Dopo il fallimento in Afghanistan, come contrastare una ripresa del terrorismo? Ecco una proposta: andare nella direzione della promozione della sicurezza, usando lo strumento degli aiuti umanitari e monitorandoli attraverso l’indice di sviluppo umano, concepito a suo tempo da Amartya Sen e realizzato nell’ambito delle Nazioni Unite
Il ritiro mal gestito dell’esercito USA dall’Afghanistan, dopo la rapida conquista di Kabul il 15 agosto, ha lasciato un problema aperto: come si difendono le democrazie occidentali di fronte alle minacce del terrorismo internazionale, diventate assai rilevanti da almeno due decenni – se, come punto di partenza, consideriamo l’attentato perfettamente riuscito, forse al di là delle stesse attese di Bin Laden, alle torri gemelle di New York il 9 settembre 2001?
La risposta a suo tempo era stata l’invasione del paese che aveva dato le basi operative agli attentatori, ovvero dell’Afghanistan e, poi, per evitare che accadesse di nuovo, l’impegno a trasformare quel paese in un regime moderno, quasi democratico, con una propria costituzione, una burocrazia, un giudiziario, un esercito, oltre a un’assemblea legislativa bicamerale, un governo, un presidente eletto direttamente, ed elezioni – sia pure difettose in quanto non completamente competitive, corrette e libere, e nel 2020 assai poco partecipate. Per venti anni gli Stati Uniti hanno investito in questo progetto notevoli risorse che si sono aggiunte a quelle spese per mantenere un proprio contingente militare, attivo insieme a quelli di altri paesi alleati.
L’obiettivo della democratizzazione dell’Afghanistan non è stato centrato e, provando a giustificare il fallimento, Biden ha recentemente offerto una narrativa ben diversa degli obiettivi del ventennio di presenza americana nel paese: non un ampio progetto di democratizzazione, come era stato presentato all’indomani dell’11 settembre, ma un più chirurgico e limitato sradicamento del terrorismo. A questo proposito in una conferenza stampa dello scorso 16 agosto ha dichiarato: «Siamo andati in Afghanistan quasi vent’anni fa con obiettivi chiari: prendere quelli che ci avevano attaccato l’11 settembre 2001 e assicurarci che Al Qaeda non avrebbe usato l’Afghanistan come base dal quale attaccarci di nuovo. Ci siamo riusciti. Abbiamo smantellato Al Qaeda in Afghanistan […] La nostra missione in Afghanistan non è mai stata quella di costruire la nazione. Non abbiamo mai pensato di dover costruire una democrazia centralizzata e unificata».
Come hanno dimostrato in questi anni i molti attacchi in diverse parti del mondo, neanche il terrorismo è stato combattuto efficacemente, né tanto meno sradicato. La presenza americana in Afghanistan, tuttavia, ne ha contenuto il consolidamento in quel territorio e una sua diffusione nel resto del mondo. Il ritiro dall’Afghanistan pone, quindi, un problema di possibile riviviscenza del fenomeno terroristico e ci deve chiedere come fare fronte a questa nuova e più incerta situazione.
Si potrebbe immaginare di intervenire di volta in volta con spedizioni “punitive”, dopo un attentato? È evidente che l’intervento ex-post non risolverebbe il problema e, sul lungo periodo, l’efficacia deterrente della ritorsione sarebbe limitata. Si potrebbe ricorrere a un uso sistematico e diffuso dell’intelligence, che attraverso proprie reti capillari mettesse in grado il governo USA o altri governi occidentali di intervenire prevenendo attentati in corso di pianificazione? Ma anche questa soluzione ormai non sembra più praticabile. In paesi come l’Afghanistan o altri sarebbe molto difficile per l’intelligence americana creare una rete capillare ed efficiente in grado di svolgere i necessari compiti di prevenzione. Il problema rimane, quindi, irrisolto?
Sembra di trovarsi in una sorta di gioco dell’oca in cui si ricomincia dall’inizio, ma con alcuni cambiamenti non marginali. Innanzi tutto, per l’evoluzione della situazione internazionale rispetto a venti anni fa e la fine oggettiva dell’egemonia USA, che ha anche rinunciato al ruolo centrale avuto dai primi anni ‘90 del secolo scorso, i giocatori devono in parte cambiare. Infatti, qualsiasi iniziativa di contrasto al terrorismo non potrà non includere Putin, per il quale il tema è assai rilevante avendolo combattuto a casa propria, e la Cina di Xí Jìnpíng, che ha anche interesse a contrastarlo.
Questo comporta, inevitabilmente, l’opportunità di fare ricorso a istituzioni internazionali, più o meno formalizzate. In concreto, usando il G20, come arena di confronto e di ricerca di accordi – come sembra avere immediatamente inteso Draghi – la strada percorribile sembra andare nella direzione della promozione della sicurezza, usando lo strumento degli aiuti umanitari e monitorandoli attraverso l’indice di sviluppo umano, concepito a suo tempo da Amartya Sen e realizzato nell’ambito delle Nazioni Unite (l’UNDP).
L’indice di sviluppo umano misura la cura della salute, la diffusione dell’istruzione, la creazione di standard di vita accettabili in paesi che sono già o possono diventare culla del terrorismo ed è lo strumento di politiche di sviluppo che possono prevenire il crearsi di condizioni favorevoli al terrorismo. In Afghanistan, ancora oggi uno dei paesi più poveri del mondo in termini di reddito pro-capite, ci potrebbe essere spazio per politiche del genere gestite dalle Nazioni Unite.
In questo senso, verrebbe proposto il binomio ‘sicurezza e sviluppo’, e si abbandonerebbe realisticamente l’altro binomio a lungo inseguito, quello ‘sicurezza e democrazia’, che ha avuto successo anni fa, ad esempio, in Europa orientale, ma che proprio in quest’area sta mostrando dei parziali fallimenti, ad esempio, in Ungheria e – in misura inferiore – anche in Polonia. Sapranno i leader delle principali potenze cogliere pragmaticamente quest’occasione
*Pubblicato il 14.09.2021 su Il Sole 24 Ore.