Russia che dalla Cina, che gli Usa dunque non possono abbandonare a se stesso.
Insomma, se nel primo mandato di Trump la Groenlandia era essenzialmente un “land deal” che stuzzicava il suo animo da immobiliarista, ora è una partita “di sicurezza nazionale”, un controllo “assolutamente necessario”, come il neo presidente ha dichiarato.
Ma quanto può valere? Che offerta potrebbero fare gli Usa per sciogliere il diniego del governo danese («l’isola non è in vendita») e l’indignazione degli abitanti («l’isola è nostra, lottiamo per l’indipendenza»)?
Senza contare come la prenderebbe l’Unione europea, da cui la Groenlandia è formalmente uscita (eccetto che sotto il profilo degli scambi), ma nella quale mantiene lo status di Territorio speciale.
La Ue ha tutto l’interesse a mantenere quel legame e pagarne le spese, infatti ha firmato nel 2023 un memorandum di partenariato strategico per lo sviluppo delle catene del valore delle materie prime, affiancato da un pacchetto di 225 milioni di euro di cui la Groenlandia beneficia per il periodo 2021-2027 a sostegno dei settori dello sviluppo sostenibile, dell’istruzione e della crescita verde.
Alphaville, il brillante blog finanziario del Financial Times, aveva fatto una prima valutazione del possibile deal nel 2019, quando Trump lanciò l’idea, pare ispiratagli dal suo amico Ronald S. Lauder, tycoon della cosmesi.
Basandosi sulla stima delle riserve di barili di petrolio, sulla possibilità di usare la tecnologia del fracking sviluppata dagli Usa, le risorse di materiali rari, e il fatto che con il global warming molte aree che apparivano inabitabili ora potrebbero essere sviluppate sotto il profilo immobiliare, era arrivato a valutare la Groenlandia a 1,1 trilione di dollari.
Perché ora le cose potrebbero essere diverse?
Il New York Times ha fatto i conti e ha stimato che il suo valore potrebbe collocarsi in una forchetta tra i 12,5 miliardi di dollari e i 77 miliardi.
Il ragionamento parte dai prezzi di alcune acquisizioni precedenti. Ma più che quella dell’Alaska (che a valori di oggi è costata 150 milioni di dollari), sarebbe meglio partire da quella delle Virgin Islands.
Questo perché la prima non fu fatta per ragioni di sicurezza nazionale, la seconda sì, come sarebbe il caso della Groenlandia oggi (stando alle parole di Trump). La differenza, dal punto di vista economico, sta nel fatto che il “valore difensivo” sta nella localizzazione geografica e non nell’estensione dell’isola. Insomma non è la dimensione che conta.
Per attualizzare il valore dell’acquisto dele Virgin Islands, si è quindi usato il criterio della variazione del Pil degli Usa e della Danimarca dal 1917 a oggi. Il risultato è la fascia bassa della forchetta: 12,5 miliardi di dollari.
Attualizzando alla stesso modo il prezzo – allora considerato troppo alto – dell’acquisto dell’Alaska, si arriva al limite superiore della forchetta, vale a dire i 77 miliardi.
Queste nuove valutazioni prescindono dal valore delle risorse minerarie della Groenlandia, e questo spiega perché sono tanto lontane dalla stima fatta nel 2019 di 1,1 trilioni di dollari: lo sfruttamento di quelle risorse, si osserva, non andrebbe a beneficio solo del governo degli Usa ma andrebbe diviso con le società minerarie che vincerebbero i diritti di estrazione.
Più che il prezzo, oggi l’ostacolo maggiore è rappresentato dalla difesa della popolazione – 56 mila abitanti che vivono di caccia e pesca – di fronte all’aggressione economica dell’ambiente in cui abitano. È forte però la voglia di indipendenza dal governo danese, vissuto sempre come colonialista.
L’offerta di Trump potrebbe perciò trovare orecchie pronte al compromesso. E potrebbe suonare gradito anche ai danesi l’argomento di sganciare l’isola dalla sovranità della corona, visto il costo che ogni anno devono versare in sussidi: 700 milioni di dollari l’anno, circa un terzo delle entrate pubbliche.
Insomma, nel mondo degli affari l’imperialismo trumpiano è preso sul serio, e certamente si continuerà a ragionare su quello che appare come l’affare del secolo.