La direttiva sul risanamento e sulla risoluzione delle banche (BRRD) ha, fra l’altro, introdotto nel nostro ordinamento il nuovo istituto del bail-in. E’ istituto talmente nuovo per il nostro ordinamento che il legislatore neppure ha provato a darne una traduzione italiana, lasciando l’oscuro nome inglese (si sono comportati in modo analogo, peraltro, molti dei legislatori europei). Si tratta, come ben sappiamo, di uno degli strumenti a disposizione dell’Autorità per la gestione della risoluzione della banca in crisi, della quale si propone di ripristinare, per come possibile, l’equilibrio di bilancio, attraverso la svalutazione e/o la conversione in capitale delle passività. L’istituto si pone, dunque, quale misura alternativa – se pur con i limiti che vedremo – al salvataggio delle banche con risorse pubbliche (bail-out), da ora in poi teoricamente non più possibile. Nel nuovo mondo, infatti, le perdite dell’azienda di credito sono destinate a gravare in primis su chi ha investito nel capitale di rischio (azionisti) e in secundis su chi la banca ha finanziato (creditori, gravati secondo un ordine affatto particolare previsto dalle norme comunitarie). La scelta è compiuta, oramai, e davvero non ha senso cercare tardivamente di rimetterla in discussione, dimenticando che il nostro paese ha concorso all’approvazione della nuova disciplina. Ciò detto, non possiamo però ignorare che il bail-in, per come è stato disegnato, pone delicati problemi di sistema ove inserito dall’alto nel nostro ordinamento, derivanti probabilmente da una formulazione affrettata delle norme, aggravata dall’uso di una terminologia tecnica non rigorosa, a volte divergente rispetto al significato tradizionalmente attribuito a determinati concetti (conversione, svalutazione, irregolarità, risoluzione …). Nonostante l’istituto sia basato sul principio della depositors protection, la sua oscurità e “imprevedibilità” nella gestione da parte delle (diverse) autorità preposte può creare preoccupazione fra i depositanti e i creditori della banca. E ciò è assai pericoloso per un’impresa, come quella bancaria, che si basa proprio sul rapporto di fiducia con i clienti.
I problemi di compatibilità posti dal nuovo istituto sono diversi.
Partiamo con ordine.
Il regolamento n. 806/2014/UE prevede, all’art. 3, co. 1, n. 33), che per «strumento del bail-in» si intende «il meccanismo per l’esercizio dei poteri di svalutazione e di conversione in relazione alle passività di un ente soggetto a risoluzione». Dal canto suo, la direttiva definisce il bail-in come un meccanismo «di svalutazione e di conversione» (cfr. artt. 43 e 59 e ss., in particolare 59, par. 2, e art. 63, par. 1, lett. da e a i).
Il meccanismo può essere attivato dall’autorità di risoluzione, che ha dunque il potere di imporre la svalutazione (wipe-out e write-down) o la conversione (bail-in in senso stretto) per eliminare o ridurre le passività della banca soggetta a risoluzione [Presti]. E’ attraverso il bail-in che la banca che abbia perso o rischi di perdere il capitale potrà essere ricapitalizzata, all’alternativo fine di agevolarne la vendita (art. 37, par. 3, lett. a) BRRD) ovvero di ripristinarne temporaneamente le condizioni di esercizio dell’attività, per poi attuare la separazione delle attività stesse (art. 37, par. 3, lett. c) BRRD), ovvero ancora per dotare del capitale sufficiente l’eventuale ente-ponte o bridge bank (art. 37, par. 3, lett. b) BRRD) [Kranen, Moretti].
In pratica, sulla base di una valutazione preliminare delle passività della banca, l’equilibrio di bilancio viene ripristinato utilizzando risorse reperite presso coloro che nella banca già hanno investito, anche se sotto forma di prestito e non sotto forma di capitale di rischio [Rulli, Stanghellini].
