approfondimenti/diritto
Prove tecniche di colonizzazione

Gli hedge fund americani rifiutano la ristrutturazione del debito argentino. E il tribunale di New York impone al Paese sudamericano di riconoscere l’intero valore nominale e gli interessi dell’investimento. Così però si rischia il default del Paese. E si avvalora la tesi di un tentativo di assoggettamento da parte degli Usa

Damiano Battistelli

Nelle ultime settimane la stampa internazionale e le agenzie di rating hanno agitato lo spettro del “default” argentino. C’è chi, come Standard & Poor, volendo sottolineare la diversità dell’attuale situazione con quella del primo “default”, datato 2001-02, ha addolcito i toni parlando di “default tecnico”. Tale scenario è frutto della sentenza dello scorso 31 luglio emessa dal tribunale di New York ad opera del giudice Thomas Griesa, il quale ha imposto all’Argentina l’obbligo di riconoscere, ad un gruppo minoritario di investitori americani che non ha acconsentito alla ristrutturazione del debito (cd. “holdouts”), il 100% del valore nominale e degli interessi (in totale, circa 1,6 miliardi di dollari) di emissioni in precedenza già rinegoziate. Al fine di rendere immediatamente esecutiva la sentenza, il tribunale di New York, lo scorso 1 agosto, ha bloccato i 539 milioni di dollari che l’Argentina, il 30 giugno u.s., ha depositato presso la Bank of New York Mellon al fine di rimborsare, secondo la legislazione statunitense, scadenze del debito ristrutturato nel 2005 e nel 2010.

Preme anzitutto sottolineare che i creditori “dissidenti” (che rappresentano circa il 7% del totale dei creditori delle pregresse emissioni rinegoziate) non sono quelli “originari”, bensì un gruppo di fondi “avvoltoio” (questo l’epiteto loro attribuito dalla stampa internazionale), rappresentati in buona parte dalla Nml Co. di Paul Singer i quali, cavalcando l’onda del panico dei risparmiatori di non vedere rimborsato il loro investimento (a seguito della dichiarazione di insolvenza del 2002), hanno rastrellato sul mercato “bond” a prezzi stracciati.

Il giudice Griesa è addivenuto alla formulazione della sentenza attraverso una più che discutibile interpretazione di una clausola spesso inserita nelle documentazioni che accompagnano le emissioni dei titoli di debito: la clausola “pari passu”(ossia parità di trattamento). Con essa, l’emittente si impegna a trattare con uguaglianza di criteri e di pagamento tutti i risparmiatori. Secondo il tribunale di New York, il governo della presidentessa Kirchner violerebbe tale clausola non riconoscendo agli “holdouts” il pagamento totale dei loro crediti e riconoscendo invece agli “holdins” (ossia i creditori che hanno acconsentito alla ristrutturazione) il rimborso “condonato”.

Al momento, tutti i tentativi di negoziazione tra il governo di Baires e i creditori “ribelli” sono andati falliti. La posizione di questi ultimi è stata intransigente: non sono disposti ad accettare rimborsi a condizioni simili a quelle del 2005-2010, nonostante ciò significhi per loro un profitto netto del 150%.

L’Argentina però non può spingersi oltre. Il problema non è tanto il “quantum” rivendicato dai “fondi avvoltoi”, essendo le attuali riserve in dollari del paese (28 miliardi circa) in grado di far fronte ad una simile uscita, quanto piuttosto lo scenario insostenibile che si verrebbe a delineare laddove Baires esaudisca le loro pretese. Infatti, riconoscendo alla Nml gli 1,6 miliardi rivendicati, sia gli “holdouts” rimanenti, sia gli “holdins”, potrebbero reclamare lo stesso trattamento – ossia il 100% del debito originale – appellandosi alla clausola Rufo (Right Upon future options) apposta nei contratti a suo tempo sottoscritti, che scade il 1 gennaio 2015, la quale implica che ogni miglioramento di condizioni riconosciuto ad un creditore deve estendersi a tutti gli altri.

