PATTO DI STABILITA' E CRESCITA
Proposte per una riforma del Patto

Singoli economisti e prestigiosi think tank hanno già sviluppato molte idee per le nuove regole da applicare dopo la sospensione per l'emergenza. Ecco quelle sul tavolo, esaminate una per una 

Paola Pilati

La riforma del Patto di stabilità è la grande sfida che l’Europa politica deve affrontare nel 2022. Una sfida che metterà alla prova la solidarietà e l’unità d’intenti dimostrata durante la pandemia. Ma anche un test di come il Continente vorrà rimettersi in cammino dopo l’emergenza: avendo imparato dagli errori del passato – vincoli troppo rigidi, regole “stupide”, come le definì Romano Prodi – oppure ostinandosi a non cambiare niente per la paura di concedere troppo. Per esempio, uno spazio fiscale comune.

Un travaglio in cui l’Europa non è sola: secondo uno studio del Fondo monetario, a fine 2021 tra i 105 paesi che hanno adottato regole per disciplinare il bilancio pubblico (erano solo 10 nel 1990), il 90 per cento ha sforato il limite del deficit durante la pandemia, uno su due il limite del debito. E non è aria di farli ritornare nei ranghi come se niente fosse successo.

La lettera di Emmanuel Macron e Mario Draghi sul “Financial Times” l’antivigilia di Natale ha varato ufficialmente un dibattito pubblico che fino a quel momento restava sottotraccia. L’ha varato con un giudizio secco, forse rivolto alle orecchie dello European Fiscal Board, il guardiano dei recinti fiscali: «Le regole europee avevano bisogno già prima della pandemia di una riforma, perché sono troppo oscure e complesse». E ha scelto la rotta della navicella: «Ci vuole un framework credibile, trasparente e in grado di sostenere la nostra collettiva ambizione di una Europa più forte e giusta», anche impegnandosi a ridurre il suo indebitamento, ma senza nuove tasse o con sacrifici alla spesa sociale. Bensì con riforme strutturali. I debiti fatti per finanziare gli investimenti per il futuro dovranno essere favoriti dalle nuove regole del gioco.

A questo punto, altri protagonisti sono scesi in campo. «Sono un falco amico», ha affermato il ministro delle Finanze tedesco, Christian Lindner, «sono aperto alla discussione». «Serve una riduzione credibile del debito, ma graduale e sostenibile», ha fatto un passo avanti un altro falco, il vicepresidente della Commissione europea Valdis Dombrovskis. «Il dibattito tra cicale e formiche è sorpassato», ha buttato acqua sul fuoco delle vecchie divisioni il ministro francese delle Finanze Bruno Le Maire. Un clima di concordia autentico? O solo apparente, visto che tutti sanno che ci vorrà del bello e del buono a convincere l’opinione pubblica dei paesi non indebitati che il nostro debito pubblico al 160 per cento del Pil non li mette in pericolo?

Di certo al tavolo della riforma, quando si stringerà per decidere, i confronti saranno assai più muscolari. Lo dimostrano gli esercizi degli economisti che squadernano tutto un ventaglio di possibili soluzioni, ma sia quella più radicale che quella più conservativa devono muoversi accortamente tra Scilla e Cariddi: da un lato evitare che il comportamento sbagliato di uno dei paesi membri obblighi gli altri a intervenire in suo supporto, dall’altro assicurare la sostenibilità dei paesi più indebitati di fronte al mercato, ma lasciando loro la libertà di gestire la propria politica fiscale a seconda del ciclo economico.

A rendere la situazione più intricata, a questi due si aggiunge tutto un corollario di obiettivi: quello di liberare la Bce del suo fardello di debiti evitando di allagare di titoli il mercato; quello di farle riconquistare il suo ruolo di regista della politica monetaria liberandola da quello della politica fiscale che si è sobbarcata dal wathever it takes in poi. Ma anche l’obiettivo, nutrito da alcuni, di spianare il terreno a un bilancio comune europeo, che possa usare tutti gli strumenti, tasse incluse, per svolgere un ruolo anti-ciclico nelle crisi senza soffocare lo spazio dei mercati.