Si ha dunque, in questo caso, una conversione forzosa dei diritti dei creditori della banca [Capizzi, Cappiello].
E qui si pone un primo problema di sistema [Lener, Rulli].
Il nostro diritto fallimentare conosce da tempo l’istituto della conversione, ma in questo caso la conversione opera in modo affatto anomalo.
Nelle ipotesi già note al nostro ordinamento la conversione si effettua, infatti, sempre in base a un accordo fra debitore e creditori. Accordo che può essere raggiunto ex ante (ad es. accordi di ristrutturazione del debito) o ex post (ad es. concordato preventivo, amministrazione straordinaria); accordo che, beninteso, può essere raggiunto anche contro la volontà di alcuni creditori, ove questi aderiscano a maggioranza. Ma la conversione attraverso bail-in è tutt’altro: non c’è alcun accordo. Essa è imposta dall’autorità anche contro la volontà dell’intero ceto creditorio [Presti, Capizzi, Cappiello]. In più, mentre nelle ipotesi già note, come nel concordato, i creditori, per il tramite del voto, si esprimono sul tasso di conversione, nel bail-in la sua determinazione è rimessa interamente a un esperto, che non decide certamente nel (solo) interesse dei creditori, ma nell’interesse pubblico e superiore a che la banca resti operativa per poter meglio essere “collocata” sul mercato.
In questo modo l’autorità di risoluzione è investita di un potere enorme, definito near-dictatorial [Presti], tanto che lo stesso legislatore europeo ha cercato di comprimerlo delegando all’EBA sia l’emanazione di technical advice, sia la mediazione vincolante per il caso di disaccordo tra autorità nazionali nelle risoluzioni transfrontaliere.
Un secondo problema è quello della sussumibilità del nuovo istituto fra le procedure concorsuali.
Invero, mentre è chiaro che la ricapitalizzazione della banca diviene una soluzione generale e alternativa alla liquidazione, e dunque anche alla liquidazione coatta amministrativa, tutt’altro che chiaro è se e come la nuova procedura concorra con le vigenti procedure concorsuali.
Si è detto che l’applicazione di siffatti nuovi «strumenti» non esclude che, in concorso con la procedura di risoluzione, sia attivata anche una procedura concorsuale ordinaria, ad esempio con riferimento a singole passività della banca [Stanghellini].
Non di meno, ove una banca sia sottoposta a una procedura mista risolutivo – liquidativa, come in astratto possibile, il perimetro delle passività soggette a risoluzione (e al bail-in) resta certamente escluso dall’applicazione dalla disciplina interna della crisi di impresa [Rulli].
In altre parole, se anche i due regimi concorrono, ciò deve necessariamente avvenire su porzioni diverse del patrimonio: l’area della risoluzione soggetta a bail-in è sottratta alle regole della concorsualità ordinaria.
E ciò appare indirettamente confermato dal D.L. n. 183/2015, con cui sono state risolte le crisi di quattro banche, utilizzando al contempo istituti nuovi (ente ponte, svalutazione delle passività) e istituti preesistenti (amministrazione straordinaria, liquidazione): è stato infatti necessario uno specifico intervento del legislatore per far coesistere le diverse misure, a dimostrazione del fatto che il sistema di nuova creazione non è autosufficiente, nel senso che necessita di regole di dettaglio ulteriori per funzionare nel contesto di un diritto concorsuale non ancora riformato per adattarsi ai nuovi, dirompenti istituti.
La verità, al fondo, è che la “procedura di risoluzione”, non è una procedura concorsuale in senso stretto.
La possibile svalutazione, anche integrale, delle passività della banca comporta la cancellazione delle posizioni creditorie di taluni soggetti con la conseguenza che essi non possono, neppur in astratto, concorrere alla distribuzione dell’eventuale attivo residuo.
Non c’è concorso. Non c’è par condicio creditorum. Il provvedimento di risoluzione cancella i diritti dei soggetti incisi. Sul punto si tornerà infra.