Proprio per scongiurare un simile scenario, lo scorso 11 settembre, il Congresso argentino ha “nazionalizzato” il proprio debito approvando la legge che permette di trasferire a Baires la gestione  del  debito  “sovrano”  detenuto  da  soggetti  esteri,  facendo  così  venire  meno  ogni ingerenza da parte di tribunali stranieri; la sentenza del tribunale americano sembra dunque aggirata:  se  i  creditori  accetteranno  il  “nuovo  swap”,  potranno  ricevere  le  cedole  tramite giurisdizione e intermediario argentino. Il primo pagamento sbloccato è stato quello della tranche del 30 settembre: il 1 ottobre, circa 160 milioni di euro sono stati depositati presso il Banco della Nacion (che ha così sostituito Bank of Ny Mellon) che a sua volta li distribuirà ai “bondholder”. L’efficacia prolungata della legge è tuttavia incerta. Infatti, ci sono creditori che sono costretti legalmente a incassare i rimborsi solo a New York e il giudice Griesa, oltre ad aver dichiarato l’illegalità della legge, ha minacciato severe ripercussioni che potrebbero sfociare in pesanti sanzioni pecuniarie per ogni giorno di ritardo dal mancato rispetto della sua pronuncia.

Un simile scenario è ricco di spunti di riflessione, sia di diritto che di natura politico-economica, degni di approfondimento.

Quanto ai temi giuridici, anzitutto viene da chiedersi fino a che punto una corte statunitense abbia l’autorità di far fallire una nazione per inseguire gli interessi di alcuni fondi speculativi.

Che la giurisdizione americana sia quella cui debbano essere assoggettati i prestiti obbligazionari sui quali i fondi rivendicano le loro pretese, è fuori discussione. Infatti, nel Regolamento del prestito rinegoziato l’Argentina, per riacquistare fiducia agli occhi dei risparmiatori, aveva previsto che i creditori, in caso di controversia o di mancato pagamento, avrebbero potuto ricorrere al tribunale del luogo dove i “bond” fossero stati emessi: il tribunale di New York appunto; i creditori, pensavano in Sud America, si sarebbero sentiti maggiormente tutelati dalla legge Americana piuttosto che da quella Argentina.

Non avevano fatto i conti con Griesa, ossia un giudice della corte Federale di New York (cioè un giudice locale, uno dei tanti) che impedisce ad uno Stato sovrano di effettuare dei pagamenti a terzi per salvaguardare interessi privati statunitensi. Insomma, un vero e proprio caso di “abuso d’ufficio” a “stelle e strisce”. È indubbio che l’eventuale accettazione di una simile pronuncia darebbe luogo ad un precedente molto pericoloso applicabile ad ogni tipo di ristrutturazione finanziaria. Negli Stati Uniti, per dirla come il Ministro dell’Economia argentina Kicillof, non vi sarebbe più “sicurezza giuridica”. In altri termini, nessuno potrebbe dirsi sicuro di potere pagare (o di vedersi pagato) un debito a causa di giudici “prezzolati” che, in ogni momento, potrebbero bloccare i versamenti. La sentenza rischia dunque di causare un vero e proprio effetto “boomerang” sull’America intesa come centro della finanza mondiale perché, se fosse vero che il destino di uno Stato sovrano terzo è deciso con le regole finanziarie e le leggi di New York, altri governi stranieri difficilmente emetteranno debito in America, privilegiando al contrario quei paesi (ad es. l’Inghilterra) che hanno una legislazione volta a prevenire iniziative del genere promosse da creditori speculativi come gli “hedge fund”.

Inoltre, non è esente da critiche il “punto” di diritto relativo alla clausola “pari passu” sulla cui più che discutibile esegesi del tribunale di New York poggia la motivazione della sentenza. Infatti, tali clausole, per la loro ambiguità, sono da sempre oggetto di dibattito in dottrina.

Come in precedenza accennato, l’emittente, apponendo tale clausola, si impegna a trattare tutti gli obbligazionisti allo stesso modo.