Troppi obiettivi, forse, per delle regole che tutti dicono di volere più semplici. I tempi però sono stretti. Non sarebbe meglio tenere le regole vecchie, rendendole solo meno procicliche? dice qualcuno. Niente affatto, meglio rimpiazzare radicalmente il Patto di Stabilità e crescita con una regola unica, dicono altri. Ma l’esercizio intellettuale degli economisti scesi in campo è andato oltre, immaginando di alleggerire il peso del debito con l’uso della golden rule che toglie dal calcolo la spesa per investimenti, o proponendo un uso “personalizzato”delle regole: uniche, ma applicate su misura per ciascun paese. E facendo esordire un’altra istituzione sovranazionale a fianco della Bce: un’Agenzia del debito con la missione di prendersene cura per conto di tutti i paesi dell’area.

Vediamo le proposte oggi sul tavolo.

IL CONSIGLIO DEI CONSIGLIERI

È la soluzione che dà corpo alla visione espressa dall’asse italo-francese, visto che porta la firma del più ascoltato consigliere economico di Draghi a palazzo Chigi, Francesco Giavazzi, e di Charles Weymuller, che all’Eliseo è il consulente per le questioni macroeconomiche di Macron (insieme alle firme di Leonardo D’Amico, Veronica Guerrieri e Guido Lorenzoni). Bilancia l’imposizione di tetti (quello della spesa e quello del debito) che si mantengono uguali per tutti, con l’aiuto della golden rule che favorisce “le spese per il futuro” cioè consente al debito fatto per sostenerle un tempo di rientro più lungo. Insomma il messaggio è rigore, ma anche nuovo spazio fiscale ai paesi membri per le loro politiche economiche.

Ha inoltre come ingrediente forte la creazione di un’Agenzia del debito (European Debt management agency) che acquisterà sul mercato porzioni di debito (proporzionate al Pil di ciascun paese, e con un tetto pari all’incremento di debito creato durante la pandemia), che verranno quindi eliminate dai conti nazionali e portate a livello Unione europea. Ma attenzione: il debito non si cancella, ma si rimpiazza con quello che dovrà fare la nuova Agenzia per finanziarsi sul mercato.

Nel passaggio, il debito diventerà automaticamente “migliore” del precedente, perché sarà garantito dalla capacità dell’Agenzia – organismo europeo – di ripagarlo, potendo la Ue contare sui trasferimenti degli Stati membri.

Ma quali tetti questa riscrittura del Patto di stabilità e crescita dovrà rispettare? Innanzitutto un tetto alla crescita della spesa primaria di ciascun paese, modulato in modo da ottenere una riduzione del rapporto debito/Pil nell’arco di 10 anni. Questa riduzione potrà tenere un passo più lento per la parte di debito contratta durante le crisi, e per quella destinata agli investimenti per il futuro.

Quanto al parametro del debito – il tema più scottante -, Giavazzi&C bocciano l’idea di tetti diversi per ciascun paese, in relazione al loro punto di partenza. E abbracciano la proposta fatta dal managing director dell’Esm (European Stability Mechanism) Klaus Regling – colui che quelle regole all’epoca le ha negoziate – di alzare il paramento-obiettivo dal 60 per cento al 100 per cento.

IL DEBITO DIVENTA PERPETUO

Il paper di Massimo Amato e Francesco Saraceno propone anch’esso un’Agenzia del debito. Sostiene la necessità della golden rule per escludere dal calcolo del deficit gli investimenti pubblici. Ma è solo in apparenza simile alla proposta Giavazzi&C. Perché gli autori, il primo docente alla Bocconi, il secondo a SciencesPo e alla Luiss, disegnano un meccanismo completamente nuovo per la governance fiscale europea: creare un debito unico. Un Tesoro federale, dunque? No, i due economisti ammettono che l’obiettivo è irrealistico. Si tratta, piuttosto, di una sorta di “Tesoro sintetico” che serve a emettere eurobond per finanziare gli Stati membri, mantenendo però una differenziazione tra loro. Quella espressa dal merito di credito di ciascuno.

Un’Agenzia, garantiscono, esente quindi dal difetto (che attribuiscono invece a quella pensata da Giavazzi&C) di una mutualizzazione del debito, e da quello di moral hazard. E che potrebbe essere subito operativa utilizzando un organismo che già c’è, cioè l’ESM, per noi Mes, il fondo “salvastati”, nato per intervenire a tutela della stabilità finanziaria dell’area euro, che può essere riconvertito rapidamente su questa missione (gli 80 miliardi già versati dai paesi sono sufficienti per il decollo).