Altro problema è dato dalla non determinabilità a priori dei creditori incisi dalla procedura.
E’ vero che le passività assoggettabili a bail-in sono descritte nella direttiva, ma ciò avviene per differenza, nel senso che lo strumento potrà essere applicato a tutte le passività «che non sono escluse dall’ambito d’applicazione», a norma dell’art. 44, par. 2 e 3, BRRD.
L’ordine di priorità individuato dalle nuove norme mette in fila azionisti, titolari di altri strumenti di capitale, titolari di altri strumenti «subordinati» non integranti il capitale regolamentare (quali le ben note obbligazioni subordinate), altri creditori chirografari, «piccoli» correntisti con depositi superiori a 100.000 euro, fondo di garanzia dei depositi, che interviene in luogo dei depositanti protetti.
Sin qui il sistema potrebbe dirsi chiaro. Ma, se si vanno ad analizzare le passività escluse, il discorso cambia.
Vi sono, infatti, esclusioni obbligatorie o permanenti – passività, cioè non bail-inable – speculari alle passività incluse appena elencate (depositi protetti, passività garantite, passività detenute dalla banca quale depositario, passività a breve verso altre banche o derivanti dalla partecipazione a sistemi di pagamento, debiti verso dipendenti o verso il fisco, se privilegiati).
Vi sono però anche esclusioni facoltative, in quanto l’art. 44, par. 3, BRRD espressamente prevede che «in circostanze eccezionali» alcune passività possono essere escluse, in tutto o in parte, dall’area del bail-inable.
A decidere, in questo caso, è discrezionalmente l’autorità di risoluzione, cui si chiede solo di rispettare i principi di efficacia, necessità e ragionevolezza, che sono genericamente declinati in relazione ai tempi (eccessivamente lunghi) del bail-in, ovvero alla necessità di garantire la continuità delle funzioni essenziali dell’ente, o ancor più genericamente per evitare «ampi contagi», o «distruzioni di valore».
Innegabilmente, siffatta ampia discrezionalità non giova alla chiarezza del sistema.
Non solo, ma tutta questa complessa disciplina, pensata per escludere l’intervento pubblico, in realtà non garantisce questo effetto. E’ infatti espressamente previsto che in circostanze eccezionali, ove sussista il rischio che la crisi di una banca abbia gravi ripercussioni sul funzionamento del sistema finanziario nel suo complesso, si potrà ricorrere al denaro pubblico, con la contorta clausola che comunque siffatto bail-in (parziale) non dovrà giovare (troppo) ad azionisti e creditori, ai quali si chiede comunque un sacrificio pari almeno all’8 per cento [chissà poi perché] del totale del passivo (art. 44, par. 5 ss. BRRD), mentre il contributo pubblico non dovrebbe – ma possono esserci deroghe – superare il 5 per cento delle passività totali. Un esempio di scarsa lucidità legislativa, o forse, meglio, una ammissione che del denaro pubblico non sempre potrà farsi a meno, al di là delle petizioni di principio.
Altro problema è quello del trattamento non peggiore del creditore, fissato in via generale dalla direttiva per temperare, in qualche modo, la sostituzione della tradizionale classificazione dei creditori in categorie con la – come si è visto – assai più incerta distinzione fra il bail-inable e non bail-inable.
Si legge, al proposito, nel considerando 73, BRRD, che deve essere garantito « … il rispetto del principio secondo cui nessun creditore può essere svantaggiato rispetto alla procedura ordinaria di insolvenza».
Viene, in questo modo, enunciato il principio del c.d. no creditor worse off, a mente del quale il creditore della banca sottoposta a risoluzione non deve venirsi a trovare in una condizione economica peggiore di quella in cui si sarebbe trovato qualora la banca fosse stata sottoposta a una procedura concorsuale di tipo liquidatorio (cfr. anche art. 34, lett. g, BRRD).
