La proposta dell'amministrazione Biden di una riforma globale sulla tassazione dei profitti delle grandi società multinazionali potrebbe trovare un accordo a livello di G20. Ma gli ostacoli non sono pochi. E se ci fosse una soluzione più semplice e anche più radicale per ottenere lo stesso risultato? Ecco la proposta
La recente proposta dell’amministrazione Biden di riforma dell’imposizione societaria rilancia l’opportunità di una soluzione coordinata a livello internazionale per la tassazione dei profitti delle società di maggiori dimensioni; profitti spesso cresciuti, per molte di queste società, anche nella fase di pandemia, ma che in molti casi, a causa della inadeguatezza dei sistemi fiscali rispetto alle sfide poste dalla globalizzazione e dalla digitalizzazione dell’attività d’impresa, scontano oggi imposte molto contenute.
L’attuale sistema di tassazione dei redditi societari è stato concepito in contesto economico totalmente diverso dall’attuale. Si trattava di un contesto in cui gli investimenti delle imprese e la loro espansione sui mercati internazionali presupponevano lo stabilimento di sedi fisse di produzione di beni materiali in ordinamenti diversi da quelli di residenza fiscale delle imprese stesse. Era, in definitiva, un sistema costruito per un’economia brick and mortar, nella quale la produzione di rilevanti profitti di impresa in giurisdizioni diverse da quelle di localizzazione della casa madre e la loro tassazione in loco avrebbero imposto anche una presenza “fisica” su quei territori.
Nel tempo, tutto è cambiato. L’impresa multinazionale oggi produce profitti a livello globale e tali profitti non sempre sono facilmente collegabili, in base alle tradizionali regole di fiscalità internazionale, ai mercati sui quali l’impresa è attiva. I sistemi fiscali nazionali e, con essi, il diritto dei trattati non hanno saputo tenere il passo della velocissima evoluzione economica.
Di fronte all’erosione delle basi imponibili determinata dal dirottamento dei profitti d’impresa verso giurisdizioni a bassa fiscalità, gli ordinamenti nazionali, incapaci di elaborare velocemente nuove regole fiscali adeguate al mutato contesto economico, hanno cercato di trattenere e/o attirare le imprese con lo strumento di una corsa al ribasso delle aliquote di tassazione del reddito d’impresa (nei Paesi OCSE l’aliquota dell’imposta societaria era in media intorno al 42 per cento a metà degli anni Ottanta e oggi è inferiore al 25 per cento).
In questa competizione hanno avuto gioco facile i paesi più piccoli che hanno potuto ridurre il prelievo fiscale compensando, proprio grazie all’afflusso di investimenti delle multinazionali estere, la perdita di gettito derivante dall’applicazione di un’aliquota ridotta sulle imprese domestiche. Per i paesi più grandi la concorrenza fiscale ha portato invece a una riduzione significativa del gettito derivante dalle imposte sul reddito di impresa.
In questo scenario, l’amministrazione Trump aveva perseguito una politica fiscale go alone e aveva bloccato il progetto BEPS (Base Erosion and Profit Shifting) studiato dall’OCSE fin dal 2013, considerandolo quasi un escamotage dell’Unione europea per prendere di mira le imprese statunitensi del web.
Per reazione, si è aperta la via alla sperimentazione delle digital tax nazionali: una sorta di “contraerea” volta a far cadere sui territori nazionali il gettito di profitti di imprese con sede in paradisi fiscali che altrimenti non avrebbero mai toccato terra. Peccato che siano state iniziative unilaterali (come quelle lanciate in Europa da Francia, Regno Unito e anche Italia, e come quella indiana sulle società tecnologiche straniere).
Oggi l’amministrazione Biden, che si avvia a lanciare un programma di spesa pubblica da 1900 miliardi di dollari in dieci anni, propone un cambio sostanziale di approccio: dopo un trentennio di “race to the bottom”, si andrebbe negli Stati Uniti verso un aumento dell’aliquota della tassazione societaria dal 21 al 28 per cento, invertendo così la tendenza alla riduzione delle imposte operata dall’amministrazione Trump nel 2017 (l’aliquota ante 2017 era al 35 per cento).
Ovviamente l’aumento della tassazione sulle società, ove deciso e attuato dai soli Stati Uniti, spingerebbe le multinazionali statunitensi a spostarsi in giurisdizioni a più bassa fiscalità; da qui l’altra proposta di riforma lanciata dall’amministrazione Biden, che afferma espressamente la necessità di un accordo internazionale per una global minimum tax, cioè un’aliquota minima al 21 per cento da imporre sui profitti realizzati all’estero delle imprese di maggiori dimensioni.
Se condivisa, questa global minimum tax ridurrebbe di molto il profit shifting delle imprese multinazionali, ricollegandosi così alla soluzione multilaterale della tassazione delle imprese multinazionali del digitale, studiata nell’ambito del progetto BEPS dell’OCSE.
Tale progetto si proponeva due obiettivi principali, tra loro fortemente connessi – superare gli attuali criteri basati sulla presenza fisica per adattare le regole di fiscalità internazionale alle nuove modalità di business delle imprese digitali; introdurre un livello minimo di tassazione per le imprese operanti a livello internazionale – ma si era arenato sia per la resistenza dei “paradisi fiscali” nascosti nelle pieghe dell’Unione europea (in primis Lussemburgo, Olanda, Irlanda), sia per l’opposizione degli Stati Uniti di Trump, contrari a una tassazione dei servizi digitali perché ritenuta discriminatoria nei confronti delle Big Tech statunitensi.
Oggi l’accordo tra i Paesi avanzati sulla proposta Biden potrebbe effettivamente rappresentare il primo passo per una riforma del sistema di tassazione in cui i paesi si coordinino invece di competere, riducendo gli effetti negativi della concorrenza fiscale al ribasso.
Per i principali Paesi dell’Unione europea, già caratterizzati da un’aliquota di tassazione delle imprese societarie pari o superiore al 21 per cento, implementare l’aliquota minima proposta da Biden non sarebbe un problema, così come non sarebbe un problema rinunciare a implementare inefficienti digital tax nazionali.
Draghi, presidente di turno del G-20, ha già dichiarato di essere a favore di un’imposta minima sulle imprese. Un accordo globale in tempi ragionevoli sembra possibile e una soluzione a livello G-20/ OCSE avrebbe sicuramente il pregio di contrastare il veto dei “paradisi fiscali” europei.
Naturalmente attuare la global minimum tax non sarà facile: non solo per la prevedibile reazione delle multinazionali, ma anche perché – al di là dell’accordo sull’aliquota – occorrerà risolvere questioni tecniche complesse, che vanno dalla definizione della base imponibile globale (tema che impone la necessità di confrontarsi con i sistemi fiscali dei diversi Paesi e sul quale si è arenata la risalente proposta di direttiva europea sulla CCCTB), alla disciplina fiscale delle perdite (carry forward o anche carry back?), o ancora alla definizione della tipologia di imposte pagate nel paese di produzione del reddito da riconoscere a credito.
In vista di un accordo internazionale, varrebbe la pena indagare anche su una soluzione diversa e più radicale: quella destination based cash flow tax che consentirebbe di tassare solo i flussi di cassa domestici, eliminando la pratica del profit shifting e garantendo alle imprese l’immediata deduzione dei costi per investimento. I border tax adjustments sposterebbero il luogo dell’imposizione dalla produzione al consumo, individuando nel mercato il nuovo fattore della produzione dei profitti. Forse questa potrebbe essere la vera riforma che guarda lontano per la tassazione d’impresa.