Il ragionamento da cui i due economisti partono per spiegare il meccanismo ideato è il concetto di sostenibilità del debito. Che è cosa diversa da quello di solvibilità. Applicare al debito pubblico lo stesso concetto di un debito privato è sbagliato, argomentano, perché se quest’ultimo va giudicato in base alla capacità di ripagarlo considerando i flussi futuri delle entrate del debitore, per lo Stato ciò non ha senso. Per lo Stato, infatti, i flussi di entrate, cioè le tasse, sono finiti in un anno, ma infiniti nel tempo. Hanno una natura “perpetua”. Il debito pubblico è quindi per definizione “sostenibile” e ad esso il mercato può attribuire sempre un valore, indipendentemente dalla sua data di scadenza.

Questa premessa teorica porta, sul piano pratico, a una conclusione: di questo debito non è importante il rimborso del capitale, ma il pagamento degli interessi, cioè la sua sostenibilità.

Come garantirla, tacitando le paure dei mercati, affamati di safety? A questo penserà l’EDA, l’Agenzia del debito, protetta da uno schema assicurativo che fa le veci del capitale versato.

L’EDA emetterà dei bond “plain vanilla” (cioè proprio basici, standard) che ovviamente avranno una loro durata finita, ma che serviranno per finanziare gli Stati con prestiti perpetui, a durata infinita. I paesi non saranno tutti uguali davanti all’EDA quanto a costo del prestito: il tasso di ciascuno seguirà uno schema di ammortamento perpetuo in linea con il suo specifico merito di credito. Più sei virtuoso, meno paghi, e viceversa.

A definire il rischio-paese in base al quale l’EDA finanzierà il debito (cioè il rinnovo delle vecchie emissioni e quelle nuove) ci penserà la Commissione europea, tenendo in considerazione lo stato di salute delle finanze nazionali e il possibile deterioramento della sua economia. E siccome l’EDA non compra il debito, ma lo garantisce, da un lato restano in carico ai singoli paesi tutti gli impegni relativi (incluso quello di far fronte al proprio debito in caso di bancarotta), e dall’altro ai paesi va il vantaggio di finanziarsi attraverso un’Agenzia che consente di minimizzare il costo delle emissioni, perché i tassi dei bond saranno inferiori a quelli sopportati dai singoli.

Che cosa sarebbe successo se l’EDA fosse stata operativa nel periodo 2002-2015? È la domanda che gli autori si fanno in un esercizio controfattuale sui casi Germania e Italia. Poiché l’aumento degli spread che si è verificato allora non ha rispecchiato un vero peggioramento dei fondamentali, ma solo una distorsione delle aspettative (paura di insolvenza e crollo dell’euro), la presenza di un’Agenzia del debito avrebbe evitato il disastro. Avrebbe rassicurato i mercati, evitato la discesa del rating e dei tassi in territorio negativo della Germania. Insomma l’EDA avrebbe agito al posto della BCE (ma senza le distorsioni prodotte dalla regola della capital key) e salvato il Continente dalla sua crisi peggiore.

IMPEGNI SU MISURA

La proposta di Astrid, il centro studi guidato da Franco Bassanini, firmata da Massimo Bordignon, docente alla Cattolica di Milano e componente dello European Fiscal Board, e da Giuseppe Pisauro, ex presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio e docente alla Sapienza di Roma, fa piazza pulita delle regole uguali per tutti – il 3%, il 60%, il 20mo di riduzione del debito l’anno – e propone “single targets e single operational rules” basate su elementi osservabili e non sensibili al ciclo economico. Quindi addio alle cabale del Pil potenziale e dell’output gap, che si sono dimostrati degli inutili rompicapo. Ogni paese avrà il suo obiettivo specifico da raggiungere in un tempo prestabilito, da 5 a 10 anni.

La regola operativa da seguire si basa sul rispetto di una spesa – al netto dei componenti ciclici e delle tasse discrezionali – che potrà crescere entro un tasso definito in base alle previsioni di crescita del Pil reale del paese nei successivi 3 anni. Quanto al debito, ogni paese si impegnerà a ridurlo di un certo ammontare nel lasso di tempo che gli è stato accordato.