Ora però, se si dovesse applicare sino in fondo siffatto principio, il bail-in dovrebbe essere attuato in modo tale da riflettere in pieno la gerarchia dei creditori, così come prevista dalle procedure concorsuali nazionali che sarebbero state applicabili in luogo della risoluzione [Capizzi, Cappiello].
Ciò non appare, invero, possibile.
Da un lato, infatti, le passività bail-inable non sono sempre note, come abbiamo visto, con la conseguenza che la verifica del rispetto del principio del trattamento non peggiore è pressoché impossibile ex ante, giacché non si può sapere esattamente nei confronti di quali creditori esso debba trovare applicazione [Rulli].
Dall’altro canto, nel caso di gruppi bancari multinazionali, il rispetto del principio appare, di nuovo, quanto meno problematico, data la non omogeneità delle procedure concorsuali a livello comunitario [cfr. Boccuzzi]. Si dovrebbe, quindi applicare la regola in esame in modo difforme nelle diverse giurisdizioni in cui il gruppo transnazionale è presente, per rispettare la regola del trattamento non peggiore con riferimento alle diverse discipline concorsuali domestiche.
Altro passaggio delicato attiene alla compatibilità del bail-in con le garanzie costituzionali dei diritti fondamentali dei cittadini. Questione che ha recentemente portato a una prima pronuncia di incostituzionalità nel luglio 2015 da parte della Corte austriaca [caso Hypo Adria Alpe Bank].
Indubbiamente il nuovo sistema comporta, in primo luogo, una forte comprensione del diritto di proprietà, tutelato tanto dalla Costituzione (cfr. art. 42 e 47 Cost.), quanto dalla CEDU (cfr. art. 1, protocollo 1, e art. 52). E trovare il corretto punto di equilibrio tra interesse pubblico e interesse privato è tutt’altro che agevole, anche a convenire sulla tendenziale prevalenza del primo.
D’altro canto la potenziale “espropriazione” del diritto di proprietà non è l’unico aspetto rilevante: il soggetto inciso dal provvedimento si può trovare a essere privato di altri diritti patrimoniali o anche dei diritti amministrativi compresi nella partecipazione sociale [Hüpkes]. Ed è stato correttamente notato [Rulli] come la privazione delle competenze deliberative dei soci in ordine al capitale sociale è qui assai più profonda di quanto avviene, ad es., nel concordato preventivo, in caso di conversione dei diritti dei soci, mancando nel bail-in anche il rimedio dell’opposizione nell’ambito del giudizio di omologazione.
Quanto detto assume connotati ancor più forti in relazione a crediti sorti prima dell’introduzione della BRRD. Si può ammettere, in questi casi, siffatto effetto espropriativo a carico di quanti avevano investito nel capitale di rischio della banca o anche finanziato l’ente sottoposto a risoluzione in un momento in cui l’ordinamento non prevedeva la riduzione e la conversione forzata dei diritti? Appare dubbio che si possano gravare di conseguenze così dirompenti soggetti il cui diritto sia sorto prima dell’entrata in vigore del bail-in.
Il vero problema è che il provvedimento che svaluta le passività della banca, come si è accennato, cancella il rapporto di credito dall’ordinamento, privando il creditore anche della possibilità di insinuarsi al passivo della banca, così aggirando il principio della responsabilità patrimoniale previsto dall’art. 2740 c.c.
In pratica, il creditore azzerato perde non solo il diritto di credito, ma anche la possibilità di agire in sede concorsuale – ed è irrilevante al riguardo che la possibilità di recupero sia remota – non potendo in nessun caso soddisfarsi su eventuali attivi residui, come invece avverrebbe nell’ipotesi di liquidazione coatta amministrativa. Non pare rispettata la par condicio, né, in ultima analisi, ilo stesso principio del no creditor worse-off .
* Intervento al Convegno del Fondo Interbancario di Tutela dei Depositanti, 22 Gennaio 2016