Questa parità di trattamento si sostanzia, secondo l’interpretazione data da Griesa in un vero e proprio impegno di “equal payment” assunto dall’emittente; obbligo che, sempre secondo il giudice, verrebbe violato laddove l’Argentina disponesse, alle condizioni a suo tempo “rinegoziate”, il rimborso del prestito a favore del 93% di obbligazionisti che hanno aderito al piano di ristrutturazione. In altri termini, la clausola si tradurrebbe in un impegno dell’emittente a rimborsare il 100% dell’investimento iniziale. Questa interpretazione è, ad avviso di chi scrive, profondamente contraddittoria perché, se accolta, costituirebbe essa stessa una violazione alla rovescia del principio di eguaglianza; il 7% dei creditori “holdouts” (che ha comprato titoli ad un prezzo ben inferiore rispetto a quello di “carico” degli altri obbligazionisti) vanterebbe dei diritti più significativi rispetto agli altri creditori, in quanto dovrebbero essere rimborsati per la somma totale e prima degli “holdins”. L’interpretazione di Griesa appare dunque una vera e propria forzatura dettata da interessi di natura politica. Infatti, la clausola nasce con ben altra finalità: garantire ai creditori, in caso di insolvenza, un “equal ranking”. Ciò starebbe a significare che, in caso di “default”, tutti i possessori della stessa obbligazione hanno lo stesso grado di prelazione: non è possibile che alcuni vengano rimborsati ed altri no, così come (ma abbiamo visto che la pronuncia viola questa ipotesi) non è ammissibile che taluni siano pagati prima di  talaltri. Peraltro, intendere la clausola “pari passu” secondo l’accezione intesa dal tribunale di New York cela un rischio che alcuni potrebbero definire morale (cd. “moral hazard”) ma, ad avviso di chi scrive, avrebbe gli estremi per tradursi in un’informazione ingannevole fornita “ab origine” dall’emittente nel prospetto informativo. Infatti, coloro che a suo tempo hanno sottoscritto titoli di stato argentini, lo hanno fatto perché il “rischio emittente” cui andavano incontro era compensato da tassi di interesse così elevati da rendere l’investimento appetibile. Se Baires si piegasse alla volontà del tribunale, agli investitori verrebbe riconosciuto il rimborso totale del prestito; ciò vorrebbe dire che l’investimento iniziale era privo di rischio. Una simile previsione avrebbe dovuto essere normata all’interno del prospetto, così da renderne edotto l’investitore. Si pensi a quei risparmiatori che, a fronte della dichiarazione di “default” e del clima di sfiducia sulla ripresa economica del paese, invertirono la loro posizione ponendosi in “lettera”. Ben potrebbero rivendicare il risarcimento per la mancata ricezione dei frutti percepibili dall’investimento (lucro cessante). V’è poi da tenere in considerazione l’impatto che una simile giurisprudenza avrebbe sulle future emissioni. Se la clausola fosse dunque intesa come una sorta di “garanzia” dell’emittente a rimborsare sempre e comunque il debito, svuotando così di fatto l’investimento da ogni rischio finanziario, gli stati intenzionati ad emettere debito difficilmente lo faranno a New York, vuoi per non far pendere sul loro capo una simile spada di Damocle (infatti, dovrebbero mettere a garanzia dell’emissione un collaterale tale da coprire l’intero valore nominale del prestito), vuoi perché un investimento privo di rischio farebbe scendere sensibilmente i tassi di interesse così da non rendere più accattivante l’investimento stesso. Se i rendimenti dei “bonos” si livellassero a quelli del “bund”, non è difficile immaginare quale dei due strumenti finanziari verrebbe sottoscritto dall’investitore.

Volendo giungere a delle conclusioni, è chiaro che la sentenza ha fatto emergere un palese vuoto normativo sull’eccessivo potere di ricatto dei fondi speculativi, in questo caso estroflesso verso un paese, quale è l’Argentina, da sempre in difficoltà economica e sulle cui ricche materie prime (di recente in Patagonia è stato scoperto uno dei più grandi giacimenti di gas) sono orientate le mire degli investitori stranieri (in particolar modo americani). Spingere un paese al fallimento, o meglio, “far credere” che questo sia in procinto di fallire (un paese che deposita le somme presso una banca per onorare i suoi impegni non può considerarsi in “default”, così come non può chiamarsi “default tecnico” la sospensione dei pagamenti solo per taluni creditori – ossia quelli con debito in valuta americana -) costringendolo a regalare le sue materie prime, altro non è che una nuova tecnica di colonizzazione estranea ad ogni logica di investimento finanziario (un capital gain del 150% – quale è quello che vantano i “fondi avvoltoio” – dissuaderebbe qualsiasi investitore di “sani principi” a ricorrere ad un tribunale). La guerra è ancora lunga, ma intanto una battaglia è stata vinta: il Consiglio dei Diritti umani dell’Onu ha adottato a Ginevra una “risoluzione di condanna” nei confronti degli hedge funds. Un punto importante a favore dell’Argentina, soprattutto perché ottenuto in campo neutro, a Ginevra, non a Buenos Aires tra i sostenitori della presidentessa Kirchner né a New York tra i supporter del giudice Thomas Griesa. Insomma, volendo stressare la natura del “volatile” cui i fondi “hedge” sono stati associati, anche nella imperturbabile Svizzera si sono resi conto che, per una volta, ad odorare di marcio non è la “preda” ma il “predatore”.