Ma non potrà indugiare o tirare a campare, perché ogni anno dovrà passare un esame di fronte alla Commissione europea per rendere conto dei progressi fatti. La Commissione avrà comunque un occhio di riguardo per una parte della spesa, quella di migliore qualità, fatta per la crescita o per i progetti comuni europei, come la transizione verde. Anzi, su questo fronte i due economisti si spingono a prefigurare la possibilità che, proprio per creare un ambiente che favorisca una politica fiscale sovranazionale, la Ue potrebbe rendersi disponibile a finanziare una parte della spesa per i progetti di investimento con debito comune.

Un voto, un augurio. Per ora si potrebbe cominciare accettando una proposta, dicono gli autori: che i 360 miliardi di debito Ue che restano abitualmente nel bilancio dell’Unione, non vengano ripagati ma rinnovati e usati per aiutare gli Stati a realizzare le politiche comuni.

MISSIONE MES

Il paper di Stefano Micossi, direttore generale Assonime e presidente del comitato scientifico della Luiss-SEP School, si applica non tanto all’analisi delle regole del Patto di Stabilità e crescita e alla loro riscrittura, ma ad affrontare un aspetto cruciale per la stabilità dell’Eurozona: che cosa fare del debito pubblico accumulato dal sistema europeo delle banche centrali, una volta venuta meno la ragione di tenerli. Non rinnovarli o riversarli sui mercati porterebbe – vista la loro quantità- a una sicura turbolenza finanziaria, pericolosa soprattutto per i paesi più indebitati come il nostro.

Poiché quei titoli sono stati accumulati nell’ambito di programmi d’acquisto per contrastare la deflazione, ora che l’inflazione si riporta al target del 2 per cento, il momento è venuto per pensare ad allocarli dove non creeranno guai. Ma quali mani altrettanto sicure delle banche centrali potranno custodirli? Una istituzione in grado di farlo c’è già, ed è il Mes (quello che Amato e Saraceno vogliono trasformare in Agenzia del debito), l’organismo creato per dare aiuto ai paesi in difficoltà per la pandemia.

Il Mes non avrebbe alcuna difficoltà a impegnarsi nella nuova missione grazie ai Trattati che l’hanno reso operativo. Dopo aver emesso bond per finanziarsi sul mercato (che avrebbero la tripla A), dovrebbe fare acquisti graduali di titoli pubblici dalla Bce, fino ad arrivare a mettere insieme un portafoglio di titoli equivalenti al 20-25 per cento del Pil dell’area euro, pari a 2,5-3 trilioni di euro. Gli acquisti dovrebbero rispettare le stesse proporzioni seguite dalla banca centrale (le capital key) ed essere fatti a prezzi di mercato. Soprattutto, un paese potrà essere ammesso agli acquisti solo se il suo debito pubblico sarà sostenibile.

L’elefante nella stanza resta comunque come gestire il debito quando scadrà il tempo di sospensione del Patto, e Micossi non si sottrae: il debito acquistato dal Mes non dovrebbe concorrere al calcolo del superamento della soglia, afferma. Questo ridimensionerebbe il debito medio dell’area euro dal 100 per cento attuale all’80 per cento. Per quadrare il cerchio, basterebbe aumentare il parametro del 60 per cento del rapporto debito/Pil, ormai irraggiungibile, a un più ragionevole 80 per cento, e il problema debito sarebbe risolto alla radice. Micossi non nasconde le difficoltà di trovare un agreement in questo senso dal punto di vista politico. Ma per quanto riguarda l’uso del Mes in questa nuova chiave, non ci sarebbero ostacoli legali perché il Patto di Stabilità non viene affatto violato. Come pure il nuovo ruolo del Mes non sarebbe incompatibile con il trattato che ne ha accompagnato la nascita.

ISPIRAZIONE KOALA

Carlo Cottarelli e Giampaolo Galli, il tandem di economisti che guida l’Osservatorio dei conti pubblici italiani dell’università Cattolica di Milano, sembrano andare controcorrente quando, all’inizio della proposta avanzata, reclamano regole fiscali più credibili e vincolanti del passato. E anche quando silurano l’idea di sottrarre dal calcolo della spesa pubblica la parte dedicata agli investimenti: non tutta la spesa corrente è cattiva (per esempio quella per la sanità o l’istruzione), viceversa non tutti gli investimenti sono buoni. E pure quando bocciano l’idea di una regola della spesa in nome del fatto che la Ue non può mettere limiti alla libertà degli Stati di stabilire le loro politiche di bilancio.

Eppure da questa coppia di apparenti conservatori viene avanzata una proposta dal sapore esotico: una ibridazione tra l’approccio alla stabilità fiscale scelto dall’Europa, con quello adottato in Australia e Nuova Zelanda. In altri termini, si tratta di mischiare la regola delle soglie quantitative made in Europe con la programmazione di bilancio a medio termine che in quei paesi lontani stabilizza le finanze pubbliche.

Cottarelli e Galli prospettano due soluzioni alternative: una soglia del debito uguale per tutti, ma portandola dal 60 all’80/100 per cento (da rivedere ogni cinque-dieci anni); oppure soglie diverse per i diversi paesi. Ma questa seconda soluzione, anche se preferibile, porterebbe tensioni tra gli Stati perché sancirebbe uno stigma sui peggiori. In ogni caso, il paese che supera l’asticella del limite del debito dovrà presentare un piano di aggiustamento in quattro anni che rispetti, questo sì, una regola e una sola: il taglio del rapporto debito/Pil. Di quanto? La formula dipenderà dal livello iniziale, dicono gli autori, ma non dovrebbe superare il 2-3 per cento del Pil. Tutto con il controllo e il sigillo dell’approvazione del Consiglio d’Europa.

NGEU FOREVER

Dal Centre for economic policy research (CEPR), il prestigioso “thinknet” che coordina da Londra i migliori economisti europei su progetti di ricerca comuni, arriva il requiem più definitivo alle regole di bilancio che si è data l’Europa. Prima di tutto, gli eventi vissuti dal Continente negli ultimi dieci anni hanno portato a un processo di adattamento del sistema di policy dell’Europa per rimanere all’interno dei trattati esistenti. Adattandoli, aggiungendo dei pezzi, ma non cambiando l’impianto originario. Ma ci sono molti segnali che si è arrivati alla massima forzatura di quei limiti. È il caso delle fiscal rules: i trattati restano validi, ma i parametri che ne derivano sono diventati ormai irrilevanti.

Che cosa propone dunque il gruppo di economisti che firma il paper del CEPR (tra cui la sua presidente Beatrice Weder di Mauro, il vice Philippe Martin, ed economisti e giuristi come il francese Jean Pisani-Ferry, il belga Jean-Claude Piris, l’italiana Lucrezia Reichlin, il portoghese Miguel Maduro, il tedesco Armin Steinback)?

Tra l’idea più radicale di eliminare del tutto le regole numeriche, e quella di mantenere la regola numerica solo per il debito, ma abbandonando il principio che debba valere per tutti allo stesso modo, il paper del CEPR propende per quest’ultimo: la sostenibilità del debito è prioritaria, scrivono, ma con lo spazio per una stabilizzazione che tenga conto delle differenze tra i paesi. Quindi target specifici approvati dalla Commissione. Ed eventualmente la possibilità di usare la clausola di sospensione anche solo per un paese che dovesse trovarsi in seria difficoltà.

A entusiasmare il CEPR è soprattutto l’uso del Next Generation EU. Il programma che, scrivono, è andato oltre anche le più rosee speranze degli economisti e ha rotto tabù che sembravano inattaccabili. E che ha il merito di riportare sul tavolo un dibattito, quello della creazione di una bilancio comune europeo, che appariva congelato per sempre.

Il sistema di grant e di prestiti (di cui beneficia sopratutto l’Italia), l’effetto leva che ne moltiplica la potenza di fuoco, scavalca d’un balzo ostacoli considerati insuperabili, quello dei trasferimenti ai singoli Stati per le loro spese di bilancio, quello di indebitare l’Unione per farlo, e di poter aumentare le proprie risorse per ripagarlo. Ma NGEU è uno strumento off budget di natura eccezionale. Si può immaginare di trasformare l’emergenza in un meccanismo strutturale?

La risposta è sì, ma va maneggiato con prudenza, perché la materia è incandescente.

Una soluzione potrebbe essere quella di continuare a rinnovare il debito contratto anche oltre la data fissata del 2058 (aumentando anche le risorse per ripagarlo). Un’altra, sta nell’usare la struttura di Ripresa e Resilienza, che è l’organismo tecnico del piano, come modello per un coordinamento verticale per i futuri finanziamenti agli Stati impegnati in riforme per il benessere comune. Infine, si potrebbe affidare a NGEU una missione permanente per i tempi bui: non un portafoglio a cui attingere per le spese correnti, ma pronto a intervenire solo in caso di nuovi shock.

Nella disamina delle possibilità sul tavolo, il CEPR pone molta attenzione sui confini legali entro cui ci si può muovere per innovare le regole. Individuando le possibilità di fughe in avanti che i trattati consentono, e le rigidità che invece le impediscono. E concludono che i paesi europei dovranno affrontare un cammino di riforme che passi innanzitutto da una nuova dichiarazione di principi condivisi. Che trovino un accordo per riscrivere il quadro delle regole di gestione delle finanza pubblica, e lo facciano subito, prima che il periodo di sospensione delle regole sia scaduto. Per arrivare a mettere mano alle riforme legislative necessarie prima dello scadenza della legislatura europea.

RIVOLUZIONE STOCASTICA

Olivier Blanchard, Alvaro Leandro e Jeromin Zettelmeyer, i tre economisti che hanno prodotto il paper del Peterson Institute for international economics (tra i più accreditati think tank Usa), sono stati tra i primi ad affrontare il tema della revisione delle regole, che loro consigliano di abbandonare tutte – quella della spesa, quella dell’obiettivo di medio-termine, quella della procedura per deficit eccessivo, e via dicendo – senza rimpianti: disegnate come sono per abbassare il debito in un ambiente di tassi positivi, sono dei ferri vecchi nella situazione attuale, di alto debito e tassi quasi a zero. E anche perché un debito o un deficit possono diventare insostenibili non solo per il livello raggiunto, ma per una serie di fattori economici e politici imprevedibili, di cui le regole fiscali non possono tenere conto.

Che cosa mettere al posto delle regole numeriche abbattute? Una sola regola, non quantitativa ma qualitativa. Quella che viene definita un “fiscal standard”, cioè un obiettivo generale, affiancato da un sistema che accerti a posteriori se le politiche degli Stati membri lo hanno rispettato davvero (anche qui l’ispirazione viene dal sistema in uso in Nuova Zelanda).

Il metro a disposizione per questa verifica sta in una analisi della sostenibilità del debito di quel certo paese con un metodo stocastico, affidato cioè a un calcolo delle probabilità.

Il rovesciamento di prospettiva è totale: da una situazione definita ex ante a un criterio che valuta ex-post, e che permette a ciascun paese di fare la sua politica di spesa pubblica, con l’unica condizione di non mettere se stessi o gli altri in pericolo.

Ovviamente la cosa più difficile è costruire questi standard: come riconoscere quando un debito è eccessivo, o viceversa prudente? Si tratta quindi di costruire dei fiscal standard accompagnati da criteri, procedure e metodi codificati dalla legislazione Ue. Per esempio, il giudizio di debito eccessivo può essere legato alla considerazione che c’è un’alta probabilità che non sia sostenibile, in base a una analisi stocastica che esamina le diverse possibili evoluzioni del debito stesso. Certo, ammettono gli autori, non si tratta di esercizi facili, occorre maneggiare l’infida materia delle previsioni economiche, ma ci sono fior di istituzioni – dalla Commissione europea al Fondo monetario – in grado di farlo. E si affiderà a organismi indipendenti – sul modello del nostro Ufficio di Bilancio – e alla Commissione Europea l’incarico di analizzare la posizione fiscale dei vari paesi e di imporre gli aggiustamenti.

Dopo aver buttato nel cestino il Patto di Stabilità e crescita, sarà necessario introdurre un nuovo apparato legislativo che rafforzi il loro ruolo di giudici di ultima istanza sulla stabilità dell’Europa del dopo-Covid. Una vera rivoluzione, per un nuovo inizio.